Cerca nel blog

domenica 12 marzo 2017

Afraid of Destiny - Hatred Towards Myself

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Gli Afraid of Destiny nel 2017 rilasceranno il loro secondo full length. Cosa di meglio allora che recuperare il loro ultimo EP, 'Hatred Towards Myself' e fare la conoscenza di questa realtà nata come one man band e nel frattempo divenuta un quartetto? Nati nel 2011 come Vitam Nihil Est, la creatura guidata da Adimere cambia ben presto moniker in Afraid of Destiny, dando alle stampe in sequenza ad uno split album, al debut, ad un altro paio di split prima di giungere a questo EP, datato 2013-2014 ma uscito solo nel 2016 in 50 limitatissime copie, che include tre sofferenti tracce di suicidal black. Come vuole il genere, ci troviamo di fronte a song dilatate, con ritmiche mid-tempo, chitarre ronzanti (Burzum docet), qualche raro utilizzo di synth e screaming vocals che trattano tematiche legate alla depressione o al suicidio. Questo è quanto potrete ascoltare nella opening track "Reflecting Under an Ascending Moon" e più in generale in un disco che raccoglie ovviamente tutti i cliché di un genere e ricerca, per quanto sia possibile (e complicatissimo), delle variazioni al tema. Ecco perché la traccia nel suo epilogo emula il conte Grishnackh e le sue intuizioni di 'Det Song Engang Var'. Un lunghissimo arpeggio di oltre tre minuti, apre "I Reject Life" (un vero inno alla vita) che poi si abbandona in un crescendo melodico davvero succulento che mantiene tutta la mia attenzione all'ascolto di questa song strumentale che sfodera alla fine anche un attacco di matrice post black. Si arriva alla title track, traccia dal mood oscuro e paranoico, in cui il buon Ayperos alla voce sembra un Gollum travestito da cantante. La song preserva lungo i suoi sei minuti il suo abito grigio scuro, quello da colloquio di lavoro, l'abito delle giornate di pioggia, quello ideale per un giorno da funerale, si il proprio. (Francesco Scarci)

giovedì 9 marzo 2017

Evenline - In Tenebris

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore, Alter Bridge, A Perfect Circle, Papa Roach
Con questa release, uscita sotto l'egida della Dooweet Agency nel gennaio del 2017, i francesi Evenline confermano il loro stato di grazia compositiva. Dopo un ottimo precedente album ('Dear Morpheus'), recensito su queste stesse pagine, come album dai toni marcatamente post grunge, la band transalpina opta per un sound più raffinato e colto (ascoltatevi a tal proposito 'In the Arms of Morpheus', mini album acustico per capire l'evoluzione, l'apertura mentale e le potenzialità di questo gruppo). Pur mantenendo le forti radici nella musica di Seattle, il combo parigino riesce a fondere le sue composizioni con una forma più progressiva e d'atmosfera che tocca vertici di tutto rispetto. La musica, condotta dalla magistrale e dotata voce di Arnoud Gueziec (che canta sia in pulito che growl), è derivata da band di culto come Porcupine Tree ed A Perfect Circle pur mantenendo comunque intatta la propria originalità e freschezza. Passo dopo passo, i brani scivolano veloci, coinvolgenti e potenti tra manierismi del genere e vere e proprie chicche di tecnicismo progressivo: "Straitjacket", "Echoes of Silence" e la dirompente "Never There" con il loro sound spolverano inserti metalcore stimolanti ed energici, rievocando l'alternative metal delle ultime uscite degli In Flames, suonati a meraviglia da musicisti che sanno come farsi applaudire ed ascoltare, e che usano suoni duri in modo accessibile ed orecchiabile senza ammorbidire o commercializzare a dismisura la propria proposta. Neppure la cover di Jamiroquai (si avete letto bene) "Deeper Underground", fa cadere i nostri nel vortice della banalità in quanto, rivista nel loro stile, trova un suo perché nel corso del lungo album, non sfigurando affatto. Comunque preferisco le loro composizioni originali che risultano molto più intense, cariche e più personali ovviamente, come la supersonica "From the Ashes", e quel suo riffing iniziale "meshugghiano". Ottima la produzione con soluzioni moderne e accorgimenti degni di un album mainstream, con suoni azzeccatissimi ed un equilibrio perfetto dove poter assimilare e gustare ogni singolo suono e strumento. Dieci brani tutti da ascoltare ad alto volume senza respirare, carichi di intensità, d'atmosfera e interpretati con quella tensione mista ad un sofferto e arrabbiato romanticismo che da tempo non sentivo in un lavoro, forse paragonabile ai bei tempi dei Temple of the Dog. Una veste aggressiva e raffinata aggiunta a quello che potrebbe essere lo standard operativo degli Alter Bridge, citati dalla band tra le tante fonti d'ispirazione, un look alla Muse, una preparazione tecnica e una propensione al (prossimo) salto mainstream, sono attitudini che meritano di essere premiate. Questo album sono certo non vi deluderà! (Bob Stoner)

