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sabato 16 giugno 2012

Hollow Corp. - Cloister of Radiance

# PER CHI AMA: Sludge, Cult of Luna, Isis
E in Francia andiamo a scoprire il debut degli Hollow Corp., band che propone un metalcore (a tratti), fortunatamente arricchito da una forte componente sludge ed industriale, in grado di farmi apprezzare notevolmente quest’album. L’apertura è affidata ad “Elevation” song dall’incedere dapprima veloce, che mi fa credere di trovarmi fra le mani l’ennesimo disco metalcore, ma che poi subisce un rallentamento, presagio di ciò che ci aspetta da questa intrigante release. Dalla successiva “Inferno” infatti, si capisce che il sound proposto dal combo transalpino è più orientato verso lidi sludge piuttosto che metalcore, con brani caratterizzati da lunghezze abbastanza impegnative (sui sette minuti) e da sonorità contraddistinte da un grado di saturazione dell’aria sempre più elevato: la velocità infatti non è mai considerevole, grazie anche ad atmosfere che si fanno sempre più cupe e angoscianti, con giri di chitarra schizoidi che si ripetono (in stile Meshuggah), stordendo non poco il nostro cervello. “Code” e soprattutto la successiva e lunga “Peripherals”, riescono, grazie al loro frustrante incedere monolitico e all’ingegnoso inserto di melodie industrial/psichedeliche (al limite del lisergico), a sballare letteralmente l’ascoltatore, catturandone l’attenzione e tenendone vivo l’interesse fino in fondo. Non c’è nulla di scontato in “Cloister of Radiance”, anche se alla fine si rivela un prodotto di non certa facile assimilazione. Duro da digerire, ma sicuramente di grande presa per un pubblico esigente, che ha ancora voglia di essere stupita, gli Hollow Corp. escono vittoriosi da questa loro prima prova. Da segnalare l’ottima la prova del vocalist, capace di districarsi tra il cantato in growling, screaming e clean. Hollow Corp., un nome da segnare assolutamente sul vostro taccuino! (Francesco Scarci)

(Dental Records)
Voto: 75

Tephra - A Modicum of Truth

# PER CHI AMA: Sludge, Neurosis, Mastodon, Isis, The Ocean
Chissà, forse abbiamo trovato la risposta europea al magnetico sludge statunitense: i Tephra arrivano dalla Germania con il loro suono da giorno dell’Apocalisse. L’album raccoglie 70 minuti di oscure atmosfere e sinistre melodie: “A Modicum of Truth”, partendo dalla tradizione americana, unisce ad essa, bastarde linee doom, sludge e metal. La principale influenza per il quintetto di Berlino, nato nel 2003, viene dai mostri sacri Isis e Neurosis, senza tralasciare tuttavia una forte ascendenza che gli svedesi Cult of Luna hanno avuto sui nostri. Pur certamente non brillando per originalità, la band teutonica riesce comunque ad infondere, attraverso gli undici brani ivi contenuti, tutto il proprio disagio, con dei pezzi altamente emozionali, carichi di disperazione, odio e dolore. Come già mi era successo, ascoltando le ultime fatiche dei Cult of Luna, anche qui la band sembra disegnare, con la propria musica, aspri paesaggi invernali, grazie al loro caustico sludge, reso ancora più distorto e corrosivo, dalla forte componente post-hardcore, individuabile soprattutto nelle linee vocali di Ercument Kalasar. La musica invece, nel suo altalenare di emozioni, passa da picchi di profonda depressione ad altri momenti in cui l’aria si fa cosi rarefatta che diventa quasi impossibile respirare: è il caso di “Big Black Mountain” e “Changes”, due ottimi episodi che insieme a “Until the End”, rappresentano forse al meglio il cd. Ottimo quindi, il passo avanti compiuto dall’act tedesco, rispetto al non brillantissimo esordio del 2005: sicuramente le capacità per emergere, in un territorio tutto da esplorare, ci sono, e i Tephra hanno la giusta carica per farlo… (Francesco Scarci)

