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domenica 21 novembre 2010

Modern Funeral Art - Doom With a View


Avete presente quelle immagini dove sembra di vedere un calice, ma anche due profili? Questo è quello che mi è saltato in mente dopo il primo ascolto di “Doom With a View”. Secondo full lenght per questo trio francese, che qui ritorna alla sua line-up originale: Arnaud Spitz voce e basso, Benoît Sangoï alla batteria e Pascal N'Guyen alla chitarra. Il titolo richiama, con un gioco di parole, il libro “Room with a view” (in Italia “Camera con vista”) di E.M. Foster. Citazione confermata dall’artwork (una camera con vista particolare) del packaging super minimalista. Nel sito del gruppo, si descrivono le tracce come “ninne nanne”: ora non so quale bambino potrebbe addormentarsi ascoltandole (e che sogni farebbe nel caso), ma se si intendevano canzoni un filo monotone ci può stare. Il lavoro è stilisticamente molto lineare e coerente, tanto che mi risulta difficile trovare una canzone che si stacchi chiaramente dalle altre; il che in questo caso non è un male assoluto, ma un probabile punto di forza. Attenzione, è anche un forte limite. A chi non sia già avvezzo al genere musicale, o ci si avvicina per la prima volta, può essere noioso, ma dategli una possibilità. Provate: fatelo partire e lasciatevi prendere. Sonorità oscure, forti ma non oppressive. Questo è il prodotto della fusione del suono potente, pulito degli strumenti e della voce volutamente monotona, ruvida quasi sgraziata del cantante. L’opening track dà immediatamente l’idea dell’album e poi ecco arrivare “State of the World”. Chitarra, basso e batteria subito potenti, l’inizio possente si stempera nella voce malinconica del singer e questa carica rimane sottotraccia per il resto della canzone. Questo animo duale si ripete, anche se diversamente modulato, nelle altre songs. “Sol Invictus” possiede questo carattere, ma ha nell’intro e nelle sonorità con tastiere assai scure, un carattere più decadente. Trovo nella calmissima “Mary Jane Kelly” sonorità più calde e anche il cantato di Arnaud si ingentilisce, una specie di speranza più forte a metà del viaggio. Un po’ annacquata dalla lunghezza “Dante in the Dusty Woods”. A chiudere molto teatralmente ci pensa “The Dance”, che trova nel suo finale sfumato, un modo elegante di porre fine al platter. Risultato: una sensazione gotica fusa con energia, un senso di tristezza ma con una forza particolare sempre pulsante... Insomma, avete presente quelle immagini dove sembra di vedere un calice, ma anche due profili? (Alberto Merlotti)

(Apollon Record)
voto: 75

Soulsteal - Mirror is a Lonely Place


Nicosia, capitale dell’Isola di Cipro, Anno Domini 2001: nascono i Soulsteal. Socrates, Markos, Soteris, Doros: pregate per noi. No, non siamo di fronte ad una satanica litania, sono semplicemente questi i nomi dal retrogusto “alchemico” dei nostri paladini. Curiosi questi Soulsteal, non c’è che dire. I venti minuti in cinque pezzi di “Mirror is a Lonely Place”, primo e breve demoCd della formazione, si sviluppano come solo una polaroid saprebbe fare: piano, senza fretta, ci vengono svelati particolari sempre più definiti fino a rivelare l’istantanea finale, uno scatto metaforico e depressivo che descrive appieno l’essenza del gruppo. I sussurri, le lunghe pause, l’andamento lento, la voce growl profonda e cavernosa: sono questi i magici ingredienti di cui è intrisa questa release, colonna sonora degna per una “sacra scrittura” come “A Descent Into the Maelstrom” di Lovecraft. Poche parole, dunque, bastano a definire questo disco: breve ma piacevole da ascoltare, semplice e da bere tutto d’un fiato. (Rudi Remelli)

