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giovedì 12 gennaio 2017

Årabrot - The Gospel

#PER CHI AMA: Noise Rock, Swans, Killing Joke
Settimo capitolo delle vicende della cult band norvegese capitanata da Kjetil Nernes, ed è uno di quei capitoli chiave che riescono a definire e delineare una storia consegnandole spessore e dignità di grande romanzo. Concepito durante la convalescenza dopo un intervento per rimuovere una forma maligna di cancro alla gola, 'The Gospel' è forse il lavoro più ambizioso ed articolato di Nemes, quello dove lo spettro del male e il racconto della lotta per sconfiggerlo sono protagonisti assoluti, eppure è quello più accessibile dal punto di vista musicale. Prodotto da Steve Albini e registrato in parte nei suoi Electrical Studios e in parte in una vecchia chiesa sconsacrata nella foresta di Dalam, in Svezia, 'The Gospel' risuona di echi solenni, minacciosi e disturbanti, anche grazie alla maestria del notevole cast di musicisti coinvolti, tra cui spiccano Stephen O’Malley dei Sunn O))), Andrew Liles (Current 93, Nurse With Wound) e Ted Parsons (ex-Swans e Killing Joke e ora componente dei Prong). La furia provocatoria e l’incompromissorio noise rock a cui gli Årabrot ci avevano abituato vengono qui in qualche modo stemperati nelle loro espressioni più dirette ma rimangono intrappolate in un monolite nerissimo, grazie ad un insieme emotivo e creativo che suona ora nodoso e intrecciato come una corona di filo spinato, ora vellutato e ricco di avvincenti contrasti. Nonostante una valenza così intima e personale, 'The Gospel' è il disco dove la varietà di stili ed atmosfere è forse più marcata, dai ritmi marziali della titletrack, alle trame oscure e criptiche alla Swans di “I Run”. Il tono generale è più epico e raffinato, intriso di riff e intuizioni armoniche davvero irresistibili come la meravigliosa “Tall Man”, e che trovano la loro sublimazione nei dieci minuti della coraggiosa divagazione doom di “Faustus”, per poi grondare di disperazione e dolore fino alla liberazione finale (“Rebekka”). Gli Årabrot tornano con il loro disco allo stesso tempo più scuro e conciliante, e forse, in definitiva, il loro lavoro migliore, quello che potrebbe consegnare loro un posto di primissimo piano nella scena noise rock mondiale. Nella classifica dei migliori dell’anno 2016 si guadagna un posto ai piani alti. (Mauro Catena)