Ande - Het Gebeente

#PER CHI AMA: Punk/Post Black
Lo stuolo di one man band si fa più sempre più corposo qui nel Pozzo dei Dannati. La band di oggi arriva dal Belgio, parte fiamminga mi pare di capire dalla "durezza" del titolo, con un disco che rappresenta la seconda fatica per il mastermind Jim, dopo il positivo esordio 'Licht', di due anni fa. Non è certo una regola scritta, ma chi è parte di una one man band, notoriamente suona black metal e gli Ande infatti non sono immuni a questa legge non scritta. Sei le tracce incluse in questo 'Het Gebeente', di cui una è il prologo che fa da apripista al sound tortuoso e feroce di "Argwaan", che delinea per sommi capi la proposta del combo belga: un riffing efferato in salsa punk black costituisce il background su cui si muovono i nostri, da cui si ergono le vocals incomprensibili e spietate del cantante. La song, nei suoi oltre otto minuti, va dritta al sodo, tagliente più che mai con una crudezza vocale data da uno screaming che di umano ha ben poco, e in cui gli accenni di melodia si dimostrano merce assai rara. Non c'è spazio per sprazzi di luce o di un barlume di speranza nel sound degli Ande. Anche se "Gebukt" è più compassata nel suo incedere, le sue fattezze sono spettrali, amplificate poi da una voce dilaniata e da vertiginose accelerazioni post-black, interrotte da ipnotici giri di chitarra black doom. Non è proprio una proposta facile da digerire quella contenuta in questo primitivo e misantropico 'Het Gebeente'; c'è un che dei Darkthrone nelle linee di chitarra di Jim, anche se poi influenze post e una leggera vena atmosferica, contribuiscono a prendere le distanze dall'ensemble di Fenriz e soci. "Oud En Vet" è interessante per un tribale break down centrale ma anche qui poi la rigidità delle ritmiche, cosi come la mancanza di melodia o di qualche orpello stilistico che permetta un ascolto più easy-listening, rendono questa traccia cosi come la successiva "Leeg", davvero montagne insormontabili. Ci pensano ancora una volta gli ostici intermezzi ambient (a tal proposito complicato è il finale ambient drone affidato a "Uittrede") a dissipare qualche nube e rendere l'ascesa verso il picco, un po' meno difficoltosa. In realtà, ancor più che le pause atmosferiche, credo che siano le accelerazioni post black a conferire una maggiore accessibilità a questo disco. Buffo da credere, ma 'Het Gebeente' non è certo un album per tutti, neppure per molti a dire il vero, forse solo per pochi mefistofelici intimi. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 marzo 2017