(Self)
voto: 70

domenica 7 novembre 2010

Astel Oscora - Eridan


Li avevamo lasciati nel 2009 con il loro primo lavoro “Wormshire” per la MSR Prod., gli Astel Oscora tornano con la loro seconda fatica “Eridan”, questa volta per la Grailight Prod. La nuova release è costituita da 11 pezzi, nei quali non si avverte per niente il “gelo russo“, anzi si percepisce un calore, un’atmosfera e una vitalità incredibili. Il cd si apre con “The Source”, un bel pezzo strumentale che fa da buon apripista per “The Amulet” che deflagra con tutta la sua energia. Tutti gli 11 pezzi si contraddistinguono per un’avvolgente aria ricca di epicità, con atmosfere assai ricercate, segno del duro lavoro effettuato dal gruppo in questo ultimo anno. La tracklist è ben organizzata, con un susseguirsi di canzoni mai banali ma sempre coinvolgenti e bombastiche. L’ascolto, sebbene alcune song eccedano in lunghezza, scorre via veloce, intenso e piacevole. Di certo questo è un cd per chi adora ascoltare band come Limbonic Art o Emperor, grazie alle atmosfere molto particolari, evocative, sinfoniche a tratti surreali. Per essere al loro secondo lavoro, gli Astel Oscora hanno capito il sentiero da percorrere per creare una buona musica che pur non presentando nulla di originale, sa dispensare intense emozioni. Canzoni come “Phaeton”, “God Of Dead Dreams”, “Nimph of Stone”, “Sea of Malice” o “Crimson World”, si presentano ricche di pathos, avvolgenti nel loro incedere, intense e assai varie, cosi come pure anche la title track che chiude e presta il suo nome al cd, è una song assai particolare perché nonostante sia del tutto strumentale, si rivela assai intrigante, oserei dire quasi rilassante, la perfetta chiusura di un lavoro che mostra la progressione della band russa. Musicalmente gli Astel Oscora sono molto bravi, gli strumenti non sovrastano mai gli altri e i vari riffs, sono ben strutturati ed eseguiti. Nel complesso il lavoro è molto buono, gli Astel Oscora promettono bene, sia dal lato creativo sia da quello musicale. Peccato purtroppo, come è inevitabile, che talvolta si scada nel già sentito e si venga presi da una sensazione di stanchezza che per fortuna viene controbilanciato dalla varietà delle parti suonate. Da parte nostra possiamo dire in bocca al lupo ragazzi, siete forti e potrete ottenere ottimi risultati lavorando sodo! (PanDaemonAeon)

(Grailight Prod.)
Voto: 75

sabato 6 novembre 2010

Wedding in Hades - Elements of Disorder


Per chi avesse mai avuto preconcetti sui francesi del tipo “fanno un buon vino”, “hanno avuto Platinì e Zidane” ecc, ci si dovrà ricredere. Abbiamo ascoltato i Wedding In Hades e devo dire che ci hanno sorpreso parecchio e piacevolmente. Questi 4 ragazzi arrivano dalla Francia più precisamente da Saint–Brieuc (Bretagna). Con “Elements Of Disorder” registrato per la BadMoodMan Music, i nostri giungono al loro primo ufficiale full lenght. Il cd comprende 8 tracce e immediatamente stupisce per l’aria innovativa che ci consente di respirare: non è il tipico cd di death o gothic metal, sorprende infatti per il suo discostarsi dalla furia canonica che purtroppo martirizza molto spesso questo genere. Di certo se si vuole ascoltare qualcosa di violento, banale e brutale, decisamente questa release non farà per voi. “Elements Of Disorder” è un disco innovativo, le linee di chitarra suonano alle mie orecchie come nuove, fresche e ricercate. Di certo quel che emerge dall’ascolto di questa prima uscita, è che i ragazzi hanno osato e a nostro parere hanno fatto bene. La track list è ben organizzata e il cd scorre via piacevolmente senza alcun modo stordire l’ascoltatore (cosa da non sottovalutare). Nota interessante da rilevare, a parte la bravura dei musicisti che rendono l’album piacevole all’ascolto è la voce, voce che viene utilizzata sia nel modo oscuro del gothic, che col growling tipico del death, senza disdegnare l’utilizzo di clean vocals. Questa miscela rende questo lavoro un vero, buon punto d’inizio per questi quattro ragazzi transalpini. Se si dovesse trovare un difetto all’album (se poi di difetto vogliamo parlare), bisogna dire che purtroppo le canzoni risultano talvolta alquanto lunghe, ma per fortuna, grazie all’ottima miscela di riffs, con parti alternate tra momenti veloci e violente a momenti più tranquilli e quasi rilassanti, con la voce che si dipana tra grugniti violenti e brutali, per poi diventare quasi dolce, mostra la spiccata disinvoltura dei Wedding in Hades nella ricercatezza di una propria definita identità. Nel suo complesso, questo debut merita di essere ascoltato (e acquistato), per cogliere la ventata di freschezza e di originalità che esso porta con sé. Da sottolineare ancora una volta, la voglia di osare del combo d’oltralpe, che non si è rinchiuso nei limiti del genere anzi, ci ha voluto far conoscere, con molto coraggio, “il proprio mondo”. Da parte mia posso solo dire alla fine “Avanti Galletti “, penso che dei Wedding In Hades sentiremo parlare ancora, in bocca al lupo ragazzi, andate forte… (PanDaemonAeon)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

