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giovedì 13 luglio 2017

Necandi Homines - Da'at

#PER CHI AMA: Esoteric Black Doom
Una lunghissima intro in stile Myrkur ("Memento" dura infatti oltre otto minuti) apre il disco dei Necandi Homines, oscuro quartetto marchigiano, formatosi addirittura nel 2007, dedito ad una forma introspettiva di black doom. 'Da'at' è il disco d'esordio per i quattro ragazzi di Jesi, nelle cui fila si nascondono anche membri dei ben più affermati Infernal Angels. Il disco, dopo il noise cibernetico iniziale che mostra il classico dualismo vocale, etereo e malvagio, non sembra decollare neppure con la seconda "The Faceless Sculpture", traccia ancor più pacata e sinistra della opening track, con pochi arpeggi relegati in sottofondo ad un'atmosfera angosciante che prelude a qualcosa di brutto, pronto da li a poco ad accadere. E finalmente l'elettricità e la rabbia divampano in un sound caliginoso, compassato e decadente, fatto di un lento ed ipnotico riffing, contrappuntato dalle classiche arcigne screaming vocals. Sono ancora disturbanti e lugubri ambientazioni poi a prendersi la scena, in uno scorcio apocalittico che prosegue anche nella successiva "The Fifth Dimension", una sorta di colonna sonora per un film come Blade Runner. È infatti un'altra atmosfera tremendamente cupa e minacciosa a contraddistinguere quella che pare piuttosto essere un interludio strumentale per la quarta "Desolation of the Ocean After the Storm" ed i suoi riverberi iniziali di chitarra, spezzati da un marcescente cantato che dona una fisionomia più tangibile al brano, ed in generale, ad un album che a più riprese sembra essere in grado di generare stati di ansia e delirio. Si arriva all'ultimo infinito baluardo da superare, gli oltre 17 minuti di "Through Deep Waters", una canzone che parte se possibile, ancor più minacciosa e desolante delle precedenti, con l'utilizzo di chitarra e basso che mi hanno ricordato un inimmaginabile ibrido tra i Laetitia in Holocaust e i Massive Attack. La musica esplode finalmente in un'onda black che fino a questo momento è parsa confinata in seno ai quattro demoni italici. Ma le sorprese non sono affatto finite, perché quel black lascerà il campo ad un suono elegiaco, liturgico, tribale, esoterico, fate voi, a seconda di quello che esso sia in grado di trasmettervi, con tanto di voci corali capaci di confondere ulteriormente i sensi. La comparsa di un'inedita voce femminile amplifica poi il mio status umorale alterato, il suo contrapporsi allo screaming ferale di Discissus, ripristina lo status quo, in un agghiacciante finale strumentale che esalta la prima notevole fatica dei Necandi Homines, una straordinaria sorpresa con cui passare una torrida estate di paura. (Francesco Scarci)