(Riptide Recordings)
Voto: 70
 

giovedì 14 giugno 2012

Aquilus - Griseus

#PER CHI AMA: Black Orchestrale, Progressive, Colonne Sonore, Opeth, Morricone
Ne Obliviscaris, Germ, Woods of Desolation ed ora quest’ultimi Aquilus… potremo quasi parlare di New wave of Australian metal, una schiera di band che hanno ricevuto la pesante eredità degli ormai disciolti e fenomenali Alchemist e che portano avanti un discorso di metal assai sofisticato a 360°. Aquilus quindi nelle pagine del Pozzo a soverchiare ogni amante della musica metal, con la loro lunghissima proposta di metal emozionale, che strizza l’occhio al progressive sound degli Opeth, all’ambient di Burzum, alle colonne sonore di Ennio Morricone, senza dimenticare la musica classica dei grandi maestri dell’800. Ragazzi, Aquilus è un progetto che per la sua complessità e per i suoi significati intrinseci, non farà altro che lasciarvi a bocca aperta per le sfumature musicali in grado di emanare, e mi dà enorme gioia vedere come un’altra attenta etichetta italiana abbia potuto fare centro in un modo cosi eclatante. Bravi i ragazzi dell’ATMF Production ad aver assoldato questa one man band che risponde in realtà a Mr. Horace Rosenqvist, uomo dotato di una personalità fuori dal comune, capace di concepire una simile opera d’arte che solo con la prima eccezionale song, “Nihil”, mostra le immense doti a propria disposizione, miscelando un inizio che si barcamena tra sonorità sinfoniche e qualcosa di più estremo, prima di abbandonarsi ad una lunga epica e sontuosa parte orchestrale, da lasciare senza fiato. Sono strabiliato dalla proposta del mastermind australiano, ma la strada per giungere al termine di questa release è lunga e lastricata di splendide sorprese. Ed è cosi che si apre “Loss”, altro brano che fa delle atmosfere sognanti, il suo punto di forza, prima di cedere il passo a parti black sinfoniche, con gracchianti growling vocals, sorrette da ariose e sinuosi parti ambientali, costituite da pianoforte ed eleganti arpeggi. Un po’ più dei Dimmu Borgir più orchestrali, molto vicini alle colonne sonore dei grandi maestri del passato e del presente, più oscuri di entità estrema quali Emperor o Limbonic Art, più strazianti dei gods del death doom, quali My Dying Bride o Saturnus, gli Aquilus sbaragliano in ogni modo la concorrenza, sfoderando una prova a dir poco magistrale, fatta di suadenti melodie, ritmi da brivido, emozioni che a poco a poco scalano i miei sensi fino a raggiungere un’orgasmica vetta, che credevo fino ad oggi irraggiungibile. La successiva “Smokefall” ha tutti gli elementi per evocare il sound degli Opeth e forse nel primo minuto e mezzo, è anche quella che mi convince meno, ma niente paura perché il nostro amico Horace poi, al solito, parte per la tangente e troverà il modo di disorientarci con le sue trovate a dir poco originali. E cosi lentamente si prosegue nell’ascolto di questo lavoro assai camaleontico, che ha il pregio di evolvere brano dopo brano, scaldarmi il cuore, riempirmi di gioia, ma anche tanta malinconia come la struggente “In Lands of Ashes”. Meraviglioso. In Australia deve esserci gran fermento nell’ultimo periodo perché insieme alla Francia rappresenta la nazione che sta sfornando il maggior numero di band interessanti. Con “Latent Thistle” capisco che l’amico “aussie” si trova a proprio agio anche in frangenti più propriamente death metal; certo non pensate di trovarvi chissà che cosa in mano di estremo, tanto è sfuggevole la proposta del bravo Horace, che sguscia come un’anguilla nelle nostre mani, tanto l’eclettismo palesato anche in quest’altra song, come anche nelle successive che via via si susseguono nel corso di un lavoro che stupirà non poco gli addetti ai lavori, ma che mi sento in obbligo di suggerire a tutti gli amanti di sonorità metal, black, prog, death, neo-folk, classic, heavy, thrash, gothic, post o dark che siano… tanto tutto convoglia dentro a questo fantasmagorico lavoro che equiparo senza alcun timore, per classe, idee, originalità e mille altre sfaccettature, all’album d’esordio dei connazionali Ne Obliviscaris. Australia, ultima frontiera per il metal, la fermata è obbligatoria! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 90
 