(Fysisk Format - 2016)
Voto: 80

https://arabrot.bandcamp.com/album/the-gospel

Naat - S/t

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal strumentale
Argonauta non si stanca mai di veleggiare verso i mari più impetuosi e sconosciuti. Stavolta sono approdati ad un’isola nel bel mezzo dell’oceano dal nome NAAT. Si tratta di quattro talentuosi ragazzi genovesi con in testa l’abisso. La proposta sludge post metal strumentale convince e affascina, a cominciare dalla copertina del disco: un braccio senza il corpo che gocciola sangue su una città in rovina. Lo sfondo è giallo ocra, come se fosse un’istantanea sbiadita ritrovata sotto un cumulo di macerie. Sembra che ci sia stato un disastro senza precedenti che ha cancellato ogni ombra di civiltà e di vita dalla faccia del pianeta. Probabilmente una guerra causata dall’uomo che con la sua avidità e cupidigia è riuscito (finalmente) ad autodistruggersi. Rune e frattali poi decorano il retro ed il cd, scelta sobria ed elegante che va a conferire all’opera quell’aria di mistero proprio dell’abisso. E proprio di abisso vorrei parlarvi perché penso sia la chiave di questo splendido omonimo disco di debutto. Fate attenzione a premere play, con il pezzo di apertura “Vostok” verrete subito catapultati nel fondo più oscuro dell’oceano dove solamente poche forme di vita riescono a sopravvivere. In un ambiente così inospitale manca l’ossigeno e la pressione è talmente forte da far implodere qualunque cosa si avventuri così in profondità. Ah e ovviamente, il buio è totale. “Falesia” continua l’esplorazione tra grotte sotterranee senza uscita e mostruose creature di cui l’uomo ne ha sempre ignorato l’esistenza. Con “Temo”, traccia sonica intermedia, si torna per un momento sulla superficie devastata della terra: auto, case, fabbriche, palazzi, tutto dimenticato, tutto tramutato in ruggine, calcinacci e polvere. Un polvere così densa da ostruire le vie aeree di qualsiasi creatura che respiri, da ostacolare la luce del sole privando anche le piante del loro nutrimento vitale. L’acqua offre l’unico riparo possibile da quell’aria malsana e dalla terra avvelenata e il baratro profondo dell’oceano è il solo rifugio che la vita può trovare. “Baltoro” è il mio pezzo preferito del disco, sette minuti di cinica lucidità senza tregua, tra slanci atmosferici vicini al black e riff sludge inconsulti, incastrati e ansiogeni. Una song che rimane e che lascia la voglia di vedere come la band riesca a trasporre tutte queste sensazioni dal vivo. Segue “Bromo”, altra traccia di passaggio stavolta un po’ più lunga che ha il proposito di traghettarci all’ultimo disperato assalto dei due pezzi “Dancalia” e “T’Mor Sha”. Il primo è più destrutturato, con un incedere cadenzato e suoni diradati che si addensano dopo cinque minuti per tornare poi a svuotarsi; il secondo, decisamente più violento, racchiude tutta la rabbia e la potenza dei NAAT ma anche l’attitudine all’arrangiamento e alla composizione sempre originale e mai scontata, la degna chiusura dell’opera. Un’ultima riflessione sul progetto riguarda la sua natura strumentale, per molte band di questo tipo la mancanza di una voce si fa sentire ma non in questo caso: gli intrecci fantasmagorici di chitarre e le ritmiche ancestrali e dionisiache, riescono infatti a sostenere e a completare la musica senza bisogno di aggiungere altro. Sarà forse perché sul fondo dell’abisso il suono non si propaga e gridare fino a lacerarsi le corde vocali non servirebbe a rompere il silenzio che nel profondo regna sovrano. Oppure sarà che in questo disco la volontà di potere e controllo dell’uomo ha portato la nostra specie ad una fulminea autodistruzione; quindi niente più civiltà, niente più uomini e niente più voce. (Mattei Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://naat.bandcamp.com/

mercoledì 28 dicembre 2016

Lost Opera - Hidden Sides

#PER CHI AMA: Power/Prog, Kamelot, Epica
Sono diverse le influenze che si trovano all’interno di quest'ultimo lavoro dei Lost Opera, 'Hidden Sides': dal power basilare a qualche ritmica prog. Si ascoltano anche derivazioni da generi più ruvidi, in cui il front-man Loic Conti, sfoggia le sue growling vocals come accade nel brano più duro dell’album, “O.P.S.”, che diventa quasi un pezzo in puro stile death. Le sonorità che però emergono su tutte nel resto del disco, sono quelle melodiche "kamelotiane" come si sentono in “Betrayal”. Le parti orchestrali ben studiate di “The Inquisitor”, “So Wrong” o “The Sinner, potrebbero invece ben figurare negli intermezzi di un qualsiasi disco degli Epica. Le onnipresenti tastiere si muovono su orchestrazioni semplici, che appaiono tuttavia spesso troppo deboli, e non riescono pertanto a conferire una seria componente sinfonica ai pezzi, lasciandoli sospesi cosi, a mezza via. Questo accade anche nel singolo "Follow the Signs", seppur si tratti di un brano mica male. I suoni electro e le contaminazioni death non trovano la perfetta amalgama con l’impianto melodico del disco e alla fine la resa non è delle migliori. Sebbene questo secondo full-length della band normanna rappresenti comunque un notevole passo in avanti rispetto al precedente lavoro uscito nel 2011, che mostrava ancora acerbe sonorità, in realtà non riesce ancora veramente a convincermi. Ci sono delle buone premesse, ma c’è bisogno di lavorare ancora un po’ per imboccare la giusta via, che non sappia di “già sentito (un sacco di volte)”, anche se un ambiente quasi saturo come quello del melodic francese non sia di troppo aiuto. Le idee sono tante ma bisogna metterle in ordine, cercando di accantonare quelle troppo scontate. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 60

https://www.facebook.com/lostoperametal/

THE PIT TIPS

Five_Nails

Trees of Eternity - Hour of the Nightingale
Agalloch - Ashes Against the Grain
Gorgoroth - Under the Sign of Hell
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Francesco Scarci