StoneD Jesus - First Communion


Che dire, un cd con copertina Teschio-Serpente si presenta nel classico stile stoner. Manca solo il cactus e il paesaggio di Palm Desert c'è tutto. Ma ovviamente un buon packaging non fa certo un buon cd. Quindi infiliamo nello stereo "First Communion" dei Stoned Jesus con i suoi 4 brani e sentiamo... La prima traccia "Occult" parte timida e un pò minimalista, quasi un inizio in sordina. Chitarra stoner per eccellenza, basso-batteria fusi da manuale e una voce che ricorda il buon vecchio Ozzy dei tempi che furono. Poi il pezzo evolve e si struscia contro i cactus a ritmo serrato; buon inizio, azzeccato anche il campionamento che fa da intro. Poi passiamo a "Red Wine", pezzo sinuoso dove la voce di Igor accarezza e poi graffia i riff classici e già sentiti nello Stoner classico dei 70s. Devo dire che le sovraincisioni di chitarre pulite e assoli rende personale il pezzo che scivola bene come un buon bicchiere di Bardolino sorseggiato in riva al lago. "Black Woods" resta lento dall' inizio a quasi la fine, per un totale di dodici minuti di brano. Niente che brilli per originalità ma le venature psichedeliche fanno apprezzare il brano, ottimo per un bel viaggio in macchina modello Route 66. Ed infine la volta di "Falling Apart", decisamente il mio pezzo preferito. Questa volta siamo sui quattordici minuti ma è come fossero tre brani in uno, visti i repentini cambi di tempo che si susseguono nel suo incedere. A mio avviso un buon EP questo dei Stoned Jesus, sicuramente gli amanti dello stoner classico lo gradiranno per le sonorità psichedeliche e mai rabbiose. Sicuramente chi cerca qualcosa di nuovo ne resterà distante, ma diciamo anche che questo genere si ascolta meglio in un bar polveroso, dove la birra ghiacciata è l' unica medicina al caldo opprimente del deserto. (Michele Montanari)