mercoledì 13 giugno 2012

Ea - Ea

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Thergothon
Che le porte dell’inferno si aprano a voi. Benvenuti ancora una volta nel tetro antro della bestia. Gli Ea sono tornati, con quello che è il quarto capitolo della loro discografia. L’enigmatica band russa questa volta supera se stessa in fatto di numero di song e si limita a proporci una lunga suite di 47 strazianti minuti di funeral doom. Ripartendo laddove avevano lasciato con il precedente capitolo, “Au Ellai”, gli Ea (il cui nome si rifà a quello di una divinità babilonese) aprono questa nuova release con dei lugubri tocchi di pianoforte, che si rivelerà la vera anima del cd. Poi ecco i piatti ed infine il lento tribolare delle chitarre, lente, sovrane e dilanianti, prima che il vocalist soverchi con il suo orrorifico growling, il sound dei nostri. Torna la lente marcia funebre ad accompagnarmi nell’ascolto dell’omonimo capitolo degli Ea. Gli ingredienti per descriverne il sound, rimangono quelli di sempre: ritmiche oscure, estremamente malinconiche e decadenti, dal lentissimo e pesantissimo incedere, deprimente e soffocante. Dopo 13 minuti, ecco il primo squarcio di luce nel cielo plumbeo degli Ea: un riffing abbandona il desolante gelo creato fino ad ora, per infondere un po’ più di calore nella fredda notte della taiga russa, ma poi ecco poi il sound dei nostri ripiombare nuovamente negli abissi. Mi ridesto al minuto 26, quando a fare capolino è un’eterea voce femminile. La cosa inizia a farsi ancora più intrigante, l’atmosfera è ariosa, assai melodica, ma in paio di minuti il ghiaccio paralizzante di cui è intriso il sound degli Ea, freeza l’immagine, ne fa una istantanea, da cui è difficile mobilizzarsi. Le mie gambe sono come inglobate dalle sabbie mobili. Un nuovo fulmine si staglia nel buio paesaggio notturno: un assolo da panico che per due, tre minuti, blocca il battito del mio cuore. Una sorta di Pink Floyd in versione funeral, che tormenta abilmente il mio io interiore, con un dolore portato all’esasperazione totale, la cui unica soluzione è la fine di tutto. Il nulla. Se avete bisogno di abbandonarvi in una catartico flusso emozionale “Ea” è ciò che fa per voi, ma attenzione ad abusarne, vi potrebbe portare al suicidio… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 75

In My Shiver - Black Seasons

#PER CHI AMA: Black Shoegaze, Depressive Rock, Katatonia
Mi piace proprio la svolta che ha preso il metallo oscuro negli ultimi anni. Una moltitudine di band orientate verso il black o il doom, sta crescendo in tutto il mondo, portando dentro di esse il seme dello shoegaze, del post e del depressive. Di esempi ce ne sarebbero a camionate, basta cercare anche qui nel Pit. Uno di questi famigerati gruppi sono gli In My Shiver, giovine band proveniente dalle Marche, trio che, fortunatamente, ha capito come fare musica in questi dolorosi anni. Il problema (o presunto tale) è che questo disco è veramente, ma veramente figo. L'artwork progressista sembra rappresentare l'ormai irreversibile sviluppo (o decadimento?) del mondo moderno, dove non si sta tanto male e rivolgendosi ai musicisti più true che ancora fanno le foto nei boschi, pare proprio dire "Guarda che è oramai è così la vita, ed anche la musica: svegliati fuori". L'album si erge grazie a delicate melodie a tempi rallentati simili al doom tipico die primi Katatonia, affiancati a tetri tremolo picking ed efficaci cambi di tempo, i quali sfiorano il massimo della tendenza black, proposta dalla band di Camerino. Non c'è nessuna traccia così eccitante da elevarsi sopra le altre, eppure quest'opera riesce a dimostrare la sua spiccata personalità e non cadere nella monotonia, grazie ad un songwriting fresco e ricco di idee. Quasi cinquanta minuti di oscura malinconia che passano senza accorgersene. (Kent)

