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mercoledì 9 settembre 2015

INTERVIEW WITH VOLA

Follow this link for an interesting chat with the Danish guys of VOLA, authors of one of the best albums of this summer:




Aidan - Témno

#PER CHI AMA: Instrumental Post-metal/Ambient, Pelican, Mogwai
Aspettavo al varco i padovani Aidan, dopo il bel debutto di 'The Relation Between Brain and Behaviour' di due anni fa. Tornano sulla scena con questo EP di quattro brani, sostanzialmente diviso in due grandi momenti: l’apertura e la chiusura del disco (affidate rispettivamente a “Levnad” e “Ora Puoi Scendere nella Fossa con la tua Musica”) pescano a piene mani nell’ambient: atmosfere inquiete, synth ronzanti, violini carichi di pathos. Due brani che sono quasi colonna sonora – in “Ora Puoi Scendere…”, non a caso, appare il lungo dialogo sulla bellezza e il genio da 'Morte a Venezia' di Luchino Visconti –, onirici ed emozionanti, valorizzati da una produzione praticamente perfetta. Il secondo momento del disco, invece, è rappresentato dai due brani centrali, più legati alla tradizione strumentale del post-rock e post-sludge. “Negazione dell’Appartenenza/Appartenenza alla Negazione” è forse il migliore momento di 'Témno': una lunga suite, che oscilla con naturalezza tra il riffing ipnotico e progressivo dei Pelican e l’armonia delle parti più riverberate e sognanti, che ricordano in certi tratti i Mogwai ma persino i Tame Impala. La successiva “Il Terzo Escluso” è un lavoro più psichedelico e ambizioso, che premia la maturità degli Aidan in particolare nell’armonizzazione delle melodie tra le due chitarre e il basso (ascoltate il magistrale incastro tra strumenti dal primo minuto in avanti). Delay e feedback, ben dosati su suoni ruvidi tipici dello sludge, condiscono il lavoro trasformandolo in un piccolo capolavoro. C’è maturità negli Aidan, e si sente: si va oltre il solito gioco forte/piano del post-rock, e in generale i due brani centrali lasciano trasparire un lavoro su dinamica, tempi, melodie e suoni maggiore del precedente debut album. 'Témno', nonostante le altissime potenzialità, lascia però a bocca asciutta: la brevità dell’EP delude, e delude ancor di più se metà disco è sostanzialmente ambient, giocato su una singola nota che evolve tra arpeggi, delay e synth. Attendo il full-length che, mi auguro, valorizzerà meglio le grandi capacità compositive e tecniche della band, soprattutto quando lavora a pieno regime su brani complessi e completi. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2015)
Voto: 75

domenica 6 settembre 2015

Assumption – The Three Appearances

#PER CHI AMA: Death Old School/Doom/Psichedelia
Prendete come esempio gli Incantation dell'EP 'Deliverance of Horrific Prophecies', 'In Memorium' dei Cathedral e 'Dawn of Possession' degli Immolation e chiudete gli occhi. Mettete il nuovo album (il secondo) degli Assumption nel lettore e ditemi se il sogno non si avvera, se non sembra di tornare indietro nei primi anni '90 quando il Death metal agli albori mostrava le sue divine mostruosità di incesti malsani tra metal, figure horror e doom degenerato con una credibilità da pelle d'oca. Ecco, 'The Three Appearances' non necessita di ulteriori spiegazioni, è semplicemente un gioiellino dal fascino vintage, intelligente, allucinato e curatissimo ma soprattutto è bellissimo. Il duo palermitano suona come una vera band dell'epoca ed i brani sono così intensi, lugubri e deformi che risultano perfetti. La voce fa la differenza ed il gutturale di G., che suona anche chitarre, synth e basso, è magnifica come la parte grafica; l'artwork è infatti così legato a quell'epoca che quasi commuove. L'immagine space/fantasy dal retrogusto horror della copertina è perfetta per il sound decadente e marcio promosso dalla band nostrana. Prodotto divinamente, con qualità, conoscenza del genere e attitudine moderna, i due bravi musicisti siciliani riescono a rinverdire i fasti di un tempo e mostrarsi perfino originali, cogliendo spunti anche dal doom degli Esoteric. Il tocco d'infinita oscurità che corona le composizioni di un aurea macabra e futurista, si muove sinuoso tra le tracce e pur non mostrando nulla di nuovo, risulta affascinante in maniera disarmante. Una catarsi buia nei meandri di una psiche malata, ventinove minuti di ottimo delirante primordiale death metal diviso in quattro brani di eguale splendore usciti per Terror From Hell Records/Elektroplasma Music nel 2014 (anche se "Moribund State Shifts" rimane la mia hit del disco insieme all'esperimento psich/death/doom di "The Non - Existing"). Death metal old school, doom, psichedelia, chitarre impazzite, voce gutturale, sound proveniente dal cosmo più profondo e sconosciuto...un lavoro di culto imperdibile! (Bob Stoner)