Solitude Productions
Voto: 65

Side C - Stati d'Alienazione


Piacevolmente curioso e interessante questo esordio. Il quintetto di ragazzi veronesi riporta, come punto della loro origine “in nuce”, il 2006. Considerano però il 2008 il vero e proprio anno di nascita del progetto, quando si ha il definitivo cambio di stile compositivo: da qui sorge questo demo autoprodotto "Stati d'Alienazion". Attualmente la formazione vede Laura alla voce, Michele alle chitarre, Thomas al piano, tastiere e voce, Paola al basso e voce, Andrea alla batteria. I Side C si definiscono un progetto musicale di rock progressivo e si propongono di comporre in maniera libera da schemi e preconcetti tipici dei generi musicali, facendosi però influenzare da tutti. Questo EP dimostra che i nostri ci riescono appieno. L’immagine che mi è apparsa al primo giro di tracce è quello di un’amalgama variopinta di generi che va dal rock, al jazz., passando dal progressive al blues. La varietà di suoni, la duttile e piacevole voce della cantante Laura, i cambi di ritmo e di stile frequenti anche all’interno di una sola track danno la sensazione di  avere di fronte un gruppo giovane, ma con una grande padronanza del mezzo e una buona conoscenza delle proprie capacità. Quattro canzoni, quasi 29 minuti. In questi casi penso: mmm saranno mica troppo lunghe? Risposta: ni! Partiamo dalla opening track “Radio Alienazione/Imperfezione”. Ok, l’inizio con l’effetto “sintonia radio” e la citazione sull’infinità della stupidità (e pensare che c’è chi la usa per la pubblicità dei vestiti, la stupidità) non brillano per originalità. Poi però si parte con un ritmo vagamente jazz, poi un cantato, un giro di piano, assolo della cantante, chitarra elettrica distorta, suoni elettronici e per finire chitarra classica. E siamo solo a 3’40’’. Questa anima mutevole si ritrova, diversamente declinata, in ogni song e rappresenta il vero punto di forza di questa band. Si prosegue con “L’Altro Lato”, a mio avviso la migliore. Particolarmente equilibrata nei cambi, con interessanti inserti elettronici e di tastiere, un assolo molto jazzy e con la bella voce di Laura che si esprime in tutta la sua gamma di tonalità. In “Slowly Dies”, il cui testo è ispirato ad una poesia di  Pablo Neruda, i nostri insistono un po’ troppo sulle tastiere all’inizio, ma la parte melodica centrale risulta davvero emozionante. Chiude il poker “Nuova Speranza”, niente male, bei giri di piano ma già la stanchezza affiora, peccato. Alla fine ho la pancia piena e sono abbastanza soddisfatto. Ci sanno fare, la varietà dei gusti c’è e la voce della cantante è veramente notevole. Ce ne fossero di gruppi così. Passiamo a cosa mi ha convinto meno. La registrazione dell’album, non proprio buona, nasconde molto: peccato. Come tutte le prime opere, si tende a strafare: canzoni lunghe ed esposizione completa del repertorio. Credo sia tutto legittimo per carità, devono pur farsi sentire. Credo anche che alcune sforbiciate qua e là non sarebbero state male, avrebbero tolto quella sensazione di “uffa ancora così” in alcuni punti, alleggerendo il tutto. Inoltre avrebbero reso più fluido il lavoro, annullando quel “senso” di scatto che ho provato certi passaggi. Peccati veniali, direte. Vero. Purtroppo, in un lavoro di breve respiro, pesano. C’è di buono che non oscurano quel molto di buono che hanno espresso. Un plauso per l’artwork del cd: molto bello e originale. Ad uno sguardo distratto potrebbe sembrare bambinesco, ma guardatelo per bene e non vi lascerà indifferenti. Le liriche sono minimaliste, funzionali ai lunghi momenti solo musica. Qui potrebbero osare di più, anche come originalità. Promossi sicuramente, rimango in attesa del LP. Non fatemi aspettare troppo però... (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto: 75