(Vacula Productions - 2017)
Voto: 75

https://vaculaproductions.bandcamp.com/album/daat

mercoledì 12 luglio 2017

Disharmony - Goddamn the Sun

#PER CHI AMA: Hellenic Death Black Metal, Rotting Christ
Ricordo perfettamente quei primissimi anni '90 e il fermento musicale che c'era in Grecia: sul mercato europeo si affacciavano i Rotting Christ e i Zemial con i loro rispettivi EP di debutto, 'Passage to Arcturo' e 'Sleeping Under Tartarus'. Varathron, Thou Art Lord, Septic Flesh e Necromantia muovevano i primi passi attraverso demo e split album, mentre il sottoscritto cercava tapes di band underground quali Dion Fortune e Disharmony. Non sembra essere cambiato nulla da quegli anni, nemmeno musicalmente, il sound ellenico non ha mutato la propria pelle, mantenendosi fedele al proprio stile. A distanza di 27 anni dalla loro fondazione, arriva anche il debut fin troppo agognato dei Disharmony, 'Goddamn the Sun', che mantiene intatto quel magico sound nato quasi tre decadi fa. Sebbene l'intro "Invocation - Troops of Angels" soffra di qualche reminiscenza gotica dei Cradle of Filth di 'The Principle of Evil Made Flesh', risulteranno poi palesi i punti di contatto di "The Gates of Elthon" con i primi Rotting Christ, in un death black ammantato di un mistico alone e che vede punti di contatto con la band di Sakis e compagni, anche nel modo di cantare di Damien King III, l'unico superstite della formazione originale, e nelle ritmiche incentrate su un riffing scarno e su di una tribalità di fondo. "Elochim" è un gran bel pezzo che si muove su di una ritmica a cavallo tra thrash e black, e che a livello solistico, strizza l'occhio al classico heavy metal degli anni '80, questo per ricordare ai fan dove risiedano le origini dei nostri, dimostrato peraltro anche da un sound non propriamente pulito, ma che serve a ristabilire quel mood primordiale che si ritrovava nei loro demotapes. E in "Summon the Legions" sono palesi non solo i riferimenti musicali ad un death black thrash che richiama anche i primissimi Bathory, ma anche lirici, con l'invocazione a tutti gli angeli caduti, Azazel, Samael e Satana. Il disco prosegue piacevolmente in questa direzione con pezzi che mostrano il classico sound ellenico, fortunatamente riservando anche qualche sorpresa ad un tema che rischierebbe di risultare poi davvero scontato: in "War in Heaven" ecco apparire una strana e flebile voce femminile a fare da contraltare al growling del frontman greco. "Rape the Sun" ha un andamento decisamente più lento, quasi doom; però la song, per quanto goda di buoni arrangiamenti a livelli di keys, non è decisamente una delle migliori cose uscite dalla discografia dei Disharmony, che tornano a convincere maggiormente con "Whore of Babylon", un pezzo più breve, decisamente melodico e carico di pathos, cosi come la tradizione ellenica pretende e tra l'altro sciorinando un bell'assolo conclusivo. Ci avviamo verso la conclusione del disco e rimangono da ascoltare "The Voice Divine" e "Third Resurrection": il primo è un normalissimo pezzo black thrash, che non aggiunge granché a quanto detto sinora, anzi rimane sottotono rispetto agli altri brani del disco. Il secondo invece, mostra il lato più epico e magico dei Disharmony che ci riconduce per l'ultima volta a quei primissimi anni '90, quando sarebbe stato più giusto che 'Goddamn the Sun' uscisse, per meritare l'attenzione che realmente meriterebbe oggi. Ora, mi sa che è fuori tempo massimo e farà la gioia probabilmente solo dei vecchi nostalgici di quel mistico e mitico hellenic sound che per molti anni ha rappresentato la culla di un genere unico ed inimitabile. (Francesco Scarci)

(Iron Bonehead Productions - 2017)
Voto: 70

https://disharmony108.bandcamp.com/album/goddamn-the-sun-2

martedì 11 luglio 2017

Tenax - S/t

#PER CHI AMA: Rock'n Roll
This is rock'n roll... il riffing iniziale di "Gogna" potrebbe essere l'emblema dell'hard rock italico. Tuttavia, quando i nostri cominciano a cantare sulle graffianti linee di chitarra, ecco che nella mia mente si rincorrono diversi paragoni che mi portano ad affermare pericolosamente che il frontman mi ricorda un ipotetico ibrido tra Ligabue e Piero Pelù. Chiaro, non proprio il mio genere penseranno alcuni di voi, però non male ogni tanto abbandonarsi ad un sound più leggero, ove capire i testi (rigorosamente in italiano) e ritrovarsi a cantare il chorus del brano "No, io non ci sto nel gioco perverso della gogna mediatica", rivolto polemicamente (e con tutto il mio appoggio) ai talent show musicali. Gli ingredienti dell'hard rock ci sono tutti, quindi inutile stare qui a raccontarvi come suoni il genere dopo quasi 50 anni di storia. Meglio soffermarsi su altri particolari: al blues rock della seconda "Club 27" ad esempio, una song che ha richiami nascosti ai Doors di "Break on Through (to the other side)" e narra ovviamente di quegli artisti maledetti che in un modo o nell'altro, hanno perso le loro preziose vite a 27 anni. "Virtual Love" si affida ad un giro di chitarra molto classico, a delle vocals e a dei testi suadenti. Il brano però sembra non decollare e francamente preferisco skippare avanti sperando in un qualcosa di più movimentato. Vengo prontamente accontentato da "Vivo Libero", ultima traccia di questo breve EP, un'altra song di sicuro divertente da apprezzare dal vivo, energica e appassionata, che sancisce lo sconfinato amore dei nostri nei confronti del rock immortale. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/tenaxband