(Terror From Hell Records / Elektroplasma Musik - 2014)
Voto: 90

https://www.facebook.com/assumptiondoom

Heaving Earth - Denouncing the Holy Throne

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Destroying Divinity, Hate Eternal
As has been the case with a large amount of Eastern European Death Metal, the influence of American acts is pretty astounding to behold as not only is it stylistically similar in creation but also growing in enjoyment, which follows suit with this Prague-based act. Technical when it needs to be but much more often just blasting away with urgency and intent, there’s a lot at work here as the band shifts from the mid-tempo realms filled with those technically-proficient guitar rhythms popularized by Morbid Angel to the frantic, flesh-flaying full-throttle assaults whipping through numerous sections here which are much more prominent in the modern Death Metal scene. Coupled with the album’s approach of mixing that audio violence with an appropriately surging hellfire-inspired sound it just brings the riffs to life and makes for another outstanding piece to the puzzle found throughout here. The tight leads and the explosive drumming are all favorably aided by this and it truly makes for a much dynamic affair here that does seem more than able to cover up the lone flaw running through the album in having way too many instrumental interludes. In the second half, its split evenly with track-interlude-track-interlude into the finale and that leaves a slightly jarring effect against the rest of the album which didn’t have much. Knock off one or three of them and this would be even higher up than it already is, which is a testament to the rest of the tracks on the album. Opener ‘The Final Crowning’ gets this going nicely with a fine build-up into pounding drumming and hellfire-soaked rhythms blistering into a mid-tempo cacophony bristling with the technical nuances dripping through the guitar work along the extended final half to set the stage perfectly here. ‘Nailed to Perpetual Anguish’ goes slightly more technical in approach and as a consequence eases off the throttle slightly but still manages quite the impressive outing here, while ‘Doomed Before Inception’ continues featuring blazing-fast technically-proficient riffing and dynamic blasting drum-work that gives this a solid three-peat opening. The first instrumental, ‘And the Mighty Shall Fall’ offers stylized majesty melodies and growing atmospheric riffs gradually build to dark, heavy rhythms that segues into ‘Worms of Rusted Congregation’ that continues on with the majority of time offering those slow, dark and heavy rhythms while still maintaining a decidedly Death Metal edge while putting out some Doom influences in the only real section of the album. The next instrumental, ‘...into the Sea of Fire’ features trilling guitar riffs and ambient, dark atmospheric rhythms which is so short it’s questionable why it’s here altogether. Luckily, that’s all quelled with back-to-back quality efforts in ‘Forging Arcane Heresy’ and ‘I Am Nothing’ as the ripping riff-work, utterly explosive drum-blasts and raging tempo changes that sweep from technical thrashing to demonic tremolo-rhythms and mid-tempo blasting make for the album’s two-best overall highlight quality efforts. While not as explosive, ‘Into the Depths of Abomination’ does feature enough engaging rhythms, blasting drum-work and frantic energy to come off as enjoyable even with the odd track placement in the second half when it really reads more of what happened to the first half’s tracks. The next instrumental, ‘...Where the Purified Essence Descends Ablaze’ is so worthless it’s not worth mentioning, while the epic ‘Jesus Died’ offers up slow, sprawling rhythms and tremolo-picked melodies alongside a tight series of drum-blasts and the occasional frantic series of riff-work that really gives this a punch for a fine offering overall. The outro instrumental ‘Endless Procession of the Holy Martyrs / Final Termination’ continues that sprawling blast-work and tight rhythms before fading out into an extended collage of noise that makes for a fine conclusion and a well-placed interlude. If only it had cut back on the others this one might be even more impressive. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2015)
Score: 85