Dopemachine - S/t
Celtefog - Sounds of the Olden Days
Klimt 1918 - Sentimentale Jugend
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Don Anelli

Bloody Blasphemy - Total Death Celebration
Profanatism - Hereticon
Surgikill - Sanguinary Revelations
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Caspian Yurisich

Visigoth - Revenant King
Whirr - Pipe Dreams
Blind Guardian - Follow the Blind

Mare Cognitum - Luminiferous Aether



#FOR FANS OF: Progressive Black Metal, Darkspace
Interesting old album this one. I want to like it, and I kinda do but it's just a bit headache inducing. Perhaps one of those releases where you find the concept/general idea really good, but the execution leaves you wanting.

The most obvious description with 'Luminiferous Aether' is a hi-fi, somewhat maximalist Darkspace. Whereas those swiss guys do a fantastic job conjuring up a cold, lifeless universe populated sparsely by primal, unyielding alien evil, Mare Cognitum basically get something closer to a darker Mass Effect universe. Somewhat grim still, but here the nebulae are in that blazing false colour we're used to, the explosions are bright yellow, and the sound effects are physics defyingly-loud and vibrant.

I have no problem with this- I'm a cheerful guy myself and am perfectly happy to lose myself in a musical version of a jam packed space opera. The main problem is basically that there's not enough dynamics, and there's not enough riffs.

They're pretty intertwined problems, I think. There's enough bands that stay in a forteissmo dynamic for 70 minutes straight and pull it off because good riffs flow from one to the next- things build, despite staying fully loud the whole time. That doesn't really happen here; most of the songs have very promising sections but then there's a tendency to wander off into aimless blasting where nothing much happens, where nothing much progresses. Call it New-Metallica syndrome if you want; you get the feeling that you could cut 25% of each song quite comfortably.

Things just float on in these overtly layered tunes until the songs end. I found myself drifting in and out of focused listening fairly often with this- there's just not enough to grab your attention for the whole album. I reckon a few parts like the album intro would've been a good addition. Mellow parts, when done properly don't have to be soppy or an Opethian exercise in song lengthening; they can make the songs flow better and establish new moods, they can draw a listener's attention back to the song. I'd refer to Spectral Lore's mind boggling 'III', an album of similar ambition and scope, but one that use dynamics one hell of a lot better.

I know I've whinged about this album for much of the review - but honestly I don't hate it or anything. You flick to any particular part of it and for a few minutes you'll be all "jeez, this is pretty cool" as your mind imagines some super futuristic space battles with all sort of mind blowing, space-time shattering weaponry. Problem is a few minutes later you'll likely be absentmindedly checking your email. Worth a look if you're into big, spacey BM - you may well like it more than me. Personally I think I'll stick with Darkspace. (Caspian Yurisich)