Infinitas - Civitas Interitus

#PER CHI AMA: Epic/Folk/Power
Dal cuore della Svizzera, ecco arrivare il folk-metal degli Infinitas, band nata otto anni fa, ma che solo in questo 2017, riesce ad esordire sulla lunga distanza con questo 'Civitas Interitus', dopo aver rilasciato un EP nel 2015. Ebbene, inizierei col dire che i suoni del quintetto proveniente da Muotathal, possono sembrare abbastanza fuorvianti all'inizio, almeno fino a quando i nostri non mostrano una certa coerenza musicale. Tralasciando l'intro in svizzero tedesco, non posso che rimanere ammaliato da quello che sembra il canto di una sirena collocato sopra una chitarra acustica. Da li a un minuto, rimango invece impietrito di fronte ad un micidiale attacco death/thrash, quello della tonante "Alastor", che ci presenta immediatamente le qualità dietro al microfono della procace Andrea, che si presenta con una voce che varia tra l'urlato, un rarissimo growl e una voce più pulita che si accompagna con un rifferama ora decisamente più orientato all'heavy metal, anche nel pseudo assolo conclusivo. Strano constatare come la song, ma è applicabile comunque per l'intero disco, mostri più facce della stessa medaglia all'interno di uno stesso brano, con la convivenza di più umori e generi. Con "Samael" fa la sua comparsa anche un violino, una voce maschile si accompagna a quella della frontwoman, cosi come cori ben più carichi di groove e melodia, e un riffing che persiste nel ringhiare in territori thrash metal viene smorzato dal folk dei nostri che si fa sempre più arroventato. "Labartu" è un pezzo che parte assai compassato instillando inizialmente un'atmosfera quasi bucolica che ci porta lontano con la mente, in terre incantate su montagne verdi, forse proprio quelle del Cantone Svitto, da cui la band proviene. Nella seconda parte, decisamente più ritmata, possiamo apprezzare nuovamente la performance vocale della brava vocalist, il rullare di una tempestosa batteria e una specie di assolo di basso, tutti elementi che rendono la song parecchio interessante, seppur pecchi un po' in prolissità. "Aku Aku" è un oscuro pezzo strumentale che spezza il ritmo incessante instaurato fin qui dal combo elvetico e che ci introduce alla seconda parte del disco, quella che inizia con la accattivante "Skylla", pezzo meno tirato rispetto ai precedenti, quello che potrebbe anche scalare le classifiche per una vena pop insita nelle sue note, che vedono una versione più equilibrata di Andrea alle vocals. Con "Rudra" si torna a viaggiare sulle velocità heavy fin qui prodotte, con qualche backing vocals che fa capolino qua e là, opera del drummer. La song mantiene intatto il suo spirito folklorico in un incedere che continua a preservare qualche traccia di thrash metal, che si conserverà anche nella successiva "Morrigan", in cui la cantante, per qualche istante, si lancerà addirittura in un cantato lirico. Ancora il violino ad aprire "Amon", un'altra song dal rifferama compatto e veloce che per alcuni versi mi ha evocato anche un che dei Running Wild, e che propone un bel break centrale. Arriviamo al lungo finale affidato a "A New Hope", oltre tredici minuti aperti da uno spoken word in lingua germanica, poi eteree melodie e angeliche vocals che, insieme al suono del mare, dischiuderanno l'ultima sorpresa, un'arrembante ghost track che chiude un disco solido, piacevole e indirizzato soprattutto agli amanti di heavy/power/epic/folk, ma anche ai fan più aperti di thrash e death metal. (Francesco Scarci)

lunedì 10 luglio 2017

Abigail’s Mercy - Salvation

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic Rock, primi Lacuna Coil
Uscita non certo brillante quella dei britannici Abigail’s Mercy, esponenti di un certo gothic rock “vecchia scuola” non proprio fenomenale, sebbene le qualità tecniche e compositive del quartetto di Birmingham non si discutano. Innanzitutto, i nostri dovrebbero far chiarezza su cosa suonare: proporre un sound più robusto affinché non suoni troppo scialbo e molle, con quei suoi passaggi che rasentano il pop rock, e allo stesso tempo, utilizzare la voce di Steve che in alcuni gorgheggi ricorda quella di L.G. Petrov degli Entombed. In taluni momenti, il combo inglese ricorda i Paragon of Beauty o i nostrani Lacuna Coil, mentre in altri, chiari sono i riferimenti al punk rock anni ’80 (Billy Idol in primis, basti ascoltare “Keep Me Coming”). Appurato questo, andrebbero fatte alcune correzioni all’interno della line-up: per prima cosa si dovrebbe scegliere una cantante femminile adeguata per sostituire la penosa Lindsay oppure forse meglio lasciar cantare esclusivamente Steve, a cui manca comunque una certa dose di personalità. Alla fine, probabilmente, riuscirei anche ad apprezzare il cd, senza farlo arrivare necessariamente sul patibolo; e dire che alcuni brani di 'Salvation' non sarebbero neppure da buttare nella pattumiera, anche se non stroncare il debut del quintetto albionico mi viene assai difficile. Gli Abigail’s Mercy hanno concepito un album sottotono, che sicuramente avrà diviso la critica in detrattori e ammiratori. E io mi son schierato decisamente con i primi, in attesa che la band faccia maggior chiarezza sul come suonare... (Francesco Scarci)