https://www.facebook.com/heavingearth

Immanent – Human Reflection

#PER CHI AMA: Progressive, Dream Theater, Porcupine Tree
La volontà di emulare e magari raggiungere i propri miti è insita nel prog metal e quando per idoli si hanno divinità come Dream theater e Porcupine Tree "2.0" (ovvero quelli più duri della seconda era) la battaglia per la conquista di un trono si rende durissima ed il paragone diviene innegabile ma soprattutto insostenibile. La giovane band francese ha buona tecnica d'esecuzione e ottime idee in fase compositiva e si presenta con il secondo full length autoprodotto dopo quello splendido da noi recensito, del 2012. 'Human Reflection' è traghettato poi da una produzione davvero notevole che offre una proposta variegata, completa, bilanciata e tanto ordinata. Tutto si trova al posto giusto, l'equilibrio tra la componente progressiva e il metal è magistrale e come unica lacuna possiamo azzardare una critica sulla gestione della voce che andrebbe curata e accudita alla pari e con la stessa dedizione riservata alla musica. Di certo rimanere orfani dell' incantevole vocalist Anastasiya Malakhova e dimenticare la magia retrò delle atmosfere jazz uscite dal suo piano malato non deve esser stato facile ma la band parigina ha ripreso il timone, puntando su un nuovo vocalist maschile e virando la rotta verso lidi metal progressivi più moderni, per trovare nuovi stimoli e nuova linfa vitale. Difficile parlare di forte personalità della band poiché in questo genere tutto risulta abbastanza omologato peraltro in virtù della sola tecnica, che in questo caso risulta comunque eccellente. Senza voler fare paragoni ormai inutili con il passato, un consiglio per il nuovo frontman potrebbe essere di volgere uno sguardo alle interpretazioni più vintage ed emotive del buon vecchio Fish nei primi Marillion o al mito del teatrale Peter Gabriel con i Genesis, passando anche per James LaBrie ma senza emularlo troppo, calcare la mano sul buon vecchio prog non dovrebbe guastare. Una scelta simile potrebbe far risultare il tutto anche tremendamente originale, unico, oltre che bello. Le composizioni risultano un po' ostiche, l'ascolto impegnativo, particolarmente indicato agli appassionati del prog metal tout court, e riservano molti angoli tecnici tutti da scoprire, tra cambi di tempi e classicismi barocchi mozzafiato, senza mai rinunciare alla potenza e alla dinamica di gruppo. L'act transalpino è migliorato ulteriormente rispetto al precedente lavoro, sprigionando qualità da tutti i pori. "Mad Happiness" (la mia preferita) è un brano di oltre nove minuti che ammalia con il suo intermezzo acustico, dove il basso è adorabile, il ponte dai toni jazz è un tocco di vera classe e gli strumenti sono supportati da una voce che sfodera una forza emozionale. La melodia, la tecnica e la potenza s'incrociano a dovere. In realtà, tutti brani dell'album raggiungono vette altissime e rilasciano ottime sensazioni. Gli Immanent si confermano una giovane band dalle ottime prospettive che non bisogna farsi scappare, mentre 'Human Reflection' è un album che è andato molto vicino a centrare il bersaglio più ambito. Ascolto obbligato per veri amanti del prog metal. (Bob Stoner)