martedì 2 novembre 2010

Silhouette - Theory of Dream


Attenzione attenzione perché forse abbiamo trovato i degni eredi dei finlandesi Amorphis e la cosa intrigante è il paese d’origine di questi ragazzi, la piccola Lituania. Questo cd autoprodotto si presenta interessante già da subito per l’elegante digipack, la copertina fantasy e la prima song, “Masters of the Dice” che si apre con un meraviglioso giro di chitarra, supportato da eteree tastiere; poi attacca la voce e un po’ storco il naso: voce un po’ sporca, poco espressiva, ci devo fare un attimo l’orecchio, intanto assaporo e godo delle bellissime linee di chitarra che mi avvolgono la mente e mi spingono a descrivere le eccitanti emozioni che sprigionano dentro alla mia anima le note di questo “Theory of Dream”,un tuffo nell’oceano dove mi abbandono in un mare di spensieratezza. Sono passati solo tre minuti in cui mi sono inebriato di queste fresche sonorità; parte un pianoforte che apre “…Of Lost Souls and Eternal Rains” e poi eccole ancora li, quelle chitarre progressive a delineare un talento ai più nascosto, un sound a metà strada tra il folk di “Elegy” degli Amorphis e il sound sperimentale dei Decoryah. La voce va via via migliorando di traccia in traccia, ma è sempre il turbinio emotivo delle melodiche linee di chitarra a guidarmi nello scrivere in modo cosi frenetico queste poche righe dell’album che non ti aspetti, della band assolutamente e totalmente sconosciuta, il tipico fulmine a ciel sereno, che mi dimostra che l’underground ha una miriade di band su cui io punterei ad occhi chiusi e i Silhouette, o come scritto sulla cover del cd [,silu:’et], sono decisamente tra queste. Ottimo gusto per le melodie, tecnica sopraffina, tanta fantasia, poche idee scontate e direi che un contratto a questo quintetto del piccolo paese di Klaipeda, è a dir poco d’obbligo. Un’ottima produzione completa un lavoro di ahimè poco più di mezz’ora, dove malinconici tocchi di pianoforte accompagnano costantemente riffs heavy prog e suoni sintetici proveniente da un’altra galassia. Ultima menzione per il duo “The Fallen of Light” e “Extraterrestrial Dreams”, le song più complete e spaziali dell’Ep, dove tra l’altro c’è l’alternanza tra un growling assai convincente e le oscure dark vocals già citate a inizio recensione. A chiudere il cd ci pensano le tranquille note di “Alley Grave” e un velo di malinconia mi attanaglia la gola, perché non vedo già l’ora di ascoltare il sequel di questo straordinario “Theory of Dream”. Per ultima, una curiosità tutta da appurare: come riportato sul loro sito, ci sono dei cd (a random), in cui appare anche un’ottava canzone, “Lonely Voices pt. IV - Echoes in the Skyes”, io non sono stato cosi fortunato, magari lo potreste essere voi… Strepitosi! (Francesco Scarci) 
 
(Self)
Voto: 80

Woods of Ypres - Woods 4 - The Green Album


Dopo la recente pubblicazione del meglio dei primi 3 lavori, i canadesi Woods of Ypres, “Indipendent Nature 2002-2007”, ritornano sulle scene con un nuovo sorprendente capitolo della loro discografia, “The Green Album”. Già a partire dall’iniziale “Shards of Love”, mi rendo conto di trovarmi tra le mani un ambizioso, intrigante e quanto mai controverso cd, per quel suo mood estremamente romantico e malinconico al tempo stesso che spesso si scontrerà nel corso della sua evoluzione con elementi un po’ fuori luogo, ma andiamo con ordine. Abbandonate (quasi) definitivamente le sonorità black degli esordi, la band di Toronto si candida seriamente a rivestire un ruolo di fondamentale importanza all’interno della scena doom mondiale. Il sound di questo platter segna definitivamente l’ampliamento degli orizzonti musicali dei Woods of Ypres, il cui nome, mi piace ricordarlo, riconduce alla cittadina belga di Ypres, dove i tedeschi uccisero nel 1915, più di 5000 uomini in pochi minuti, utilizzando le famigerate armi chimiche al cloro, e dove la sola divisione canadese riuscì a farla franca, impiegando come maschere, fazzoletti imbevuti di urine. Dicevamo di ampliamento di orizzonti musicali, di espansione del proprio sound in territori mai battuti prima dalla band, perché questo introspettivo “The Green Album” esplora aree più oscure, malinconiche e doomish, che mai l’ensemble aveva fatto prima d’ora. Già si intravedeva per carità, nei precedenti lavori questo desiderio di sperimentare, questa necessità di portare avanti nuove idee, ma mai mi sarei aspettato una simile evoluzione nella musica dei nostri. 15 altalenanti composizioni (forse un po’ troppe a dire il vero, visti i quasi 80 minuti di musica), che vi condurranno in un mondo surreale, quasi fatato, dove potrete apprezzare della musica suonata con grande classe. Difficile fare un’analisi per ogni traccia, tuttavia mi piacerebbe soffermarmi su quelle che sono le mie song preferite: oltre alla opening track, citerei il trittico ”I Was Buried in…”, “Dirty Window…” e “…And I Am Pining” che mostrano le nuove sonorità della band, all’insegna del cupo decadentismo, grazie anche l’utilizzo del piano e agli eccellenti arrangiamenti; “Wet Leather” richiama vagamente un improbabile mix tra Type o Negative e Moonspell. Qualche stancante passaggio a vuoto all’insegna del death, che in un lavoro di tale portata ci può anche stare (ma che si poteva tranquillamente evitare), ed ecco arrivare all’acustica ninna nanna “You Are Here with Me” che vede la partecipazione in qualità di ospite, di un chitarrista sperimentale di Ottawa. La successiva monolitica “Retrosleep in the Morning Calm” ci riconsegna il tipico Woods of Ypres sound, fatto di ottime melodie e alternanza tra growling (poche) e clean (la maggior parte) vocals. Ultima citazione per la conclusiva “Move on! (the Woman will always Leave the Man)”, brano che mette in luce ancora una volta le qualità eccelse di una band che quando vuole è in grado di fare la differenza. Peccato appunto per qualche passaggio, dovuto all’inserto poco felice di canzoni che poco hanno a che vedere con il resto del cd, che vorrebbe e dovrebbe essere un lavoro di doom sperimentale ma che ogni tanto cade nel tranello della traccia black o death (peccato altrimenti avrebbe meritato molto di più). Non mi è nemmeno chiaro il perché (se non per la presenza di David Gold alla batteria) l’edizione limitata comprenda il cd dei sud coreani Necramyth, “Slaughter of the Seoul”, concentrato di brutal death/black, del tutto fuori posto in questo contesto. In definitiva, un album con tante luci (e incantevoli spunti) ma anche tante ombre, di cui faccio sinceramente fatica a comprenderne il significato. Comunque sia, “The Green Album” gode di tutta la mia stima e fiducia, perché contiene rare perle di musica, davvero affascinanti. Consigliato! (Francesco Scarci) 