(Casket Music - 2005)
Voto: 50

https://www.facebook.com/AbigailsMercy

giovedì 6 luglio 2017

Krowos - Verbum Luciferi

#PER CHI AMA: Black, primi Rotting Christ
Secondo album per i blacksters siciliani Krowos, dopo il debut 'Enthroning Our End', ormai datato 2013. Certo, i catanesi non sono rimasti con le mani in mano in tutto questo tempo e dopo aver fatto uscire tre split album, tornano con questo inno di estremismo sonoro edito dalla Nigredo Records, intitolato 'Verbum Luciferi'. Cosa aspettarsi? Credo che la proposta musicale sia insita nel titolo dell'album, black metal è chiaro. Tuttavia non etichetterei cosi facilmente la proposta del quintetto siculo, in quanto nelle linee melodiche della title track, nonché opener del disco, si celano influenze tipicamente mediterranee che si traducono in cori epici e assai melodici che sparigliano le carte e le idee che mi ero inizialmente fatto dei nostri. Chiaro che l'approccio è quello tipico del black, cosi come certificato anche dalla seconda "Infamia in Excelsis", un attacco frontale ferale e senza pietà sferrato da perfidi adoratori di Satana, che tuttavia stupiscono per quei break acustici o quel cantato pulito che si colloca tra i diabolici vocalizzi in screaming di Tsade e che contribuiscono nel donare un che di esoterico al lavoro in sé. Un riffing sghembo apre "Vangelo", che vede un contrasto a livello vocale tra la voce efferata del frontman e un cantato più liturgico e celebrativo, in quello che sembra essere più un sinistro rituale esoterico. Il caos torna sovrano nelle arrembanti ritmiche di "Malignus": fortunatamente il cantato corale smorza le tensioni generate dalle violente ritmiche dei nostri che senza i frangenti più melodici, finirebbero per essere una delle tante inutili band estreme che popolano un underground sempre più saturo. Eppure, i Krowos hanno trovato una formula che a me piace parecchio e che trova forme primigenie nei primissimi In Tormentata Quiete, negli Inchiuvatu, citando anche gli albori degli Ecnephias e spostandoci un po' più in là, nei primi Rotting Christ, Varathron e altre realtà della scena estrema ellenica. Convincenti, devo ammetterlo, mescolare il black più ferale e caustico, con le melodie della scena mediterranea, il doom ("Credo") e una certa coralità assai evocativa, non è mai cosa semplice. L'ultima tappa di questo verbo di Lucifero è affidata a "Offertorio", ultimo tributo dei Krowos al signore della luce, attraverso ottime melodie, un egregio lavoro al basso, e gli immancabili cori, vero punto di forza di 'Verbum Luciferi', album che mostra sicuramente l'irriverente personalità della band siciliana che, lavorando sodo ed eliminando qualche asperità dal proprio sound, potrebbe anche raggiungere vette insperate di notorietà. (Francesco Scarci)

(Nigredo Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/KrowosTSHOBM

mercoledì 5 luglio 2017

A Total Wall - Delivery

#PER CHI AMA: Djent/Math, Meshuggah
Dopo tre EP all'attivo, era giusto che arrivasse anche il debutto sulla lunga distanza dei milanesi A Total Wall. È uscito cosi 'Delivery', lavoro che assegna l'ostico compito ai nostri di rispondere ai gods mondiali nell'ambito del djent, con quel suono caratterizzato dall'ampio uso delle poliritmie, per intenderci in stile Meshuggah e chitarre downtuned. Fatta una breve cronistoria di un genere che ha avuto la sua esplosione nel biennio 2010-2012 e che poi si è un po' ridimensionato, veniamo alla band di oggi, gli A Total Wall appunto, un muro totale come quello innalzato dalle chitarre a nove corde dell'axe man Umberto Chiroli. Per capirci ulteriormente su cosa aspettarsi sparato nei nostri timpani, immaginante il rifferama pesante e sincopato dei Meshuggah, contrappuntato da un dualismo vocale fra un growling schizofrenico e un pulito a tratti poco convincente. Le linee di chitarra della opener "Reproaching Methodologies" non solo risentono dell'influenza dei master svedesi, ma mi pare di scorgere anche palesi influenze math, in un sound decisamente nevrotico e claustrofobico. Attenzione a non aspettarvi una musicalità comparabile a quella dei Tesseract, molto più accessibili e melodici, gli A Total Wall in "Evolve" sapranno come farvi sbiellare il cervello con il loro rifferama contorto e nervoso, ma pur sempre carico di groove. Non male la sezione solistica anche se troppo ermetica e breve nei suoi lisergici stacchi visionari che ne rendono ostico l'approccio. I toni si fanno più scuri nella terza "Sudden", ma è prettamente una questione legata all'atmosfera che si respira durante il suo ascolto, curata dai synth di Davide Bertolini, anche se la ritmica qui è decisamente più controllata e i nostri cercano qualche effetto addizionale per cercare di non risultare troppo didattici nel loro assalto sonoro; utile a tal proposito un paio di break ambientali nel corso del brano. Il riffing magmatico, ossessivo e tipicamente meshugghiano torna in "Maintenance" che verrà ricordata dai posteri più che altro per la stonatura del vocalist nella sua versione pulita. Passo avanti e mi faccio investire dalla feroce "Lossy", che mantiene intatta l'architettura sonica dei nostri (attenzione ad abusarne eccessivamente), cercando di mitigarne la prolissità ritmica nuovamente con l'utilizzo dei synth, rallentamenti vari ed un break davvero indovinato a metà brano (questa si che è la strada giusta). Ottima sicuramente la performance dei singoli, per cui sottolineerei il lavoro al basso di Riccardo Maffioli. Nel frattempo si giunge a "The Right Question" e a delle ambientazioni nuovamente oscure e rarefatte che preludono ad una ripartenza schizoide cosi come era stato per la opening track. Il vocalist qui sperimenta un cantato cibernetico che i Cynic proposero nel lontano 1991 nel loro inarrivabile 'Focus'. La title track si muove su saliscendi ritmici, in un'alternanza tra repentini cambi di tempo e di voce, qui proposta in una nuova veste. Brillante il break jazzato che ci porta per qualche secondo (troppo poco) in un jazz club di New Orleans. Il disco si chiude con "Pure Brand", ultima traccia di un disco decisamente non facile da affrontare, a causa di una monoliticità di fondo di un genere non propriamente adatto a tutti i palati. Buon inizio comunque, ora è necessario trovare variazioni adeguate al tema, per non scadere nella riproposizione di quanto fatto dai maestri. (Francesco Scarci)