sabato 5 settembre 2015

Atten Ash - The Hourglass

#PER CHI AMA: Death Doom, Daylight Dies, Rapture, primi Katatonia
Li avevo menzionati in occasione della recensione dei Norilsk; finalmente ho modo di parlarne più dettagliatamente grazie a 'The Hourglass', disco originariamente registrato nel 2012, ma che solo a febbraio di quest'anno ha visto la luce, grazie alla Hypnotic Dirge Records. Sto parlando degli statunitensi Atten Ash, trio del North Carolina, fautore di un sound che ha più di qualche punto di contatto con i conterranei Daylight Dies. Si inizia con "City in the Sea" che propone un sound vicino al death doom, anche se poi certe aperture melodiche (al contempo malinconiche) palesano piuttosto influenze che spazziano dai Katatonia di 'Brave Murder Day' ai finlandesi Rapture. E con questa attitudine death doom darkeggiante, gli Atten Ash finiscono per coinvolgermi sin da subito per quella loro vena oscura, sorretta da ottime melodie e brillanti assoli, che rendono questo loro debutto a tratti parecchio accessibile. Come sempre, desidero sottolineare che non ci troviamo nulla di originale fra le mani, anche se l'ottimo songwriting, sorretto dalle inevitabili growling vocals e da egregi arrangiamenti, contribuiscono a consegnarci un lavoro maturo e di tutto rispetto. "See You... Never" è un pezzo che strizza maggiormente l'occhiolino alla musicalità dei Saturnus e l'eccelsa produzione non fa altro che enfatizzare la qualità di un lavoro già di per sé assai buona; metteteci poi uno splendido assolo alla fine del brano e potrete godere anche voi delle qualità di questo ensemble a stelle e strisce. In "Not as Others Were" è da segnalare l'utilizzo delle clean vocals a cura di James Greene (un po' il factotum della band) che si contrappongono al cantato feroce di Archie Hunt. "Song for the Dead" (cosi come "First Day" o nella conclusiva e notturna titletrack) vede di contro, il totale abbandono delle voci death a favore di un cantato in grado di agevolare maggiormente un avvicinamento anche per coloro che non hanno molta confidenza con il death doom. Ancora una volta, la componente solistica e una discreta dose di suoni progressivi, intervengono a favore dell'ottima riuscita del disco. Lo stesso si potrebbe dire per la successiva "Born", song che a parte qualche grugnito qua e là, che ci sta peraltro davvero bene, farà la gioia degli amanti del doom alla Doom:Vs, complici anche la presenza di interessanti break crepuscolari. Insomma che altro dire, se non consigliare caldamente un'altra uscita targata Hypnotic Dirge Records: poche releases ma sempre di ottima qualità! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/attenashband

Sarpanitum - Blessed Be My Brothers…

#PER CHI AMA: Brutal Death Melodico, Mithras, Nile
Non sono mai stato un fan del death metal tout court, di quello fatto di chitarre arroventate, growling vocals paurose e sezioni di batteria che somigliano più ad una contraerea impazzita che a uno strumento musicale. Quando però c'è da essere obiettivi e togliersi il cappello di fronte ad una band eccezionale che propone tale genere, io sono il primo a farlo. Da quando mi sono imbattutto nel furibondo e quanto mai tagliente sound degli inglesi Sarpanitum, non ne sono più riuscito a fare a meno. 'Blessed be my Brothers...' si è consumato all'interno del mio lettore, fosse quello dell'auto o di casa. Il trio di Birmingham mi ha letteralmente conquistato con quel loro modo di suonare tanto debitore della scena inglese, Mithras in testa. Non a caso tra le fila del combo albionico milita proprio Leon Macey, chitarrista e batterista della band britannica suddetta. E parte dell'impianto sonoro che il buon Leon utilizza nella sua band principale, è stato trasferito anche nella matrice dei Sarpanitum. Ritmiche serratissime e acuminate come un rasoio, tirate a velocità supersoniche ma anche dotate di rallentamenti da brividi. Una intro strumentale a dir poco notevole e poi tocca a "By Virtuous Reclamation" farsi portavoce del marchio di fabbrica dei Sarpanitum: si tratta di una cavalcata di vorace ed epico death brutale, in grado di maciullare le carni ma anche di deliziare con mirabolanti aperture melodiche in grado di scatenare brividi mai ipotizzati per tale genere. Incredibile a dirsi di un disco che parte da solidissime basi death metal che poggiano sui dettami di gente del calibro di Nile o Immolation, o per rimanere in casa loro, di Napalm Death o Benediction. I Sarpanitum non sono degli sprovveduti e la loro eccelsa perizia tecnica rappresenta un biglietto da visita incontrovertibile che testimonia a più riprese la capacità e la sapienza di una band, di saper coniugare death brutale, melodia e alte, altissime dosi di epicità. L'album spacca letteralmente grazie a quei riff selvaggi, alle atmosfere che si rifanno ad un duo formato da Nocturnus e Melechesh, turbinii sonori di scuola Mithras, e spaventosi cambi di tempo conditi da altrettanto pazzeschi assoli, a cura di Tom Hyde. Detto della notevole traccia numero due, ce ne sono altre nel magnifico lotto che che vorrei citare: "Glorification upon the Powdered Bones of the Sundered Dead" è un bel mix tra Morbid Angel e Nile mentre "I Defy for I Am Free" è forse il pezzo più completo del disco con quel malinconico incipit, la sua veemenza nella sua parte centrale, e un assolo conclusivo a dir poco fotonico che vale probabilmente da solo il costo del disco. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Willowtip Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/sarpanitum

The Pit Tips

Kent

Forest Swords - Engraving
Greensky Bluegrass - When Sorrow Swim
Ben Frost - A U R O R A