The Red Barons – Together

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Post Grunge
Uscita un po' acerba quella di 'Together' dei transalpina The Red Barons che, nonostante la bella e facoltosa voce di Oriane si perde nei meandri del già sentito, non proprio originale ma sempre vivo classic rock, fatto con passione e impegno. Capiamoci, a creare il misfatto non è l'incapacità dei musicisti ma una produzione sommaria, che non appaga la verve dei musicisti, attempata e senza mordente, che rincorre atmosfere air metal anni ottanta, quando la band avrebbe bisogno di entrare in un ambiente molto caldo, retrò e vibrante stile Blues Pills (guardatevi la performance live su TV7 FR, sulla loro pagina facebook), come nella bella e intrigante "Brunch", dallo stile esotico e introverso dove Oriane si mette veramente in mostra, sfiorando le vette di una Skin in perfetta forma. Dietro ad ogni album c'è sempre un lavoro enorme, anche se capita a volte, soprattutto nelle produzioni di questo tipo, che per svariati motivi vengano offuscate le buone idee e le capacità, non si centrino le giuste sonorità, snaturando poi musiche che hanno bisogno di un suono reale e naturale, con un tocco vintage, dinamico e moderno. Il contesto sonoro creato dal quartetto francese ha delle potenzialità, giostrato in una costante atmosfera post grunge con influenze rock blues, e caratterizzato da una voce sublime che potrebbe essere paragonata, in taluni momenti, anche alla mitica voce dei primi irraggiungibili Pentangle dell'omonimo album del 1968, cosi ipnotica, intensa e calda. Quello che stona in questo lavoro uscito sotto la guida della Dooweet Agency è, come già detto, la gelida interpretazione del suono della band, che non entra mai in sintonia con la voce, nemmeno nello stacco in levare sulle ali di una Patty Smith d'annata. La preparazione è buona, i generi da cui attingono i nostri sono parecchi, molte le idee anche se da focalizzare, il groove, di estrema importanza in una band con queste caratteristiche, c'è ma non è esposto con il dovuto maniacale senso dell'esibizionismo. L'esperimento in campo metal della conclusiva "The Life" mette poi in risalto i limiti di una band che deve ancora crearsi una vera identità. Guidati da una voce così carismatica, nei momenti più ipnotici, si vede nitida all'orizzonte la potenzialità di riuscita e il bersaglio sembra a portata di mano con una semplice e leggera opera di affinamento del suono. Grandi le potenzialità dunque, ma penalizzate da una produzione non eccezionale. Comunque vada, vi suggerisco di ascoltare quest'album, alcune song non suonano affatto male. (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/trbarons

lunedì 6 marzo 2017

Zorndyke - Witchfun

#PER CHI AMA: Thrash/Death Old School, Nunslaughter
A distanza di quattro anni da 'On Mayor Altar's Edge' tornano gli Zorndyke con quest'ultimo 'Witchfun'. Ultimo non tanto perché sia la loro ultima release discografica, ma perché effettivamente si son sciolti dopo la sua pubblicazione. Leggendo il booklet c'è un certo sentore di un disco d'addio, con i lunghi tempi di (de)composizione e produzione dell'opera, i saluti ai dimissionari della band i quali hanno contribuito alla creazione del disco, e le foto delle loro numerose avventure. Ma c'è stranamente anche la presentazione di due nuovi membri e questo lascia uno spiraglio di incertezza (nonostante in Encyplopaedia Metallum sia cambiato lo status in "split-up"). Parlando di cose più concrete, la sensazione e gli umori, che emana la band padovana non sono cambiati nel corso del tempo, anzi probabilmente si sono resi leggermente più cupi con quest'uscita. L'artwork a matita rappresenta al meglio la musica fetida che i nostri propongono, e i titoli delle tracce sono tutti riconducibili al fare occulto e alla stregoneria di diversi immaginari. "The Brown Jenkin" è la bestiola della strega Keziah nel racconto 'I Sogni della Casa Stregata' di Lovecraft, "Osculum Infame" è il saluto rituale al demonio, mentre la traccia di apertura non poteva che essere "Haxan", come l'omonimo film-documentario svedese sulla stregoneria che negli ultimi anni è stato saccheggiato da un notevole numero di band, soprattutto in ambito doom. Essa è un'introduzione lenta, pesante con accelerazione thrash, tutto il contrario della potenza che fuoriesce dalle successive "Ten Thousand Needles" e "Reavers Of Their Eternal Sleep", che accennano ritmiche veloci e selvagge con sonorità classiche stile speed/thrash anni '80. Queste sonorità hanno prevaricato la componente crust punk del precedente lavoro, componente che non manca nemmeno in questo lavoro ma che risulta decisamente meno marcata. Il disco si alterna così tra suoni oscuri e produzione pessima, sfuriate death, cavalcate crust e puntatine chitarristiche thrash. "Be Bewitched" è la prova principe della violenza di questa band, in cui la voce mostra spasmodici cambi tra growl e scream ed insieme alle ritmiche furiose, dispensa inattesi sberloni sonori. L'ultima "Unctorial March" è forse il punto più alto di questa stregoneria con il suo sviluppo e il suo trasudare sulfureo. Come dico spesso, il ritorno a sonorità vecchia scuola ha creato tante band valide e altre un po' meno, il che contribuisce a distinguere i musicisti dai perditempo. Io sono il primo che non sopporta la semplicità, ma in certi casi la si può trascendere, e qui la conclusione è univoca: attitudine. Musica veicolo di bestialità, musica non curante del resto, musica per suonare e godere del suonare. E se non ci sono questi prerequisiti non c'è metal estremo vecchia scuola. Cari saluti ai Zorndyke. (Kent)