(Solitude And Despair Music)
Voto: 80

Shyy/... - The Path Toward Forgetfulness

#PER CHI AMA: Shoegaze, Black, Infinitas, Heretoir
Cina, Italia, Brasile. È su questa inedita asse d’alleanza, che si sviluppa il qui presente split cd, che vede i brasiliani Shyy, condividere la scena con i nostrani … (DotDotDot), sotto l’egida della sempre più presente Pest Productions, intraprendente etichetta cinese. E allora, passiamolo in rassegna questo interessante lavoro, che si vede aprire con il trittico di songs firmato dall’act sudamericano, che propone uno shoegaze di chiara derivazione francese. Soffermiamoci sicuramente su “Her, Her Landscapes” che segue la pseudo intro di “That Soul is an Empty Cue” e godiamo appieno la proposta dei nostri che, a livello melodico, sembra configurarsi come una versione un po’ più veloce dei The Cure più solari, con le vocals che seguono, nella versione più pulita, i dettami di gente come Les Discrets e Alcest, prima di cedere il passo ad uno screaming in realtà mai troppo esasperato, ma piuttosto sofferente. Folgorato. Positivamente. La proposta del combo carioca mi ha letteralmente conquistato per la squisitezza delle sue accattivanti melodie e per la sua incapacità, in senso buono ovviamente, di essere violento. Il tutto viene confermato anche con la successiva “Sobriety”, che suona però come una sorta di lunga outro, tra sonorità aliene e ripetitivi giri di chitarra; peccato però che si esaurisca cosi velocemente, senza che il sottoscritto sia in grado di dare una valutazione, a più ampio spettro, della performance della band. È il turno dei fantomatici DotDotDot, il cui trittico di song, aperto da “Ascending to the Night Sky”, si presenta con un riffing apparentemente più caotico dei colleghi, prima di assumere una propria linearità, sul cui sfondo si scontrano le vocals in duplice veste, scream e clean. È comunque il totale approccio d’improvvisazione a tenermi incollato allo stereo, in quanto, il combo italico gioca con repentini cambi di tempo, che sanno di avantgarde, ma anche di divagazioni più propriamente jazzistiche, contaminato dalla vena dark alternative dei Klimt 1918. Mi rendo conto di aver messo tanta carne al fuoco, ma la colpa, anzi il merito, non è certo mio. I tre “puntini di sospensione” non lasciano nulla al caso, non sono certo banali e, oltre ad evincerlo dall’inusuale nome della band, lo si deduce anche dalla seconda “Like Shooting Stars”, che dopo un’apertura “romantica”, si abbandona allo screaming schizoide del suo vocalist (a cui chiedo di migliorarne leggermente lo stridore), prima che i nostri, ancora una volta, si incanalino in un vortice musicale multi sfaccettato, che a livello vocale rischia addirittura di evocare lo spettro dei californiani Dredg, su uno sfondo musicale che non dà alcun punto di riferimento. Splendida traccia. Giungiamo alla conclusione di questo lavoro, affidando il tutto a “Vanishing Among Tides”, altra perla di profonda malinconia che mi spinge a saperne di più di queste due vibranti band. Peccato solo per il basso numero di tracce proposte, altrimenti sono certo che il mio voto avrebbe sfondato ampiamente il muro degli 80! (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 75