martedì 4 luglio 2017

Antigone Project – Stellar Machine

#PER CHI AMA: Electro/Space Rock, New Order, Depeche Mode, The Mars Volta
La Dooweet Agency ci presenta il nuovo lavoro degli Antigone Project, uscito a maggio di questo caldo 2017. La band parigina, contraddistinta da una spiccata personalità e da idee variegate, giunge al secondo full length dopo una prima prova che si era rivelata già convincente e coinvolgente. Il mix di elettronica e rock presentato dalla band, rappresenta una formula vincente nonostante le evidenti influenze, echi compositivi che sfiorano i confini sonori di band blasonate come New Order, Depeche Mode, The Music, IQ, Antimatter e parte della musica elettronica/industriale alternativa di casa Project Pitchfork e Skinny Puppy. Devo ammettere con gioia che, nonostante la marcata venerazione per queste band, il cd risulta veramente efficace e comunque suona originale e fruibile all'ascolto. "Poison" apre le danze e mi sembra di rivivere il mito del primo album dei The Music, con una superba voce dalle doti eccelse. "Schizopolis" trasuda EBM da tutti i pori e proietta la band in un atmosfera sintetica alla Gary Numan. "III" è una ballata sulfurea giocata tra synth wave ed etereo dream pop. In realtà, l'album è assai vario, caratterizzato com'è da un suono assai compresso e sintetico, anche quando si parla di rock, o di indie trafitto dalla tecnologia, di un pop lacerato dall'elettronica più trasversale, rumorosa e shoegaze come si sente in "Mantra Nebulae". I puristi del suono castigheranno quest'album per la sua sonorità inusuale (che resta comunque una caratteristica fondamentale della band) centrifugata in un low-fi sotterraneo ed astratto. Cosa che al contrario, affascinerà gli ascoltatori più aperti che gioiranno sulle note di "Raphe Nuclei", così immensa nel suo ricordare i giorni più malinconici dei migliori Radiohead. Robotici, glamour, violenti, acidi e danzerecci, gli Antigone Project rivendicano un posto al sole in una fascia di mercato dove pochi osano confrontarsi, proponendo la loro formula originale di musica controcorrente, appassionata e trasversale. Una band geniale che coniuga rock ed elettronica con la stessa affinità progressiva che ha contraddistinto band come i The Mars Volta, grazie a composizioni sonore che meritano grande rispetto, una voce da brivido (eccezionale a tal proposito Frédéric Benmussa) che cavalca tutti i brani dell'album con una maestria tale da far impallidire chiunque, una rivelazione assoluta che con una produzione mainstream rischierebbe di svettare sopra ogni tipo di classifica alternativa mondiale. Perla assoluta. (Bob Stoner)