(Practical Art Records)
Voto: 75

Astel Oscora - Wormshire


Sinistre tastiere aprono questo lavoro di black sinfonico degli sconosciuti russi Astel Oscora e ancora non riesco a comprendere come mai la maggior parte delle band provenienti dall’est Europa, non riesca a trovare lo spazio che merita dalle nostre parti, perché di musica interessante, in quella area remota del nostro continente, ce n’è davvero molta. E i nostri, pur non inventando nulla di originale, ci propinano 6 tracce (più intro, outro e 2 intermezzi) di un interessante black metal, che viaggia su mid-tempos mai troppo sostenuti, ma sempre estremamente melodici e atmosferici. Si parte con “Blazing Inferno” e già si intuiscono le influenze della band: decisamente il quartetto di Mosca deve aver appreso la lezione di “For All Tid”, esordio discografico dei Dimmu Borgir, mischiato i suoi suoni con quelli di “The Principle of Evil Made Flesh” dei Cradle of Filth, aggiunto quelle tastiere tanto care ai Limbonic Art e il risultato che si presenta, direi che è più che soddisfacente. Si, mancherebbe un altro nome davvero importante della scena, gli Emperor, e credo che un po’ del sound di Samoth e compagni, si possa ritrovare nelle note di questo “Wormshire”. Ecco insomma, non proprio dei nomi messi lì a caso, ma quello che è stato il gotha del black sinfonico di metà anni ’90. La band moscovita quindi ha studiato per bene la lezione dei maestri e l’ha messa in pratica nel migliore dei modi. “Angels are Sinful too” è un gran bel pezzo, dove tutti gli elementi son ben bilanciati tra loro: l’apertura è affidata alle sapienti tastiere di Madlen, lo screaming di Anubis può richiamare il vocalist dei Nokturnal Mortum, le chitarre, epiche nel loro incedere, disegnano linee melodiche avvincenti, ma è l’aura magica che si respira in tutto il brano (e in generale in tutto il disco) a rendere “Wormshire” un disco da avere. “The Land of Worms” è un altro brano ben riuscito, un po’ più tirato del precedente, con blast beat a raffica, ma pur sempre carico di dense nubi sulfuree, grazie ancora una volta al magnifico lavoro alle tastiere della bravissima Madlen (tra l’altro anche tastierista di Sworn e Symbol of Obscurity), capace di creare tetre atmosfere infernali. Una segnalazione per le ultime 2 songs cantate in lingua madre e con tanto di testi in cirillico all’interno del booklet del cd. Insomma, se siete amanti del black sinfonico melodico, che caratterizzò la metà degli anni ’90, “Wormshire” è ciò che fa per voi. Bravi! (Francesco Scarci) 