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Francesco Scarci

Sarpanitum - Blessed be my Brothers
Stealing Axion - Aeons
Cradle of Filth - Hammer of the Witches

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Don Anelli

Delirious - Moshcircus
Expenzer - Kill the Conductor
Unleashed - Dawn of the Nine



giovedì 3 settembre 2015

Smash Hit Combo - Playmore

#PER CHI AMA: Rapcore/Metalcore/Djent
Prendete il rap. No, non il crossover alla Rage Against The Machine né la old-school del ghetto: proprio il rap, rap bianco ed europeo per carità, ma pur sempre rap. Però cantato in francese. Metteteci sotto una base di metalcore tecnico votata al groove – tipo Periphery o Protest The Hero, per intenderci. Aggiungete una spolverata di suoni elettronici, synth ruvidi e percussioni sintetiche. Salite sul palco addirittura in otto elementi (tre voci, due chitarre, basso, batteria e sampler/piatti). E, ciliegina sulla torta, cantate fondamentalmente di videogiochi. Sì, videogiochi. Questa è la stramba ricetta dei francesi Smash Hit Combo, formazione decennale addirittura al quinto full length (più un EP nel 2005). Musicalmente il disco sta in piedi: non c’è quasi niente di nuovo e originale, ma non si può certo dire che chitarre, batteria e basso non sappiano suonare. Ci sono groove ben fatti, riffing interessanti, palm-mute in abbondanza, mitragliate di doppia cassa, velocità; c’è in generale quel suono sintetico e tagliente tipico del metal più contemporaneo. I brani – tolti giusto un paio di lenti (“Quart de Siècle”, “Déphasé”, “B3t4”) – sono però davvero troppo uguali a se stessi per lasciare un segno, costruiti su una identica forma (“In Game”, “Animal Nocturne”, “Le Vrai du Faux”, “48h”) che alterna ritornelli aperti melodici, strofe rappate e bridge urlati a ripetizione. La differenza la fa l’uomo dietro l’elettronica, che dosa piuttosto bene scratch, effetti, synth, campioni e beat con un’originalità non facile da trovare nel genere. Per giunta, il lavoro è masterizzato perfettamente da Magnus Lindberg, già alla console per i Cult Of Luna. Il problema però sono i tre cantanti. Insipidi, noiosi, con un flow davvero troppo piatto per risultare anche solo vagamente interessante (l’episodio migliore? Il featuring di NLJ al microfono in “48h”). Diciamoci la verità: è già dura rappare da bianchi senza essere ridicoli (chi si salva? Beastie Boys, Rage Against The Machine? Certi Faith No More? Sicuramente non Eminem, né Fred Durst e l’allegra compagnia del nu-metal); rinunciare a qualunque presa di posizione sociale o politica nelle liriche per cantare di videogiochi, e per di più farlo in francese significa segarsi le gambe. Certe urla – “Je ne suis pàààààààààààààs!” – sono davvero imbarazzanti. Imbarazzanti. Peccato. (Stefano Torregrossa)