martedì 27 dicembre 2016

NAG - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore, Kvertelak
I NAG sono un trio proveniente da Stavanger - e cito testualmente - Norway's West Coast. Il loro nome deriva dalla parola norrena atta ad indicare la rabbia repressa. Leggendo la presentazione della band ci si potrebbe disperare al pensiero dell'ennesimo clone che evoca le parole "black metal", "hardcore punk", "crust", "punk metal" e qualche riferimento al Nord Europa. È difficile per il sottoscritto comprendere poi se il tono dell'ensemble è ironico o meno, quando affiancano espressioni riguardanti l'attuale erosione della socialdemocrazia con la necessità di formare una band punk hardcore. Tornando alla musica, il trio norvegese riesce a superare le aspettative grazie ad una vena che oserei definire "allegra". L'iniziale "Mute" è una piacevole opener grazie al quel suo mood tipicamente raw black metal. Un'atmosfera che si ritrova ancora marcatamente in "Back to the Castle" e più sporadicamente in alcuni tratti di altre tracce. Il punk dei NAG è più vicino a gruppi hardcore e crust britannici o svedesi, basta passare in rassegna le successive "Fray", "Empire" e soprattutto l'ultima "What If You Are Right", per cogliere questa peculiarità. Ogni tanto però, i nostri cadono vittima di clichè "americani" o quei tipici tremolo picking che ormai ritroviamo ascoltando qualsiasi band che non vede l'ora di usare l'aggettivo "blackened" per autoreferenziarsi. "Soon" è la song che mi ha colpito maggiormente: in un pur breve minutaggio, riesce a fondere canti corali e riffs che potrebbero ricordare gruppi come i Thyrfing e offrire inoltre accelerazioni belle tirate con una delle poche apparizioni dei blast-beats in questo disco. "The Last Viking", ascoltata con leggerezza, potrebbe essere confusa con "Utanforskapet" dei Martyrdod. "Ancient Wisdom" è invece il singolo estratto da questo debut album, e a mio parere è una delle tracce che meno rappresenta l'act scandinavo. La biografia dei NAG batte il tasto su parole come aggressivi, primitivi, oscuri, in realtà la produzione è mediamente brillante, la registrazione incredibilmente pulita, il suono è leggero e con poca saturazione. Tutto assai lontano dal caos, dall'oscurità e dalla violenza, che ci si aspetterebbe da un gruppo punk. Tutto di più lontano dal "NAG". In conclusione, il gruppo presenta un disco con canzoni varie come approccio, moderatamente originali e disomogenee, conferendo in tal modo freschezza e dinamismo al proprio sound. Se cercate del punk/metal pesante, oppressivo e senza respiro, lasciate stare; se invece apprezzate la ritmica old school e non disdegnate qualche sprazzo di malvagità black metal, allora ve ne consiglio l'ascolto. (Kent)

(Fysisk Format - 2016)
Voto: 65

https://naghardcore.bandcamp.com/releases 

lunedì 26 dicembre 2016

Beneath a Godless Sky - S/t

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore, Meshuggah, Tesseract
Quando rifletto su generi che si sono un po' persi per strada, mi viene da pensare al djent: un'esplosione incredibile, una crescita esponenziale e un'implosione altrettanto veloce. Tuttavia, a parte le solite tre-quattro band di grido, c'è ancora un sottobosco che sta germogliando. E quel mondo nascosto non poteva che essere in Francia, paese rigoglioso in fatto di trend musicali. Ecco da dove arrivano i Beneath a Godless Sky, autori di un EP omonimo di sei pezzi, sotto l'egida della Dooweet Records. Il genere ovviamente ci riporta al djent, sia per quel che concerne l'approccio poliritmico delle chitarre che scomoda inequivocabilmente nomi quali Meshuggah o Textures, che all'utilizzo di vocals più o meno pulite. La classica intro e poi è il tempo di "The Wall", che parafrasandone proprio il titolo, innalza un muro ritmico fatto di chitarre meshugghiane, voci ancestrali ed aperture progressive, il tutto condensando cascate di groove a non finire. "Divided", pur seguendo il medesimo pattern chitarristico, trova addirittura modo di impantanarsi in rallentamenti doomish, con le vocals del frontman sempre a cavallo tra il pulito e un growling mai troppo cattivo, tipico del genere. Continuano comunque le bordate sonore anche in "Broken Streets", con il classico rifferama tra Meshuggah e Tesseract, architetture chitarristiche ubriacanti ed aperture quasi space rock. "Fake Smile" prosegue sulla falsariga senza vere e proprie soluzioni alternative, e forse risiede proprio qui il rapido declino di questo stile: non bastano infatti i muri roboanti di chitarre se poi non si creano delle variazioni al tema. E quindi, sebbene fin qui l'EP non mi stesse dispiacendo, mi rendo conto che mi ritrovo alla quinta traccia con le orecchie già un po' sature di tali sonorità. E dire che i nostri sono ben preparati tecnicamente, hanno qualche buona idea, usano con oculatezza l'impianto tastieristico e il cantante ha una buona voce (eviterei però quel cantato quasi rappato che ad un certo punto si sente in "Faith + One"), ma evidentemente non basta. Dopo un po' infatti mi stufo e l'effetto è confermato anche in questo disco. Manca il sussulto, la trovata ad effetto, la divagazione ritmica, la genialata che faccia svoltare questo (e mille altri) dischi. Un EP quello dei Beneath a Godless Sky comunque piacevole, che necessita tuttavia di una maggiore ricercatezza, il rischio infatti è di scivolare nell'oblio totale. (Francesco Scarci)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