martedì 12 giugno 2012

AtomA - Skylight

#PER CHI AMA: Dark, Space Rock, Ewigkeit, Tiamat
Uno degli album più attesi da parte del sottoscritto, si vede finalmente materializzare nella mia collezione personale di cd, dopo un attesa durata ben otto anni da quello che fu il debutto degli svedesi Slumber, successivamente scioltisi e dalle cui ceneri, sono sorti questi AtomA, che ancora una volta, come i predecessori, mi prendono per mano e mi conducono verso un viaggio ai confini dello spazio. “Skylight” è un’altra magnifica perla nel sempre più florido panorama metal, un lavoro che apre con la bellissima intro omonima (cosa assai rara di questi tempi), che unisce trance music con musica elettronica. Poi ecco il cd, aprire ufficialmente le danze con la title track, che riprendendo il suono emozionale degli Slumber, lo amplifica enormemente in un turbine emotivo da urlo, in cui una bellissima musica mi avvinghia, mi scalda il cuore, mi fa sorridere, mi rende felice. Melodie arabesche si avviluppano ad uno space rock, che sa molto delle ultime performance degli inglese Ewigkeit, il tutto spruzzato da quel magico feeling che solo i primi Amorphis erano in grado di emanare. Tiepide growling vocals si alternano con uno splendido cantato pulito in una mistura di suoni che sono in costante crescendo emotivo. Partono dall’anima e poi su, più su toccando ad uno ad uno tutti i miei sensi, attraverso dieci splendide tracce, che tra incursioni progressive, escursioni al limite dell’EBM, reminiscenze dark dei Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber” (“Highway”), labirintiche e disorientanti scorribande nel cyber metal, senza dimenticare i forti influssi della musica classica, psichedeliche reminiscenze dei Pink Floyd ed infine frangenti al limite dell’ambient, ci regalano un’altra pazzesca release in questa primavera infuocata. Da sottolineare, oltre alla già citata performance del vocalist, a suo completo agio, nelle porzioni pulite, da premiare anche la prova del tastierista, vero artefice di questo capolavoro. AtomA, gli alieni venuti dallo spazio infinito… (Francesco Scarci)

(Napalm Records) 
Voto: 85

lunedì 11 giugno 2012

Dysthymia - The Audient Void

#PER CHI AMA: Brutal Death Metal Progressive
La band toscana ci giunge con questo super lavoro dopo un anno circa dalla sua uscita e dopo varie vicissitudini, cambi di formazione e stop forzati per motivi personali del vocalist Giacomo Bortone. I Dysthymia con “The Audient Void”, segnano un confine che sarà duro per molte death metal band superare, tanta è la precisione tecnica, la fantasia e la cura con cui suonano e costruiscono i loro pezzi. Basta ascoltare i singoli strumenti per tracciare un profilo della band. Una sezione ritmica strabiliante con un batterista (Giuseppe Bracchi) fuori dalla norma per capacità tecnica e feeling che rende i brani alquanto accessibili pur rimanendo intensissimo e devastante, una macchina da guerra ma di finissima artiglieria. Alla sua corte suona il basso Marco Bruni che a mio avviso fa un lavoro stupendo, sempre presente con un suono morbido e pulsante, avvalorato da questa brillante produzione che gli da eco e giusto podio. Le chitarre di Stefano Bargigli e Filippo Occhipinti sono agili e mai fuori luogo, complicate, violente e raffinate, metodiche e tecniche come i migliori Cynic, un equilibrio perfetto. Gli assoli sono uno spasso con quel retrogusto “Carcassiano” dal suono caldissimo e profondo (leggi Bill Steer) - ascoltate la traccia 2 più o meno al minuto 2:39 o al minuto1:12 e 3:02 del terzo brano la classe di questi chitarristi -. Infine la voce spaventa per padronanza della scena e versatilità tra growl strascicati stile Obituary, escursioni black/gothic oriented, Arch Enemy style e un velo di Dark Tranquillity, questo è un cantante da 10 e lode. Non starò qui ad elencarvi traccia dopo traccia quale sia la migliore perché in realtà tutte sono di ottimo livello e godibilissime. L'alto potere di questo album sta nel rendere il death metal (musica che non è per tutti) accessibile a chiunque voglia impegnarsi nel suo ascolto. Vorrei sbilanciarmi e affermare che “The Audient Void” ha raggiunto quello che molti dischi della scena internazionale sono solo riusciti a sfiorare e questo grazie ad uno sforzo di produzione extra - nazionale e un mixaggio e masterizzazione fatti a regola d'arte in un ottimo studio qual è l'Hertz di Bialistock in Polonia che ha visto passare band fondamentali come Vader o Decapitated. I Dysthymia hanno fuso le loro varie influenze, le hanno elaborate fino a renderle proprie e a loro modo originali, magari non del tutto innovative ma sicuramente un balzo in avanti come logica di mercato e qualità di prodotto. Il cd è ben confezionato, ben suonato, ben registrato e contenente un'anima, una passione “di ferro” e un gusto che parifica tecnica, orecchiabilità, potenza e stile in sette brani da favola. Tutto questo guarnito di liriche incentrate sul dolore e sulla descrizione dei peccati e delle aride illusioni della vita moderna.“Ode On Melancholy” e “Aching Pleasure” riprendono due strofe dall’omonima ode del poeta inglese John Keats sulla malinconia intesa in senso romantico e la depressione è descritta in “Slow Movements” . Special guest nel disco: Oleg Smirnoff (Death SS/ Vision Divine/ Eldritch) alle tastiere in “Certain Uncertainties”. La distimia (Dysthymia) è una forma di depressione cronica e di certo non rispecchia la “botta di vita” che l'ascolto di questo album ti riserva! Se cercavate l'album death metal da incorniciare questo fa per voi, non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Buill2kill Records)
Voto: 90
 