(Baphomet in Steel - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/ZORNDYKE-53181357269/

Birnam Wood - Warlord

#FOR FANS OF: Stoner Rock/Metal, Kyuss, Fu Manchu
Fresh off their last release, Massachusetts stoners Birnam Wood have continued to spread their massive, comprehensive sound that adds to their medieval-based imagery that was a part of their works up through their present offering. For the most part, that means this is kept to a relatively simple formula of heavy droning riff-work and plenty of swirling reverb-laden rhythms, all done with solid melodic croons over the simple paces which features the fuzz-riddled production so familiar in the genre for nearly every track here. Given that there’s very little leeway within the tracks as the only difference between everything is either a mid-tempo charge like the title track or slow, sprawling epics such as ‘Wizards Bleed’ or ‘Two Ravens,’ so it tends to give off its hand quite easily in terms of stylistic approaches. While this style would surely have rated a little higher on a full-length with more opportunities to impress, the fact that it's so short and is only these four tracks does lower it slightly. (Don Anelli)

domenica 5 marzo 2017

Thron - S/t

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dissection, Unanimated
Con la scomparsa dalla scena dei Sarcasm, quella definitiva dei Dissection e le non eccelse performance degli ultimi Unanimated, si sentiva la necessità di una band che potesse diventare portavoce di un genere che non ha mai avuto troppa fortuna, sebbene possa vantare altre realtà di un certo spessore, quali Necrophobic o Sacramentum. Una scena poi che vede quasi esclusivamente band svedesi tra i suoi principali interpreti e che da oggi vanta anche un gruppo proveniente dalla Germania, i Thron. Grazie alla nostrana Clavis Secretorum infatti, i cinque misteriosi musicisti di Schwarzwald arrivano al debut con questo omonimo album che chiama in causa per l'affilatura delle sue chitarre, le band poc'anzi citate pur mancando di quella magia che ha reso mostri sacri i Dissection o una band di culto, i Sarcasm. Consideriamo tuttavia che 'Thron' rappresenta l'esordio per i nostri (anche se la band non mi sembra certo formata da musicisti di primo pelo), e pertanto sembrerebbe esserci ampio margine di miglioramento per quest'act teutonico, che dopo le rasoiate chitarristiche affidate all'opener "Purified in Fire", inizia a scaldarsi con la seconda "Satan's Speech" e le melodie tracciate dalle taglienti linee di chitarra affidate al duo composto da PVIII e TVII, che sciorinano tonnellate di riff con i quali imbastiscono anche lugubri atmosfere che vanno a pari passo con le tematiche, oramai obsolete a sfondo religioso/satanico, incluse nel cd. Ascoltare questo disco si rivela cosa gradita: bella la discesa negli inferi di "The Blacklist" con quella sua aurea sulfurea e quelle sgroppate che richiamano "Cruelty and the Beast" dei Cradle of Filth, nelle sue accelerazioni black death da incubo e nei suoi improvvisi cambi di tempo. Dicevamo che i cinque tedeschi non sono certo artisti in erba - che rabbia, vorrei tanto sapere chi si cela dietro a questo moniker - e lo dimostrano alla lunga con strutture ritmiche precise, linee di chitarra pulite, grim vocals, tutti elementi che si incastrano perfettamente tra loro, ma che per una strana assenza di alchimia, non fanno gridare al miracolo. Vuoi perché l'ensemble germanico non inventa nulla di nuovo, pescando a piene mani dal repertorio dei gods del genere, vuoi perché non ci sono melodie proprio memorabili come quelle che si ritrovano in album come 'Storm of the Light's Bane' o 'Ancient God of Evil'. Tuttavia 'Thron' è un disco piacevole che prova in più occasioni di colpire l'ascoltatore per l'utilizzo di una qualche trovata, come l'assolo che trova spazio nei melodici e tremolanti riff di "Mutilation of the Unholy" o nell'epilogo Swedish black di "The Evilution of Satan". Puzza di sonorità death old school "Bloodfeast', una song che poteva stare tranquillamente su 'Nothing But Death Remains' degli Edge of Sanity, cosi come pure sorprende la vena punk-thrashettona (assolo a parte) della conclusiva "Blackest Hell to Come". 'Thron' alla fine è un album più che discreto, comunque un buon punto di partenza da cui spiccare il volo... (Francesco Scarci)