domenica 25 dicembre 2016

Silent Moriah - Wise Murders And Natural Evil

#PER CHI AMA: Thrash Progressive, Pantera, Anacrusis
La scena underground italiana è viva e vegeta. Ce ne dà oggi prova il quartetto bolzanino dei Silent Moriah, band in giro già da un lustro ma che solo in questo 2016, è riuscita a sfornare la prima release ufficiale. 'Wise Murders And Natural Evil' è un EP di sei pezzi all'insegna di un thrash metal caratterizzato da alcune contaminazioni doom, fughe death, ammiccamenti alternative e metalcore. Insomma, c'è di tutto un po' negli oltre 33 falsi minuti di musica qui contenuti (dico falsi perché ci sono nove minuti di silenzio). Si parte dalla classica intro arpeggiata e si prosegue con "Dead Tool" che tratta, da un punto di vista lirico, del mostro di Milwaukee, un serial killer statunitense resosi famoso per la pratica del cannibalismo e della necrofilia. Se qualcuno di voi si aspetta che anche da un punto di vista musicale, le ritmiche seguano le tematiche con sonorità splatter gore, vi sbagliate di grosso. Menzionavo infatti il thrash metal e qui ne troverete a palate anche con qualche divagazione in territori più angusti ed anfratti più bui, tipici del doom, con le vocals di Leo che passano dal growl al pulito con una certa efficacia e dove le chitarre si divertono nell'offrire affilate rasoiate e brillanti assoli. L'atmosfera si fa più tenebrosa in "Under Your Skin", con i nostri che trattano di un altro serial killer, del Wisconsin questa volta, che era solito mutilare in modo cruento le proprie vittime. Si insomma non certo dei temi leggeri, eppure la musica prosegue con sonorità accattivanti, melodiche, in linea con alcune cose dei primi Pantera e dei Testament, ma anche dei più avanguardistici Anacrusis, in cui le vocals provano a seguire degli sperimentalismi quasi cibernetici e in cui le chitarre, sempre assai catchy, comunque assurgono al vero ruolo di protagoniste nell'economia del brano, sia a livello ritmico che solistico, per un risultato dotato di spiccate qualità esecutive, ma anche in dinamismo sonoro e groove. Con "Bleed Honey Bleed" si prosegue il racconto dei serial killer e questa volta facciamo conoscenza di un altro alfiere della necrofilia. Da un punto di vista musicale, le linee, sempre assai melodiche, di chitarra si confermano costantemente ondulatorie nella loro progressione, grazie all'installazione di frequenti cambi di tempo, che permettono di catalizzare al meglio l'attenzione dell'ascoltatore. Non poteva certo mancare un brano per il serial killer più famoso di tutti i tempi, ossia Charles Manson: eccoci accontentati, in quanto "Enigma" è proprio focalizzata sull'efferato omicida di Cincinnati. La musica invece alterna un riffing thrash a sonorità sperimentali, a tratti progressive, non risultando di certo mai scontata o banale. I quattro giovanotti dell'Alto Adige convincono appieno con la loro performance strumentale, ma anche da un punto di vista tecnico-compositivo. Dicevo all'inizio della famosa traccia fantasma: "Natural Evil" è una breve outro di un 120 secondi a cui seguono minuti di nulla e poi improvvisamente ecco materializzarsi interferenze sonore boogie rock. Insomma, 'Wise Murders And Natural Evil' è un lavoro interessante che se verrà sviluppato adeguatamente in futuro, potrà regalare succosi frutti a questi giovani musicisti. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