Funeral Mourning - Drown in Solitude

 #PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Non c’è nessuno qui intorno. Fuori dalle finestre una leggera pioggia ticchetta insistente contro il vetro. È da poco passata la mezzanotte e la luna non si è ancora presentata. Quando “Winds of Unknown Existence” inizia, ho l’impressione che strane figure nel buio si facciano avanti per ascoltare la canzone insieme a me. Non sono più solo. “Drown in Solitude” è una Via Crucis ristretta in cinque tappe dall’andamento lento e misterioso, una marcia funebre verso l’esilio eterno (“Sounds of a Dreary Sea” è la “The Light at the End of the World” di questa band). Tematicamente, l’album affronta il sentimento di morte nei suoi più svariati aspetti: sociale, spirituale, animale, trascendentale; meno violento ma più macabro de “La Grande Danse Macabre” dei Marduk (sebbene il genere diverga, i temi sono affini). La genesi Funeral Mourning affronta, mostrando incontestabili capacità artistiche, un suono che si situa a metà tra un depressive black metal di taglio armonico e un funeral doom basato più su melodie di singole note che feroci serie di pesanti accordi. Anche la voce staziona a metà tra growl e screaming. La traccia più rappresentativa dell’album è senza dubbio la title track; in sé germogliano i frutti di ogni variante presente nel resto del disco: sofferenti introduzioni (quasi) monocorde, deboli elementi ambient, evoluzioni in distorsione, melodie di base riprese e variate. Come sempre, in questi casi parla il cuore. “Drown in Solitude” sviscera dall’interno il cervello dell’ascoltatore, lo avvolge in un manto di lino e lo accompagna verso l’ultima, fredda tappa. Ci si affeziona a queste musiche. Le si fa proprie. Oltretutto, all’interno del booklet, è presente una concisa riflessione sul perché è stato deciso di intraprendere la strada di un album dedicato alla morte. Consiglio vivamente di prenderne atto prima di procedere all’ascolto. Come aveva suggerito Fernando Ribeiro nei suoi Moonspell: “Silenzio e Rispetto”. (Damiano Benato)