lunedì 3 luglio 2017

Dirt – Daysleeper

#PER CHI AMA: Crust/Mathcore
Un digipack piuttosto essenziale e “materico” accompagna il cd di questi Dirt, band canadese che di primo acchito non fornisce indizi di sorta sul proprio messaggio musicale. Copertina essenziale, font discreto e nessun rimando grafico a qualsivoglia genere / ambito musicale, fanno da cornice alla proposta musicale della band. Mi appresto quindi ad intraprendere l’ascolto di questo album senza un’idea ben che minima di cosa mi aspetti. L’intro passa liscia all’orecchio, non particolarmente malinconica, né lugubre, né bizzarra...e si passa così al vero e proprio contenuto dell’opera. Bam! entrata a piè pari sui timpani del malcapitato ascoltatore! Appare subito evidente il range, la categoria a cui la band appartiene. Si tratta di una miscela di crust e mathcore, o almeno fa figo oggi giorno chiamarlo così. Stiamo parlando di quel thrash tecnicissimo, iperviolento e freddo, portato in auge nel cuore degli anni '90 dai Meshuggah con quel capolavoro di 'Destroy Erase Improve'. I Dirt denotano una pregevole perizia tecnica, una padronanza degli strumenti innegabile e possono senza dubbio piacere a tutti gli amanti del genere. Io ho ascoltato il cd ripetutamente, lasciandomi pervadere dalla glacialità industriale della loro musica, e cercando nell’album quel “quid” che mi potesse emozionare o rimandare quantomeno a qualcosa di intimo. Ebbene, duole ammetterlo, questo “quid” non è mai giunto. Al di là della parossistica ossessività e del furore post-umano non ho purtroppo trovato alcunché degno di menzione. Ritmiche sghembe, tempi dispari ( mi raccomando eh, MAI e dico MAI un tempo pari adatto ad un sano headbanging!!!) e urla lancinanti procedono senza soluzione di continuità per l’interezza delle tracce presenti. Davvero il cd risulta monocromatico e stantio, sterile e sordo ad ogni coinvolgimento lirico o esistenziale. Agli amanti dei tecnicismi, del freddo mathcore e del heavy-listening questo album potrà anche piacere, la preparazione tecnica dei Dirt è fuori discussione. Per qualcosa di più profondo, coinvolgente ed emotivo...next please! (HeinricH Della Mora)

domenica 2 luglio 2017

Yugal – Chaos and Harmony

#PER CHI AMA: Thrash/Deathcore
Hanno cercato il salto di qualità necessario per farsi notare e ci sono riusciti. La band bretone degli Yugal, sotto le ali protettrici della Dooweet Records e dopo un paio di buoni EP, arriva finalmente al full length in ottima stato di forma, affilando le armi in maniera più che perfetta e aggiustando la mira sul sound ricercato. La scrittura dei brani non varia molto dai precedenti lavori ma qui s'intensificano le belle parti acustiche usate spesso per tagliare l'aria opprimente di un pesantissimo metal dai tratti moderni e di matrice thrash. Il risultato è un convincente miscuglio di chiaroscuri musicali, ben calibrato e progettato a dovere. Un ordigno sonoro carico e pronto ad esplodere, dove le capacità tecniche della band si sentono ma non si sporgono mai ad inutili manierismi virtuosi e dove l'equilibrio tra esotica, mistica, melodia etnica medioorientale e metal estremo è sempre dietro l'angolo, come in "From This Day I Will Rise" che potrebbe essere imparentata con i Sepultura di un tempo rivisitati da un'angolatura etnica diversa, oppure gli Orphaned Land rivisti in salsa e violenza che collima col thrash dei Testament. Il suono di 'Chaos and Harmony' si snoda nervoso e frastagliato lungo l'intero cd, pieno di cambi di direzione e atmosfere pesanti e violente, sfoggiando una batteria stellare e composizioni ricche di particolari venature in territori sonori tutti da scoprire. Dieci brani per qualcosa in più di una mezz'ora di musica compatta ed intelligente, per farci innamorare di una band matura e preparata. L'artwork suggestivo è degno di nota, cosi in perfetta sintonia con la musica della band. Alla conclusiva title track va poi tutta la mia ammirazione per gusto, sensibilità, potenza e aggressività. Yugal, una band sicuramente da tener d'occhio! L'ascolto consigliatissimo! (Bob Stoner)