Avast - S/t

#PER CHI AMA: Post Black/Metal, Wolves in the Throne Room, Isis
Il 2016 può considerarsi l'anno di consacrazione (e chissà, forse già di saturazione) del post-black. Ne abbiamo sentite di tutti i colori e da quasi qualsiasi parte del mondo, con una certa prevalenza tuttavia negli Stati Uniti, in Francia ed in Germania. Pensavo che a questo fenomeno, spaventosamente brulicante in tutto il pianeta, fosse rimasta indenne la sola Norvegia, cosi ancorata ai fasti di un passato ormai dimenticato. Mi sbagliavo perché il terzetto degli Avast (da non confondere con il famoso antivirus) ha rilasciato nella prima parte dell'anno un EP omonimo di due pezzi, devoti totalmente a questa imperante forma di black estremo, e che delizia per i miei timpani. "Declare" soffia gelida come il vento che sferza la banchisa alle isole Svalbard, grazie a ritmiche tiratissime e melodiche, cosi cariche di rabbia, cosi intrise di un'emotività irrequieta e malsana. Un'inquietudine di fondo che nemmeno nell'acustico break centrale trova pace al proprio tormento interiore, fatto poi di ritmiche al fulmicotone come solo i Wolves in the Throne Room sanno fare, sporcate però di una vena blackgaze che sembra apparentemente ammorbidire un lavoro che in realtà di morbido ha gran poco ma che aggrega in modo eccellente il post black con venature semplicemente post (metal e rock che siano). "Fire and Ice" ha una lunga parte introduttiva strumentale, poi è il battito tribale del drummer Ørjan a catturare la scena, accompagnato dalle urla infernali di Hans Olaf e dalle malinconiche chitarre in tremolo picking di Trond. La song scivola in un catartico sogno ad occhi aperti in cui avrete modo di ritrovare gli idoli di sempre, gli Isis, in una cangiante traccia di puro post metal, in grado di regalare attimi di piacere estatico come se immerso tra il candore dei ghiacci polari. Spaventosamente efficaci, peccato solo che questa onirico viaggio duri solo quindici minuti. Ora attendo con ansia il comeback discografico di questi guerrieri per infondere nuova linfa vitale ad un genere che sembra già avviato al tramonto. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