(CHS Productions - 2015)
Voto: 60

Round 7 - No Excuse

#PER CHI AMA: Hardcore Old School
I vicentini dell'East coast sono tornati con un nuovo album e questa volta prodotto dall'Indelirium Records, label italiana che da più di dieci anni si occupa di rock, punk e affini. Avevamo lasciato il quartetto con il loro EP e il precedente album, aspettando di vedere cosa mai potesse accadere e tra i vari live effettuati in giro per l'Italia, i ragazzotti hanno trovato il tempo per scrivere nuovi pezzi. 'No Excuse' riprende il buon vecchio hardcore in stile NY, con dodici tracce brevi e cariche come la tradizione vuole. Quindi nessuna evoluzione o voli pindarici verso suoni di più recente fattura (leggasi post-harcore, metalcore e quant'altro), ma tanta tradizione suonata con perizia e cognizione di causa. Adrenalina a fiumi quindi, che esplode in brevissimo tempo e vi farà riprendere in mano il jewel case (ottima la grafica) per controllare che si tratti veramente di un album italiano. Il cd apre con l'omonima traccia e subito i riff di chitarra vi investiranno come un treno in procinto di deragliare. La batteria e il basso creano un tappeto ritmico che in due minuti e mezzo circa annienteranno il vostra aplomb da brava persona e vi trascineranno in un headbanging liberatorio. Arrangiamenti ben fatti, nulla è lasciato al caso e nonostante la breve durata del brano, la band non si limita a usare un unico riff e togliersi il pensiero. I cori sono una perla perché rimarcano i cambi e aggiungono maggiore potenza al brano, come ce ne fosse bisogno. Bel brano che punta sull'impatto sonoro e meno sulla velocità d'esecuzione. I Round 7 vogliono mostrarci che ci sanno fare anche quando i bpm aumentano e allora passiamo a "Built on Lies", una sorta di lama impazzita che fa giustizia e ci libera dagli individui falsi che popolano il mondo. La batteria galoppa velocissima e il tocco sulle pelli e sui piatti è sempre preciso come un bisturi mentre il basso tesse le sue linee e fa capolino nell'epico break a metà brano. Le sei corde sono lodevoli, con i riff e gli arrangiamenti annessi a suonare una goduria per le orecchie, senza mai scadere nel banale e mantenendo sempre alto il livello di adrenalina. Grazie ai cori, il brano si arricchisce e guadagna in compattezza, ben fatto. "We Are" è inizialmente il brano meno hardcore del cd: ritmica e fraseggio distesi e duri, quasi ossessivi e ipnotici, ma al segnale concordato, si scateni l'inferno. La velocità raddoppia, gli strumenti s'infiammano e via come non ci fosse un domani. La voce porta con sé tutta la rabbia e la potenza dell'hardcore old school, grazie al timbro maturo; inoltre sa quando e come intervenire nel brano. Il pezzo migliore a mio avviso, meglio strutturato e dove la band è riuscita a concentrare tutto il proprio repertorio tecnico e artistico in poco più di tre minuti. I Round 7 confermano di essere un gruppo con le idee chiare, con il giusto bagaglio tecnico e pronti a far parlare di sé, soprattutto ora che sono sostenuti da un'etichetta solida e produttiva come la Indelirium Records. Aspettiamo con ansia i prossimi lavori, nel frattempo vi consiglio caldamente di andare a sentirli dal vivo, non ve ne pentirete. Dimenticavo: l' ultima traccia "Friends" è un omaggio a tutti gli amici che supportano la band e condividono il loro stile di vita basato sulla musica. Settantotto secondi dove ogni verso è cantato da persone diverse, elementi della band e non, compreso qualcuno che si è trovato casualmente in studio quel giorno! (Michele Montanari)

(Indelirium Records - 2015)
Voto: 80

martedì 1 settembre 2015

Hercyn - Dust and Ages

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch
Non mi nascondo, gli Hercyn li ho osannati in occasione del loro demo cd, 'Magda', un po' meno per lo split album con i There Roya, ma li stavo aspettando al varco. Finalmente esce in questi giorni il loro debut album, 'Dust and Ages' per cui sono assai curioso di saggiare lo stato di forma del quartetto del New Jersey, che tanto mi aveva impressionato per quel sound in stile 'The Mantle' degli Agalloch. Quattro i brani a disposizione, anche se il terzo è in realtà una lunga suite costituita da cinque momenti. Si parte con "Dust", pezzo semi strumentale di quasi quattro minuti che funge più che altro da intro, ove si subodora già la vicinanza ai mostri sacri dell'Oregon. È con "Of Ruin" che inizio a godere: chitarra acustica ed elettrica procedono sincrone, legate da un invisibile filo che serve a donare quell'impercettibile aura magica, di cui avverto 'Dust and Ages' esserne ampiamente avvolto. I suoni po' ovattati sono quasi un must nel genere, le vocals di Ernest Wawiorko sono molto simili a quelle di John Haughm degli Agalloch, ma poco importa. La musica degli Hercyn, pur essendo inevitabilmente derivativa da quella dei ben più famosi colleghi, preserva intatto quello spirito neofolk che avevo saggiato ai loro albori. I quattro musicisti partono poi con le tipiche incursioni malinconiche che si muovono tra il post black e il post rock. Lungo i 14 minuti abbondanti di "Storm Before the Flood" se ne sentono di tutti i colori: si parte da un approccio decisamente brutale, ma poco a poco, la band va in cerca della propria essenza naturistica e la struttura tipicamente black del prologo, lascia spazio ad un mid-tempo più ragionato e onirico, anche se a cadenza puntuale, il sound sfocia in rabbiose galoppate che trovano presto la pace in inebrianti break acustici dal forte sapore rock. A metà brano, e siamo al minuto 7'40" è la splendida abbinata chitarra acustica/basso a solleticare la mia fantasia, consentendomi l'abbandono a soffuse atmosfere rilassante. Ma da li a poco, ecco il rutilante incedere dell'armeria pesante a spezzare ancora una volta l'incantesimo con un riffing epico, che tuttavia non dilapida quello status emotivo che si era fin qui addensato nella mia anima e che troverà peraltro modo di accrescere anche nello spumeggiante assolo di questa lunga song. "Ages" chiude ahimè il debutto degli Hercyn, con 4 minuti e mezzo di delicati arpeggi e il soffice percuotere della batteria. Siamo alla fine di questa prima avventura ufficiale targata Hercyn, ma ne sono certo, sentiremo ben presto parlare di loro. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