(Goatowarex)
Voto: 90
 

sabato 9 giugno 2012

Cardiac - Contro l'Astuta Sublime Mancanza di Verità

#PER CHI AMA: Post Punk, Psichedelia
I Cardiac sono relativamente giovani come gruppo (nati nel 2007), ma dietro questo nome si nascondo inquietanti musicisti che calcano le scene underground veronesi da svariati anni. Per non dire secoli... Lasciando da parte le cagate, oggi non vi racconto la storia di un gruppo, ma di un'idea. I gruppi si formano, si sciolgono, lasciano un segno indelebile nelle anime e poi svaniscono come acqua nel deserto. Le idee rimangono, vengono copiate oppure raccolte e coltivate, per farle vivere e sopravvivere nel mondo di mediocrità che imperversa, soprattutto nella musica. I Cardiac non andranno da nessuna parte (citando la loro biografia), ma sicuramente il viaggio e le persone che li accompagnano sono le cose che più importano. Questo EP raccoglie sei tracce dallo stile psichedelico, prog e post punk, con quel tanto di new wave che crea uno stile personale, elegante e aggressivo allo stesso tempo. L' artwork è tenebroso, il rosso sangue stacca dal nero tenebroso dello sfondo. La cura del suono è maniacale e la tecnica dei quattro musicisti è quanto di meglio si possa trovare oggi. Tutto inizia con "Vitriol", circa sei minuti di sgomitate distorte e ritmiche incalzanti che rincorrono la soave voce di Betty, alternando atmosfere claustrofobiche, urli a colpi di wah e stacchi puliti che fanno respirare l'ascoltatore tra un tuffo e l'altro. "Madre" inizia subito di slancio, con una trama basso-batteria studiata nel dettaglio, mentre la voce trasmette una nota infantile che scompare con l'entrata dei riff di chitarra per trasformarsi in un incidere lento e ansiogeno. L' EP si chiude con personale interpretazione "cardiaca" di Caldo dei Diaframma. Piccola chicca che insegna come si fa una cover senza cadere nel ovvio e lasciare il proprio marchio di fabbrica. Ottimo lavoro, da ascoltare con attenzione, come quando si ha un buon libro da leggere e tutto intorno deve tacere, per cogliere tutte le sfumature. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 85

lunedì 4 giugno 2012

Calendula - Aftermaths


#PER CHI AMA: Post Hardcore, Soilent Green, Iron Monkey, Cancer Bats, Black Flag
Stanco, sudaticcio ed accaldato, salgo in macchina non tanto per tornarmene a casa ma per ascoltare il tanto ammirato disco dei Calendula. E' domenica sera, anche se il sole mi tradisce con i suoi immondi raggi, ed è appena finito un concerto alquanto speciale, di cui non posso promuovere luogo ed organizzazione, perchè è talmente true ed hardcore che se viene detto pubblicamente c'è il rischio di finire in gabbia. Tanto per informarvi, oltre i Calendula hanno suonato i Fall Of Minerva, poi c'era la presentazione del primo full-length dei Whales And Aurora (di cui trovate la recensione su queste stesse pagine), e come headliner c'erano i Celeste, di cui spero potrò parlarvene in altre occasioni. Ma torniamo al disco. Ancora sotto shock dalla gentilezza dei membri della band (i buoni, belli e bravi J., L., P., M.) prendo in mano finalmente la tanto ammirata busta con un adesivo raffigurante l'incappucciato bontempone della Lo-Fi Creatures, con sotto scritto “Red Limited Series 32/50”. Eh sì ragazzi miei, non è un normale disco, all'inizio pensavo addirittura che fosse un 7 pollici. All'interno troviamo l'ipnotizzante copertina cremisi e diverse schede, ognuna raffigurante da un lato un artwork evocativo e dall'altro il testo di una traccia. Ma passiamo alla musica, anche se tutta questa presentazione vi avrà già detto che è un album super fico e da acquistare assolutamente. Anche se finisce l'edizione limitata eh, blu fa mica schifo. Vi avviso che il lettore della mia automobile non è il top, però l'effetto a volume sostenuto con diversi bicchieri di vino in corpo è stato più o meno paragonabile ad una sberla in pieno volto. E non pensate che questo “Aftermaths” sia la classica becerata Sludgecore capace di stuprare l'udito alternando tupatupa, urli e pesantume doom. Mi trovo davanti un lavoro fin troppo accurato e finemente studiato per lanciare l'ascoltatore in una sorta di stage diving negli abissi infernali. Sì sì, con i demonietti che pogano e Astaroth che se ne sta da parte a strafarsi di erba perchè non ha più l'età per muoversi troppo. Sto parlando di tracce piene di valida musica, con così tante idee da fare altri tre dischi uno più malato dell'altro. Riffoni esagerati, distorti, al limite del black, ci radrizzano i peli di tutto il corpo, mentre una dietro l'altra, le tracce ci scaraventano addosso tutto il marcio dello sludge misto alla velocità del post-HC, il tutto contornato da un'amorevole oscurità e condito con qualche saltuario tremolo picking e più presenti armonizzazioni mathcore, che per quanto non mi piaccia il genere, colmano dei passaggi fondamentali nel disco. La produzione è leggermente sporca. Ed è proprio questo voluto particolare a creare la giusta atmosfera in questa pubblicazione. Vi dico però, se siete troppo metal non cimentatevi in questo ascolto. Lo spirito di questi ragazzi è molto post-hardcore. Io non sono per niente un amante di queste sonorità, ma i Calendula rappresentano l'eccezione perchè mi colmano con vagonate di sludge. (Kent)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 80