L'Homme Absurde - Monsters

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
Si può fare centro al primo colpo? Ascoltando l'album di debutto dei moscoviti L'Homme Absurde si direbbe quasi di si, considerato che la band si è formata solamente nel 2016 e in bacheca vanta già un EP e quest'album d'esordio intitolato 'Monsters'. Ovviamente i quattro russi non sono gli ultimi pivellini sbarcati nel mondo del music business, vantando pregresse esperienze in altre realtà quali Comatose Vigil, Who Dies in Siberian Slush o Mare Infinitum, creature che abbiamo già avuto modo di conoscere qui nel Pozzo dei Dannati. L'ensemble sforna otto pezzi dediti ad un post black prorompente che vede come unico punto debole, l'assenza di un batterista in carne ed ossa in formazione. Peculiare infatti la scelta di avere due chitarristi, basso e voce in line-up e lasciare ahimè alla finta elettronica, l'esecuzione di martellare come un fabbro a livello ritmico. Le song si succedono con un piglio vincente sin dall'opener "Sold", brano caratterizzato da buone melodie di fondo, uno screaming disperato, aperture meno spigolose e più votate ad un post rock d'atmosfera, corredate però da un drumming che tanto mi fa incazzare per asetticità quanto per la freddezza nei suoni che ne consegue. Un peccato veniale per carità, che mi sarei aspettato da ragazzini in erba e non da musicisti navigati come i nostri. Il disco prosegue nella sua attività tellurica con la stentorea "Villains", brano che oscilla tra feroci accelerazioni post black e digressioni dal sapore più spettrale, fino ad arrivare a rallentamenti più doomish nella seconda metà, prima di un assalto conclusivo in pieno stile Deafheaven. "Apathy" è un pezzo più calibrato nelle sue note iniziali, grazie ad un approccio più indirizzato verso lo shoegaze, almeno fino a quando il vocalist non fa la sua comparsa. Con le voci latrate di A. si induriscono infatti anche le linee di chitarra e la ritmica in toto, che tuttavia non trascende mai a velocità esasperate. Con "Disillusion" si torna a percorrere sentieri pericolosi, fatti di blast beat infuocati, chitarre in tremolo picking e urla disumane. Fortunatamente si trova un po' di quiete verso metà brano con un riffing più compassato che tenderà a salire d'intensità nel giro di una manciata di secondi. In "Wanderer" coesistono più umori: dalla classica calma prima della tempesta con suoni in stile Alcest, ci si muove verso strali di vorticose ed arrembanti cavalcate black, tra dinamici e dirompenti chiaroscuri ritmici. In "Strayed" le chitarre si fanno meno zanzarose anche se assistiamo alla consueta martellante ed estenuante corsa ritmica tipica del genere. Tuttavia ad un certo punto sembra quasi di scorgere il sound dei primi The Cure (o se preferite degli An Autumn for Crippled Children) in un paio di break acustici ben congeniati. "Escapist" è una traccia un po' più complicata da digerire, complici melodie più estranianti e dissonanti rispetto ai brani precedenti. Lo stesso dicasi della conclusiva "Wires", song più breve delle altre ma non per questo priva di saliscendi ritmici incalzanti. In conclusione, 'Monsters' si rivela sicuramente un buon album con le sue pecche ben evidenza, da colmare assolutamente (il drumming in testa!!), ma anche con punti di forza che lo rendono un album di piacevole ascolto ed i nostri una realtà da seguire con interesse. (Francesco Scarci)

(More Hate Productions - 2016)
Voto: 70

sabato 24 dicembre 2016

Eternal Samhain - Storyteller Of The Sunset And The Dawn

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
La RNC Music rilascia finalmente il tanto atteso primo full length dei veronesi Eternal Samhain, , 'Storyteller Of The Sunset and the Dawn', che ci consegna una band in eccellente stato di forma, sebbene siano passati ben cinque anni dal mini cd di debutto, 'Obscuritatis Principium, Proxima Est Omnibus Damnatio'. Freschi peraltro di un nuovo contratto con la label russa Φono Records (la Metal Blade d'oltrecortina), il quintetto veneto, che abbiamo già avuto modo di ospitare sulle nostre pagine ed un paio di volte in radio, torna quindi con nove tracce nuove di zecca. Dopo il declamatorio intro in latino, si scatena l'inferno grazie al black sinfonico di "Cathedral", che chiama in causa interessanti paragoni per la band: se da un lato l'apporto delle orchestrazioni, erette da intelligenti keys (ad opera del turnista Hati), evocano inequivocabili accostamenti con Dimmu Borgir e Old Man's Child, l'architettura spesso elaborata dei brani, tra cambi di tempo e stop'n go, chiama in causa invece il devastante e sinfonico approccio dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Insomma, mica male no? Il fatto poi che questa traccia, cosi come le successive, non si dilunghi in inutili trame ritmiche, agevola non poco, una più semplice assimilazione del sound. Tra i vari pezzi, vorrei citare "Ode al Vento", song da cui è stato estratto anche un video e che vede lo screaming comprensibilissimo di Taliesin, misurarsi con l'italiano a livello delle liriche, mentre la canzone, oltre ad offrire un ottimo break centrale, propone un'epica cavalcata sorretta da sontuose tastiere, accompagnate da una sempre elegante sezione ritmica affidata a zanzarose chitarre in tremolo picking. L'esperimento ben riuscito dell'utilizzo dell'italiano tornerà anche in "Cenere", lunga traccia sinfonica mid-tempo, che nella sua ottima progressione, propone uno spettacolare parlato, sulle orme dei primi Maldoror e Aborym, in un brano di sanguinolento black vampiresco che mi ha evocato anche i disciolti Seed of Hate e i teutonici Ancient Ceremony. Si prosegue con la magniloquenza della quarta "Vox Populi, Vox Dei", song che accentua ancor di più la componente orchestrale del quintetto italico, ma che allo stesso tempo, vede la proposta dei nostri, più devota alla fiamma nera. Un breve intermezzo ambient e si sfocia nel riffing brutale di "Trinux Samonia", che avvicina maggiormente gli Eternal Samhain ai più famosi colleghi umbri dei Fleshgod Apocalypse. Anche la voce in questo caso, abbina al cantato in scream, soluzioni più vicine al growling. La musica prosegue intanto sulla stessa matrice, abbinando melodiche chitarre black (qui anche con uno splendido solo) con teatrali synth, che divengono più preponderanti (forse troppo) con "King of Yourself", in cui, il flusso sinfonico della band viene investito, nella seconda parte del brano, da un'interpretazione al limite del death metal. Detto della traccia più bella del disco, "Cenere", l'album si chiude con la tiratissima title track che sancisce un come back discografico in grande stile (anche per ciò che concerne il formato in digipack con un artwork colmo di simbolismi); per questi ragazzi, che ora possono contare anche sull'importante appoggio di una grande etichetta, si può anche sognare, mantenendo però sempre i piedi ben saldi al terreno, perché per emergere di lavoro ne serve ancora parecchio. (Francesco Scarci)