(Clavis Secretorvm - 2017)
Voto: 70

sabato 4 marzo 2017

This Fall - Not Even Time to Die

#FOR FANS OF: Hardcore/Metalcore, As I Laying Dying, Himsa, Shadows Fall
“This room is green, I want to go back to the blue room.” I cannot get over the intro to this album. In an audio clip from the movie "Cube", the voice of an incarcerated person expresses his dissatisfaction with the color of the room he's in while banging his head against a wall. It's a metaphor for what you're going to experience in this EP. This Fall had me in stitches with such an out of the blue introduction to their awkwardly titled 'Not Even Time to Die', but I wasn't very impressed with the rest of the content in this release. The production is awful, the songs are generally bland, and though the band has a cohesive start, it's just another name on the massive metalcore dog-pile. In "The Cube", the man banging his head against the wall want to return to a room that is exactly the same as the one he's in except for the difference in color. That's more or less what you're going to hear on this release, a carbon copy band with a slightly different hue to the light they're stepping into.

This burgeoning metalcore outfit from Italy clearly takes leaves out of books of As I Lay Dying, Killswitch Engage, and Shadows Fall. Guitars bring in some melodic shredding riffs, drums bounce and even do some good filling at times, and vocals come out mainly with deeper growls than expected in metalcore. There are also chanted yells, screams, and even a clean interlude at the end of “My Beautiful Misery”. How quickly I recall, the last time, I heard this song. Playing your average metalcore sound, This Fall wears a bit too much of their influence on their sleeves as “Blind Side” works its way to becoming “Confined” by As I Lay Dying. This is a close cloning with just that one extra chromosome to keep this band locked in its padded cell. The emulation is shamelessly apparent, but there are interesting moments that show that This Fall has a handle on their cliche direction. The rising riff in “Twilight Zone” has those positive tones that get me thinking of Shadows Fall's “Of One Blood”, “The Contradiction” has some Himsa with its As I Lay Dying and a focus on breaking down the riff. This band works well together and the song arrangements are organic and understandable, but this band seems to be holding itself too close to the standards of those that came before This Fall. I'm sure this band could do good things if they tried to stand out rather than stand up to the par of such a woefully average era in metal history. With what they have so far they could take to a competent studio and end up on a sample disc of no-name bands, but they're not going to end up in the next Tony Hawk game just yet.

When you have a band name that's usually reserved for the first two words of a movie trailer, it's not a leap of the imagination to expect the experience to be much more than a transparent commercial attempt. The sad thing is that in 2015 this band came out with an EP called “What's Left Inside” that is well-produced and much better written in comparison. The past 'Fall' seemed to have something going for them, This Fall isn't very unique. This Fall is cashing in on mainstream hard rock/ metal that came out ten falls ago and even needs to work on that. (Five_Nails)