Afraid of Destiny - Agony

#PER CHI AMA: Depressive Black, primi Katatonia
A marzo lo avevo annunciato che il nuovo album degli Afraid of Destiny sarebbe uscito quest'anno, d'altro canto ce l'aveva confermato lo stesso frontman Adimere durante un'intervista con la band. Eccoci quindi accontentati, 'Agony' è il secondo disco per la band trevigiana, che nel frattempo sembra aver abbandonato il suo status di one man band per divenire un trio. Il processo di stesura dei brani è durato parecchio, se pensate solo che le canzoni sono state scritte tra il 2013 e il 2014 e le voci sono state registrate successivamente, a cavallo tra 2016 e 2017. Insomma tante riflessioni hanno portato a questo nuovo esempio di black depressive, che riprende là dove aveva lasciato con un sound desolante di scuola burzumiana. Quello che balza però subito all'orecchio durante l'ascolto di "A Journey into Nothingness (Part 1)", è un maggior lavoro a livello di arrangiamenti, con il sound molto meno secco e stringato che in passato, sebbene anche qui la produzione si confermi non propriamente bombastica. Le ritmiche sono lente e compassate e lo screaming del frontman è probabilmente la cosa più degna di nota della prima song (esclusa la lunga intro) a cui è collegata la seconda parte, ancor più lenta, carica d'atmosfera e che chiama in causa in un paio di frangenti un che dei Katatonia di 'Dance of December Souls' e dei Novembre di 'Wish I Could Dream it Again...'. La musica è rilassata, decadente, atmosferica e nell'arpeggio iniziale di "Rain, Scars, and the Climb', rievoca nuovamente la band capitolina e non posso che esserne felice, in parecchi si sono dimenticati infatti da dove arrivano Carmelo Orlando e soci. Le linee di chitarra sono malinconiche e nel loro semplice incedere, nascondono una vitalità inaspettata che emerge come lo sbocciare di un fiore in primavera, il tutto dopo un atmosferico break centrale. La musica mi piace, è interessante, carica di significati e induce a pensieri, belli o brutti che siano. È riflessione, poesia, dramma, pace e un'altra moltitudine di sensazioni che si spengono solo con il suono del temporale in sottofondo e che introduce a "Autumn Equinox", song più minimalista ma che vede una guest star alla voce, A. Krieg, vocalist teutonico tra gli altri di Eternity, Darkmoon Warrior e ora anche dei Lugubre. È una song che vede peraltro per la prima volta nel disco, un'accelerazione post black, che comunque trova il suo perché nel contesto disperato del disco. "Hatred Towards Myself" compariva già nel precedente EP omonimo come traccia oscura e paranoica, e forse è quella che ora ha meno a che fare con le rimanenti tracce incluse in quest'album; resta comunque apprezzabile. C'è ancora tempo di ascoltare "Into the Darkness", song dall'approccio vocale iniziale un po' più diverso, ma di cui va apprezzata sicuramente una coralità a livello vocale e di cui sottolineerei ancora una volta il buon lavoro fatto a livello di arrangiamenti, con il sound decisamente più pieno. C'è ancora ampio margine di manovra per migliorare sia chiaro, vista peraltro la presenza di un bell'assolo nella traccia che conferma una maggiore maturità acquisita dall'ensemble veneto. A chiudere il disco ci pensa la cover dei Lifelover, "Sweet Illness of Mine": gli va male agli Afraid of Destiny, visto che non sono mai stato un fan dell'act svedese. Tuttavia, devo ammettere che il brano si mantiene piuttosto fedele all'originale soprattutto per le vocals pulite, mentre non mi fa impazzire la batteria, qui troppo sintetica. Insomma, un gradito ritorno per la compagine di Treviso che è sulla strada giusta per trovare ed affermare la propria personalità e che nel frattempo ha anche avuto modo di piazzare una ghost track finale in acustico, tutta da gustare. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2017)
Voto: 70

https://afraidofdestiny.bandcamp.com/album/agony-2

HgM ‎– Sintered Chrome

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Ambient/noise per questa one man band italiana, facente parte della squadra di musicisti estremi e terroristi sonori DIY, che sfilano per la gloriosa Human Cross Records, etichetta bosniaca. L'enigmatico musicista che si cela dietro all'acronimo HgM (in realtà (H)organismo. (G)ravemente. (M)alato), è in realtà Massimiliano Mercurio, che in passato è stato recensore per due importanti webzine. Il mastermind torinese in questo malato 'Sintered Chrome' si esprime in un monolitico attacco sonoro di oltre trenta minuti dai tratti omogenei e dalla voglia di sconvolgere e intorpidire i pensieri degli ascoltatori. Ambient siderurgico e industriale senza la benché minima sorta di percussione, figlio di un connubio tra onde marine scagliate verso di uno scoglio, sentore cosmico ed il rumore odioso di una fabbrica metallurgica udita dall'esterno ed in lontananza. Una continua diramazione dello stesso tema/rumore/ambiente sonoro fa nascere questa suite che per certi aspetti affascina e ammalia con la sua incessante ed oppressiva ripetitività, dall'altra fa nascere il desiderio più acuto di fuggire lontano da tutto ciò che potrebbe essere espresso in questa musica torturatrice se messa in parallelo alle prigioni del nostro essere. In questa mezz'ora o poco più, rischierete di vedervi crollare il mondo addosso, imprecare, riflettere e alla fine impazzire senza nemmeno darvene un motivo. Tutta quest'opera rasenta la follia ma si apre alla geniale ispirazione artistica tout court. L'unica nota negativa va ad un artwork che non dà il giusto supporto al calibro dell'opera, un vero peccato. 'Sintered Chrome': un lavoro esclusivo in sole 30 copie per misantropi intellettuali, rumorosi ed illuminati. (Bob Stoner)