#PER CHI AMA: Progressive/Alternative Post Metal, Tool, Porcupine Tree
Quasi due anni fa, facevo conoscenza con un interessantissimo combo proveniente dalla lontana Nuova Zelanda, i Shepherds of Cassini. Il quartetto di Auckland torna oggi sulla scena con un album nuovo di zecca e con un sound come al solito, ricco di contenuti peculiari. Poche le tracce a disposizione dei nostri (6) anche se la durata del disco si assesta sui 60 minuti. Le danze si aprono con la strumentale "Raijin", song che evidenzia la natura post metal a livello delle chitarre, costantemente influenzate da una sorprendente vena mediorientale, confermando quanto di buono già avevo avuto modo di ascoltare nel debut album. Il sound è comunque un saliscendi emozionale già da quello che dovrebbe essere il prologo di questo 'Helios Forsaken'. La seconda traccia è un coro di soli 45 secondi che ci introduce alla lunga suite "The Almagest". Quello che balza subito alle orecchie è una proposta che si muove tra il rock progressivo (alla Porcupine Tree), un che dei System of a Down (soprattutto a livello vocale), la già evidenziata vena orientaleggiante, echi dei Tool, e numeri da circo, affidati all'imprevedibile violino di Felix Lun, alle pulsazioni spaziali del basso di Vitesh Bava, ai funambolici giri di chitarra di Brendan Zwaan e all'esplosivo drumming di Omar Al-Hashimi. I quindici minuti della traccia ci conducono in un lungo viaggio che si sviluppa lungo tre sottotracce che abbracciano il prog, l'alternative rock, ovviamente il post metal e nell'ultima parte, quella che si spinge peraltro verso lidi più estremi, anche una vena rock anni '80, stile King Crimson. È l'ipnotico suono della batteria a farla da padrona nella successiva "Mauerfall", con un inizio in chiaroscuro, lento, suadente, ammiccante e atmosferico, con il basso in sottofondo a dispensare brividi a non finire. Il pezzo è quasi totalmente strumentale; giungono infatti a metà brano due urla sguaiate e la musicalità dei nostri vira prepotentemente verso lidi di tooliana memoria che ci tengono compagnia per una manciata di minuti prima di dirigersi verso un post rock malinconico, nella consueta girandola di tenui colori che gli Shepherds of Cassini sono in grado di infondere nella loro musica, e che ci condurranno a un finale dalla musicalità etnico-tribale. "Pleiades' Plea" inizia in punta di piedi, con la voce di Brendan a deliziarci in compagnia di chitarra e violino. Il brano è un pezzo rock molto delicato in cui assurge al ruolo di protagonista, oltre alla voce del vocalist, l'indemoniato e carismatico violino di Felix. Il finale, musica stratificata inebriante, è affidato a una roboante ritmica che esalta le caratteristiche tecniche dell'act oceanico. Gli ultimi 14 minuti e trenta sono di competenza della title track, song in cui l'approccio post metal torna a farsi sentire più forte, la voce si materializza addirittura in una veste growleggiante, con le chitarre sempre più pesanti. Ma è la solita manciata di minuti che devia come una scheggia impazzita che trova puntualmente modo di volgere verso mille altre sonorità: un rock mediorientale, un break post rock con la voce di Brendan tornata pulita e sofferente, schizofrenici e sincopati cambi di tempo con il vocalist ancora mutevole nella sua performance. E poi la calma, che non preannuncia ovviamente nulla di buono. Il sinistro violino ci prepara al gran finale che non tarda a venire, con divagazioni ipnotiche, suoni oscuri, aperture ariose, growling vocals e tutto e il suo contrario! Pazzeschi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85