sabato 2 giugno 2012

Visthia - In Aeternum Deleti

#PER CHI AMA: Misanthropic Black Avantgarde, Aborym
Quando dico che il black metal in Italia è in ascesa, ne ho ben donde, grazie anche a band quali i Visthia, che non temono di andare controcorrente, oltre i confini della sperimentazione. In questo caso stiamo parlando di un black dai tratti abbastanza canonici in fatto di brutalità. Il quartetto siculo propone infatti un sound, la cui fiamma nera arde che è un piacere, ma presenta un tratto distintivo, non da poco: il tutto è infatti cantato rigorosamente in latino e in italiano e tra una sfuriata e l’altra, sono le articolate e dissonanti sonorità a farla da padrone, quasi la proposta dei nostri fosse tinta di suoni avanguardistici. Quel che è certo, è che i Visthia non sono una band comune; sebbene nell’ultimo periodo in Italia impazzi, per mia somma gioia, la moda di cantare in lingua madre, i nostri probabilmente sono tra i primi ad aver inaugurato questo modo di interpretare la musica, ancora diversi anni fa. Tralasciando quelli che sono i tratti tipicamente black dell’album e quindi tutte le consuete ritmiche serrate con la batteria che corre più veloce del fulmine, influenzate dalla tradizione svedese (Dark Funeral), ciò che più cattura maggiormente la mia attenzione e accresce la mia stima nei confronti di questi misantropi della solare Sicilia, sono quelle parti mid tempo assai rallentate, in cui si possono scorgere i tratti tipici di una forma di musica estrema, caratteristica distintiva del patrimonio italico, che ho già potuto scorgere in act, quali Aborym, Inchiuvatu o Deadly Carnage. Ottime le vocals, sia in chiave scream/growl, ma soprattutto in versione pulita, che declamano in modo solenne, una forma di disprezzo cosmico, come una sorta di Virgilio inferocito col mondo. Ammaliante poi quel riffing di matrice nordica, un po’ in stile Unanimated che, al pari di una sega circolare che sta tagliando lentamente le ossa di una gamba, palesa lo stesso stridore, mentre ricama quei lenti riffs assassini. Difficile segnalare una song piuttosto di un’altra, visto che comunque il livello esecutivo e compositivo si mantiene comunque sempre piuttosto elevato. Italia, casa nostra, sinonimo di fierezza; non è più necessario guardare casa altrui con somma invidia, la scena è florida e potente, anche grazie ai Visthia. (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 75