(Human Cross Records - 2017)
Voto: 70

https://hgmmusic.bandcamp.com/track/sintered-chrome

Dead Season - Prophecies

#PER CHI AMA: Thrash/Progressive, Nevermore, Anacrusis
Francia, tanto per cambiare. Questa volta però non siamo al cospetto di una qualche band di black metal avanguardista, visto che i Dead Season propongono un concentrato sonoro che volge il proprio sguardo ad un thrash sicuramente robusto ma dai tratti progressivi. Questo è certificato dall'iniziale "The New Man", apripista del secondo album 'Prophecies'. L'approccio del quintetto di Lille evidenzia immediatamente quanto i nostri siano potenti musicalmente, innalzando un muro sonoro enorme, allo stesso tempo rivelando di essere dotati di una certa vena prog. Da un punto di vista vocale poi c'è un'alternanza tra cantato growl, scream ed uno pulito di "arcturiana" memoria. A livello ritmico, oltre a quello dei chitarroni, è notevole anche il lavoro del bassista e del fantasioso apporto del drummer. Mi aspettavo qualcosa da un punto di vista solistico, ma qui non è pervenuto. I riffoni di "Blood Links Alienations" ci introducono ad una canzone di per sé oscura, che evidenzia ottime melodie di fondo con un lavoro in background delle chitarre davvero maestoso, che tra cambi di tempo, ceselli vari, stop'n go, il tutto viene poi esaltato dalla performance vocale del carismatico leader, a rendere la proposta di questi cinque musicisti, di assoluto valore. Se devo trovare qualche punto di contatto della band transalpina con altre in giro per il mondo, i primi nomi che mi vengono sono sicuramente i Nevermore e gli Anacrusis. Mi lamentavo di una penuria di assoli, ma l'attacco di "Prohibition of God" non può che rendermi felice: i nostri danno infatti prova di come si possa coniugare thrash metal con sonorità alternative, con echi di Faith No More e Korn che si combinano con un rifferama a tratti devastante, ed un finale affidato al ruggito delle chitarre e ad un poliedrico cantato che nello stesso frangente, utilizza growl, scream e clean vocals. Dirompenti, non c'è che dire, anche in versione più dark, come nella successiva più compassata "Homogenetic", una traccia che sembra evolvere verso lidi math con ritmiche schizofreniche e pattern jazzati inseriti in un contesto death metal. Imprevedibili, ecco un altro aggettivo da aggiungere alla sfilza di complimenti che si potrebbe attribuire al combo transalpino, visto che in un bridge atmosferico di basso, fa capolino anche una voce femminile. Poi i Dead Season ripartono per la tangente con suoni deviatissimi, che innalzano ancora il livello qualitativo di un disco che forse corre il solo rischio di essere un po' troppo lungo e complesso. "Guidestones" è una funambolica traccia che si muove tra speed metal, alienanti rasoiate black/death, progressive e tanto tanto altro. Di carne al fuoco qui ce n'è parecchia, tra l'altro in grado di soddisfare tutti i palati, dai più raffinati e delicati amanti dell'heavy prog, fino ad arrivare ai fan più scatenati di sonorità estreme, il sottoscritto in primis, rimasto letteralmente folgorato dalla proposta dei Dead Season. L'unico problema che vedo è quello di non riuscire forse a completare l'ascolto dei 60 minuti di 'Prophecies' in un'unica botta. La strumentale "The Four Minutes of Hate" intanto corre nel mio lettore e i riferimenti ai Cynic e a tutto il movimento techno metal, si sprecano. Un po' di calma in apertura ad "Endless War", giusto il tempo di acclimatarsi per poi rilanciarsi nei tortuosi giri chitarristici di questi fantastici musicisti, di cui mi preme sottolineare nuovamente la prova dei due funamboli, bassista e batterista. Potrei scrivere ancora a lungo visto che i brani si susseguono a ripetizione e allora mi soffermo solo per segnalarvi un altro paio di brani: la forza arrembante di "Sexual Binging" e la spettrale "Ministry of Truth", assai intrigante nei suoi break acustici di chitarra e basso e nei suoi epici cori. Alla fine 'Prophecies' è un lavoro granitico, complesso, maturo e dinamico, semplicemente eccellente. (Francesco Scarci)