(Self - 2017)
Score: 55

Stellar Temple - Domestic Monster

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
La scena rock francese si è arricchita di una nuova band alla fine del 2013, quando Thomas e David, già militanti in altre formazioni, decidono che è il momento di dare scacco alla noia e rispolverare il vecchio rock anni '80-90 alla ZZ Top e Billy Idol, fondendo hard rock, stoner e un po' di blues in questi Stellar Temple. I due amici recuperano quindi altri due elementi e il quartetto è pronto per scrivere il primo album, 'Domestic Monster', uscito a Maggio dell'anno scorso per la New Deal Music. I brani sono dieci e mantengono la promessa di voler riproporre la musica di trent'anni fa vestita a festa col chiodo della domenica e catene annesse. Il digipack è ben fatto con cartoncino pesante che dà un senso di qualità, mentre nella grafica predomina il rosso e ci svela qual è l'animale domestico protagonista dell'album. "Overture" apre senza tanti convenevoli, come una bella testata sul naso al primo stronzo che ti taglia la strada, con il mood piacevolmente thrash metal con riff belli taglienti. Interessante la ritmica stoppata che insieme a basso e chitarre, sembrano imbrigliare una potenza inaudita che deve essere tenuta a bada per non travolgere tutto e tutti. "Fucking Miles Away" è la naturale evoluzione del brano precedente, dove finalmente la band si può sfogare in allunghi veloci e arrangiamenti potenti quanto melodici. Trova posto anche un brevissimo stacco di basso distorto che fa da starter in una gara di cani da corsa con la bava alla bocca per quanto sia incontenibile la voglia di correre. Il vocalist mette in chiaro di che pasta è fatto, gran timbrica, perfetta, anche nella pronuncia inglese, bravissimo a destreggiarsi in questo brano hard rock. A questo punto i Stellar Temple lasciano per un po' la loro parte da bravi ragazzacci e si addentrano in atmosfere morbose che ricordano il grunge oscuro dei Soundgarden anni '90. I beat si abbassano e le chitarre si affidano a giri armonici che ci scaraventano sulle rive del Mississipi mentre il sole soffocante ci fa colare il sudore sugli occhi. Nonostante il brano suoni un po' old school, la band francese si affida a suoni meno vintage per forgiare un sound potente e granitico. Anche "Rumors" ha lo stesso feeling, forse più simile agli Alice in Chains, pure troppo in certi momenti. Il cantante si lancia in fraseggi ruvidi e potenti mentre gli altri strumenti puntano su linee melodiche e ritmiche costanti. Immancabile l'assolo di chitarra finale che racchiude anni i di rock genuino senza tanti fronzoli, se non qualche sample elettronico nella coda che chiude il pezzo. Non posso non menzionare "Helly Days", altro brano ben fatto che si porta dietro contaminazioni orientali probabilmente proposte solo nella versione studio, ma apprezzabili ed equilibrate. Lo stop centrale è potente e propone un mix di suoni moderni e di altri tempi, dimostrando la voglia degli Stellar Temple di fare qualcosa di diverso e personale. Devo dire che aspettandomi uno dei soliti gruppi rock con grosse influenze stoner, mi sono sorpreso a scoprire una band assai brava e con vedute più ampie. Dopo anni di attività ci sono ancora musicisti che si mettono in gioco e sudano sangue per confezionare un album di spessore come questo 'Domestic Monster'. Complimenti e chapeau! (Michele Montanari)

(New Deal Music - 2016)
Voto: 85

Ovnev – Cycle of Survival

#PER CHI AMA: Black Atmosferico, Agalloch
Il solo fatto di aver visto la cover cd di questo album, mi ha messo brividi di freddo. Mi domando come si faccia a concepire questi scenari di montagna cosi aspri, vivendo in Texas? Gli Ovnev vengono infatti da Spring, modesto agglomerato urbano nei dintorni di Houston e sono in realtà una one man band dedita ad un black metal d'atmosfera. Anche questa volta, ci ha visto lungo la Naturmacht Productions mettendo sotto contatto il buon West, mastermind dei nostri, confermando una certa predilezione dell'etichetta tedesca per tali sonorità. Cinque i brani contenuti in questo 'Cycle of Survival', un "ciclo di sopravvivenza" forse legato proprio all'esplorazione delle montagne in copertina o chissà. Si inizia con le acustiche melodie di sofferenza di "The Observatory", una traccia mid-tempo, in cui da evidenziare ci sono le linee di chitarra assai malinconiche ad opera del factotum statunitense, che si accompagnano a delle strazianti vocals. Le velocità non vanno mai oltre certi ranghi, anzi quello che mi colpisce maggiormente è un break a due minuti dalla fine in cui la canzone sembra concludersi, ma in realtà segna il confine di demarcazione per una sorta di outro elettro-acustico ad un pezzo che ha il solo difetto di avere una produzione forse un po' troppo impastata. Chi cerca velocità più sostenute rimarrà deluso: forse qualcosina all'inizio della successiva "Thrill of Pursuit", una song che più che altro sottolinea l'asprezza a livello vocale di West (a volte i suoi vocalizzi assomigliano a degli ululati) e anche una certa crudezza a livello ritmico, stoppata in più frangenti da fraseggi di chitarra acustica che compaiono cosi improvvisamente dal nulla e cosi come sono apparsi, si dileguano tanto facilmente, lasciando spago a delle galoppate di furia estatica. Il canovaccio del musicista texano si ripete anche in "Prosperous Desperation", con una classica e lunghissima intro arpeggiata in stile Agalloch, dai forti sentori folk, a cui seguiranno le chitarre cupe ma controllate di Mr. West e anche le sue sempre più arcigne manifestazioni vocali, molto spesso difficilmente intellegibili. L'oscuro e claustrofobico vortice sonoro degli Ovnev prosegue nella title track, la traccia che trova finalmente sfogo in un black feroce e tumultuoso che vive tuttavia di cambi di tempo, di aperture heavy e in cui il suono dell'act americano si stacca dall'ancoraggio estremo e finisce per celarsi in una notte di plenilunio in cui il verso del lupo echeggia nello spazio infinito. La delicatezza della sei corde acustica segna la conclusione della song più breve (fatto salvo per l'epilogo acustico della conclusiva "Suspended in Spirit"), ma anche più varia del disco. 'Cycle of Survival' alla fine si rivela come un interessante debutto, su cui c'è ancora molto da lavorare, ma che lascia comunque intravedere spiragli di buona musica per il futuro. (Francesco Scarci)