(MSR Production)
Voto: 70

Belakor - Stone's Reach


Ancora una volta è l’Australia ad allietare le mie orecchie con suoni estremamente suggestivi: dopo Insomnius Dei, Phalanx ed Empyrean, ecco arrivare anche i Be’lakor con il loro sound a cavallo tra death doom e progressive e già tutto mi è più chiaro. Questo è il genere che prediligo in assoluto perché in grado di regalare le emozioni più forti alla mia anima. Questi cavalieri dell’apocalisse ci offrono otto splendide composizioni che partendo da un sound vicino a quello degli Opeth, ne prendono immediatamente le distanze, riuscendo a costruire trame musicali davvero convincenti ed avvincenti già dall’iniziale “Venator”, song ricca di melodia, atmosfere cangianti capaci di passare repentinamente da frangenti acustici ad altri più elettrici. Anche la successiva “From Scythe to Sceptre” naviga sulla stessa onda, grazie alle deliziose malinconiche linee di chitarra offerte dal duo Shaun Sykes e George Kosmas (quest’ultimo anche vocalist della band); ma è con questa song che gli “Aussie boys” ci prendono ufficialmente per mano accompagnandoci nel loro mondo articolato, riflessivo e decadente, dove ad alternarsi sono splendide ambientazioni crepuscolari con altre più selvagge, finendo per creare un seducente gioco di chiari scuri che può incoronare il five pieces australiano nel gotha del death metal melodico. Le successive “Outlive the Hands” e “Sun’s Delusion” non fanno altro che confermare quanto appena scritto: ritmiche da urlo, sorrette da un continuo ed efficace lavoro di ricerca di melodia, come solo i grandi gruppi scandinavi sono in grado di fare e tanta tanta fantasia che nulla alla fine lascia di scontato nell’ascolto di questo eccellente lavoro. Se solo il growling del frontman fosse stato leggermente più espressivo, magari alternando i cavernosi vagiti con altre parti più sofferenti (ma pulite), l’album avrebbe meritato sicuramente qualcosa in più. La produzione ben equilibrata, accanto allo spessore tecnico-stilistico dei componenti del combo australiano, non fa altro che confermare l’eccelsa qualità di una band che ha tutte le carte in regola per sfondare in Europa, forti ora anche di un contratto di distribuzione con la Kolony Records. Se siete amanti di questo genere, non far vostro questo cd, sarebbe davvero un peccato veniale. (Francesco Scarci)

(Prime Cuts Music/Kolony Records)
Voto: 80

Phalanx - The Perpetual Myth


Dall’Australia con furore, eh si perché l’apertura di questo Ep di 6 pezzi (per 28 minuti di musica), inizia in modo veramente esplosivo con un attacco davvero micidiale. Dopo una trentina di secondi, si inizia a ragionare, ma poi neanche tanto a dire il vero, visto l’alternarsi di cambi di tempo che già l’opener “Rome is Ruined” ha da offrire. Il genere proposto dal quintetto di Brisbane è un black death dalle forti tinte sinfo-progressive. Dicevamo della prima traccia che presenta una ritmica prettamente death, con inserti black sinfonici (grazie ad un intelligente uso delle tastiere) e cambi di tempo davvero spiazzanti. Si prosegue con “Blackmail” e la song non è fantasiosa quanto la prima: chitarre zanzarose in primo piano e con le vocals di Chris ad alternarsi tra un cantato stile Shagrath e il growling tipico del death. È una song abbastanza banale, suonata con ordinaria amministrazione, ma poi sul finale il ritmo si fa più incalzante, il pathos sale e sembra di udire una cavalcata in pieno stile Amon Amarth. La terza “From the Ashes”, corre via con il suo black cosmico che pesca a piene mani dal repertorio di Emperor, mentre “Possessed by Infernal Torment” mostra il lato più epico dei nostri nonostante l’inizio sia tra i più selvaggi mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Il sound è violentissimo, ma poi nella sua evoluzione, è in grado di dipanarsi brillantemente tra elementi estremi ed influssi rock progressive, con un epos davvero avvolgente ed intrigante, decisamente la migliore song di questo cd. La quinta traccia è solo un intermezzo acustico che prepara alla furia dirompente della title track, dove mi sembra di ritrovarmi al cospetto del fantasy black dei Bal Sagoth. In definitiva, “The Perpetual Myth”, pur non offrendo nulla di particolarmente innovativo, ha stuzzicato enormemente i miei sensi, facendomi scoprire una nuova interessante realtà musicale da tenere assolutamente monitorata. Ottimi in prospettiva futura! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Sicmonic - Somnambulist