(RNC Music - 2016)
Voto: 75

mercoledì 21 dicembre 2016

Celtefog - Sounds of the Olden Days

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Rotting Christ
Le one man band, ne sentivo quasi la mancanza. Oggi ci trasferiamo in Grecia, ad Alexandria per l'esattezza, per ascoltare quello che è il secondo album dei Celtefog, creatura guidata dal misterioso Archon. 'Sounds Of The Olden Days' è un disco di black metal che scomoda un facile paragone col passato, immediatamente dopo lo schiudersi delle melodie di chitarra dell'opener "My Last Sight to the Known Universe". Il nome? Facile, i compianti Windir. Si, quell'epicità intrisa nelle linee della sei corde del mastermind ellenico, evocano inevitabilmente la proposta della band norvegese, a cui aggiungerei, probabilmente per il forte gusto folklorico (e l'utilizzo di strumenti etnici), anche i Negura Bunget. Insomma, la proposta del musicista greco non sembra affatto male, se considerate che nelle parti più aggressive, vedo emergere la maestosità dell'Hellenic sound con in testa i Rotting Christ. Ribadisco, da tenere d'occhio. La seconda, "Tombs of Memories", è un feroce assalto black che trova nelle tastiere un valido alleato per stemperarne la brutalità e avvolgere la musica con una sottile coltre di nebbia in grado di regalare comunque ispirate atmosfere. Il canto di alcuni uccellini accompagnato dal suono mediterraneo di strumenti tipici, apre "Call of the Ancestors" e l'impressione è quella di essere proiettati in un passato assai lontano, prima che irrompa il rigore ritmico del black, qualche voce in background pulita e qualche arzigogolato giro di chitarra, e ancora nella seconda parte, straripanti melodie e momenti acustici che chiamano inevitabilmente in causa anche i Bathory più epici. Un'intro ambientale apre il brano seguente, "Three Nights in the Mediterranean Sea", che sebbene offra un titolo dal forte sapore mediterraneo, rappresenta il punto di contatto più vicino con i Windir. Nonostante le chitarre siano cosi secche, lo screaming assai arcigno o la drum machine tenda a "robotizzare" il sound, la traccia si conferma forse come la più calda del lotto, anche di più della successiva e splendida strumentale "Into the Mist", ove fanno la loro comparsa anche soavi flauti dolci. A chiudere questa piacevole sorpresa, gli oltre 10 minuti di "Nykta" l'ultimo solenne brano di black metal pagano che tributa alle divinità dell'Olimpo ma anche a quelle del Valhalla, con un suono decisamente spettrale che rappresenta la summa di quanto ascoltato fin qui in questo 'Sounds of the Olden Days', album che merita definitivamente tutta la vostra attenzione e fiducia. (Francesco Scarci)