(Naturmacht Productions - 2016)
Voto: 70

venerdì 3 marzo 2017

John, the Void - II

#PER CHI AMA: Post-Metal, Cult Of Luna, Amen Ra
Sono cresciuti. Questa è la prima cosa che mi passa per la mente dopo i primi minuti di 'II', il nuovo lavoro dei bad boys di Pordenone, John, the Void. Dalla regia però mi dicono che tecnicamente è il loro primo full-length, sinceramente non ricordo se il loro primo lavoro l'avevo vagliato come un EP, ma se non ricordo male le tempistiche erano piuttosto prolisse (mai quanto questo, s'intende). Si nota subito che i brani sono più strutturati, più pensati e completi rispetto all'impressione avuta dall'ascolto del precedente self-titled. E il suono è sicuramente più ricercato e calibrato per far emergere sensazioni e scenari durante il suo ascolto. Quello che mi balena in mente è: degrado provinciale notturno, ruggine e vetri rotti. "John Void" è ossessione, ripetitività, inadeguatezza alla vita. Opener lunga, lacerante e schietta nel dire chi si è, cosa si vuole, perché non si è e perché non si vuole. La successiva "Enter" (traccia che a mio parere sintetizza nei suoi oltre 14 minuti, tutto l'album e la proposta del gruppo), dato il titolo e i suoi primi minuti, sembra voler dire che la song precedente era solo un avvertimento e ora comincia il vero viaggio promosso dai John, the Void. La voce è tagliente, incontrastabile, grama nell'incidere tra le cupe bordate chitarristiche, le quali creano polverosi vortici sonori, mentre i ritmi monolitici trascinano inevitabilmente nell'abisso creato dal sestetto friulano. Queste prime tracce che segnano la prima metà del disco sono d'impatto, enormi, violente, fanno muovere (al giusto ritmo) la testa nei momenti aggressivi e svuotarla nelle parentesi più dilatate. Si apre quindi la sezione oserei dire più "soft", con l'eterea "Obscurae Terrae", la quale segna una cortina dal sapore droneggiante a metà del disco. La seguente "Neon Forest" anche se movimentata da caustiche accelerazioni, corrode la prospettiva claustrofobica con delicati inserti melodici, mentre l'ultima "Season" culla fino alla conclusione di questo viaggio con pacata dolcezza. Le tracce si amalgamano perfettamente l'una all'altra, tanto che è facile lasciarsi trasportare e non rendersi conto che il disco è già ricominciato. In conclusione, 'II' è un lavoro che corrisponde ai canoni compositivi del post-metal ma con una propria personalità evidenziata dagli inserti elettronici molto più marcati rispetto al disco precedente e dall'atmosfera qui fredda e oppressiva. Atmosfera che vale tutto l'ascolto dell'opera. (Kent)