Cosa volete che vi dica di una band che ho scoperto io navigando semplicemente sul web e consigliandola al patron dell’Aural Music? Per me sono semplicemente straordinari, tuttavia cercherò di evidenziarvi luci e ombre di questo cd, che, uscito originariamente per la Phoenix Showcase Entertainment ad inizio 2009, la sempre attenta Aural Music rilascia per il mercato europeo, tra l’altro con 4 bonus tracks. L’attacco è affidata a “To the Fiendz”, arrembante song in cui ritroviamo tutti gli elementi cardine che costituiscono il “Sicmonic” sound: ritmiche devastanti ma iper-melodiche, continui cambi di tempo, vocals pulite e growl, sprazzi di follia, per quella che è la mia song preferita. La successiva “Till the Morning Light” mostra il lato più alternative e tribale della band statunitense, con influenze derivanti dagli Ill Nino e dai System of a Down, ma partendo da queste sonorità i nostri espandono il concetto di musica alternativa, costruendo una canzone fenomenale, una sorta di ballad estrema, con la calda voce di Taylor Hession, vero punto di forza del combo di Phoenix, a sbraitare come un pazzo nel microfono; da panico poi le linee di chitarra cosi malinconiche e stracariche di pathos.. Ribadisco, sono geniali e anche la title track conferma queste mie parole pur mostrando un’attitudine un po’ più post hardcore, cosi come la successiva “Illumination”, selvaggia e brutale song dal mood apocalittico, una cavalcata verso le viscere della terra. Solo ascoltando “Somnambulist” potrete capire di che cosa stia parlando e quali emozioni sia in grado di sprigionare questo disco: era da tanto, forse dai tempi di “Toxicity” dei SOAD, che non sentivo qualcosa di così avvincente in questo ambito. Magari ci possono essere cose che faranno storcere il naso ai puristi della musica estrema, tipo le vocals al limite del rap in qualche pezzo, ma vi garantisco che di violenza qui ne troverete più che in un disco brutal death, solo che la cosa splendida è che non si tratta di violenza fine a sé stessa, ma di furia controllata, grazie ad ariose aperture melodiche o all’utilizzo del violino (si avete capito bene, un violino che suona questo genere!) che svolge un ruolo cardine in “Just How Far Down Do You Want to Go?” o nel folle finale affidato a “Devil Went Down to Georgia”. Forse vi verrà il diabete ascoltando “Requiem”, ma dopo l’assalto delle prime tracce, vi garantisco che un attimo di tregua, seppur smelenso, ma dotato di grande tensione emotiva, ci sta tutto, poi la voce di Taylor su quell’arpeggio, che delizia... Giusto il tempo di una boccata d’ossigeno e i nostri tornano a spaccarci le ossa con un’altra serie di songs, magari non tanto brillanti quanto le prime, ma che comunque si dimostrano interessanti, per quel loro connubio tra extreme music e quantità di groove industriali. Per ciò che concerne le bonus tracks si tratta in realtà di 4 brani estrapolati dall’album di debutto dell’act dell’Arizona, “Look to the Skies”, che comunque mostrano il lato più hardcore del five pieces. I Sicmonic sono una vera forza della natura, ricchi di talento e idee brillanti, provare per credere! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
voto: 85