(Drown Within Records/Dullest Records/Dingleberry Records - 2016)
Voto: 70

https://johnthevoid.bandcamp.com/album/ii

giovedì 2 marzo 2017

Hellsing - The Fallen: A Sinister Declaration of Fire

#PER CHI AMA: Black Symph, primi Dimmu Borgir, Eibon La Furies
Quando noi italiani pensiamo all'Indonesia, immaginiamo le splendide spiagge di Bali, i suoi pericolosissimi vulcani (il famigerato Krakatoa ad esempio) o alla disgrazia dello tsunami che investì il paese nel 2004, ma nessuno sa che da quelle parti c'è una fiorentissima scena metal. Certo, non siamo al cospetto di mirabolanti band, ma tanta roba si muove laggiù e qualcosina cattura l'attenzione anche dei nostri operatori. La label nostrana Adimere Records ha scovato questi Hellsing (nome che si rifà all'omonimo manga giapponese), autori di un vero e proprio dischetto di quattro pezzi (un mini cd in una custodia che assomiglia più ad una cassetta che ad un disco). I quattro ragazzi dell'isola di Sulawesi propongono un black sinfonico, ovviamente assai derivativo, che trae la sua linfa da band come i primi Dimmu Borgir o gli Anorexia Nervosa. Chiaro, prendiamo le dovute distanze da queste due band, i nostri sono fermi a sonorità di quasi vent'anni fa. Tuttavia, superata la malefica intro, "Immortal Creatures" ci offre una tempesta black metal, la cui furia è smorzata dall'utilizzo ancora primordiale delle keys, con un risultato comunque apprezzabile. Ben più selvaggia la successiva "Battles in this Fire", in cui sottolineerei le efficaci harsh vocals del cantante, qualche giro di chitarra davvero interessante che mi ha ricordato gli inglesi Eibon la Furies, un bel break affidato alle tastiere e un breve assolo, in quella che è la canzone più convincente del lotto. Si arriva a"666 (Under the Moonlight)", un titolo che poteva andare di moda negli anni '80-90 (non a caso gli Iron Maiden evocavano questo numero particolare nel 1982), in una canzone che invece si dimostra la più debole e scontata del quartetto, a causa di un black troppo lineare e che poco ha da dire, fatto salvo per il roboante e cacofonico solo finale. In conclusione, 'The Fallen: A Sinister Declaration of Fire' è un dischetto che dovrebbe attirare l'attenzione per lo meno dei più curiosi, avidi di sapere cosa riserva a livello musicale quell'esotica parte del pianeta. (Francesco Scarci)

mercoledì 1 marzo 2017

Pijn - Floodlit

#PER CHI AMA: Ambient/Post Metal, Pelican, Isis
Quello dei Pijn è uno di quegli album che mi eccita come una ragazzina, peccato solo che 'Floodlit' sia un EP che sfiora i venti minuti di durata. Perché tutto questo entusiasmo vi chiederete? Semplice, il terzetto di Manchester ha rilasciato quattro song davvero particolari: si parte dai riverberi drone di "Dumbstruck & Floodlit", song che evolve in un post rock dalle tinte sperimentali, che nelle sue evoluzioni sonore richiama a random Russian Circle, Pelican e nelle parti più tirate anche gli Isis, in una versione più ipnotica. La traccia riserva buona parte del suo lungo minutaggio a sonorità emozionali prima di esplodere nel finale in un turbinio sonico caratterizzato da un rifferama tonante, urla belluine, melodie celestiali che salgono in cielo in un crescendo quasi soprannaturale, in cui compare addirittura il suono di un folle sax e di violini, in un'atmosfera surreale, da brividi. Un qualcosa che mi ha ricordato per certi versi la solennità di "Plains of the Purple Buffalo (Part 2)" degli *Shels. Grandioso, non aggiungo altro. Solo questo pezzo vale il prezzo, abbastanza esiguo peraltro, del cd. Sfiancato dalla tempesta sonora della opener, mi ritrovo cullato dalle note oniriche di "Hazel", un breve interludio di un paio minuti affidati ad un multistrato di sintetizzatori che da dolci divengono a poco a poco inquietanti. Ancora un intermezzo, questa volta decisamente più elettrico, è affidato alle chitarre distorte di "Cassandra" che introducono ahimè all'ultima gemma di questo 'Floodlit', "Lacquer". Riverberi allucinati si dipanano nell'epilogo dell'ultima song, accompagnati da un growl dirompente (e davvero convincente), trame ritmiche deviate e drappeggi progressive. Arie quasi paradisiache sono affidate al suono degli archi e del sax che supportano la band inglese in questa meravigliosa traccia ove compare anche un parlato in francese. Che altro dire se non che 'Floodlit' per me merita già la palma di new sensation di questo primo scorcio di 2017. Sublimi, anche se mezzo punto in meno va per la scarsa durata dell'EP. (Francesco Scarci)

(Holy Roar Records - 2017)
Voto: 80

https://pijn.bandcamp.com/album/floodlit