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martedì 28 novembre 2023

Turangalila - Lazarus Taxa

#PER CHI AMA: Psych/Post Metal
Li avevo recensiti un paio di anni fa con quel sorprendente 'Cargo Cult', che delineava una band in preda a psichedelici slanci math/post rock. Li ritrovo oggi con un nuovo lavoro, 'Lazarus Taxa', e una maturità artistica rinnovata che sottolinea l'eccellente stato di forma della band barese. Dieci nuove tracce quindi per assaporare ancora quell'irrequietezza di fondo che permea il sound del quartetto pugliese, che si materializza immediatamente con le soffuse ma granitiche melodie shoegaze dell'introduttiva "Wow! Signal", un pezzo che in un qualche modo, sembra evocare quel post metal che avevo descritto nell'ultima "Die Anderen" del precedente album. Un pezzo timido che lascerà ben presto il posto a "Neopsy" e a una ritmica potente ma forte di una linea melodica più dinamica e coinvolgente, che si muove comunque in un'alternanza tra sonorità più fluide e altre più oblique che giocano, non poco, a disorientare l'ascoltatore. Effetto quanto mai recepito durante il mio personale ascolto di questa song, cosi incisiva e ipnotica, e convincente soprattutto a livello vocale. Soffice invece l'approccio offerto in apertura della spettrale "Ugo", dove un senso onirico perdura fino a quando i nostri non decidono di aumentare il numero dei giri, in una strategia musicale che vede una successione ritmica tra atmosfere più pacate e altre più movimentate, dove peraltro a palesarsi, c'è anche una sezione d'archi. Suggestiva non c'è che dire, anche nella porzione più rabbiosa nel finale che ci introduce alla più nevrotica "P38", traccia che si muove tra ritmiche sincopate e vocals eteree, altro effetto che potrebbe essere confondente a chi approccia la band per la prima volta. Ma questo è ciò che vogliono trasmettere i Turangalila, ne sono certo: in "Antonio, Ragazzo Delfino" la band ci scuote con una ritmica di tooliana memoria, anche se ad un certo punto (verso il terzo minuto), il sound diviene più lisergico nelle sue deliranti e ossessive linee di chitarra. Ancora tanta sofficità nelle note sognanti della title track, almeno fino a metà brano, quanto farà capolino l'asprezza delle chitarre che per 50 secondi ringhiano come lupi inferociti, ma che successivamente ci accompagneranno in incorporee atmosfere ultra sensoriali. "Reverie" è una schiva (e stranita) strumentale traccia arpeggiata che tuttavia sembra cullarci in modo psicotico, prima di un'altra breve song, "A Pilot With No Eyes", che sembra lontanamente odorare di un che dei Neurosis più sognanti. Lo sludge più torbido e melmoso di questi ultimi si fa più evidente nelle note di "To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye", costituita da atmosfere dense e dilatate al tempo stesso, esplosioni convulsive e spasmodiche e rallentamenti angoscianti, che la innalzano quale brano più strutturato del lotto e anche mio preferito, e dove, i vocalizzi del frontman abbandonano la componente shoegaze per abbracciare quella più pulita e profonda del buon Scott Kelly. A chiudere ci pensa un ultimo buffetto sul viso, ossia le delicate note strumentali (con tanto di malinconico sax) di "Jisei" che fissa nuovi ed elevati standard artistici per i Turangalila. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2023)
Voto: 78

https://turangalila.bandcamp.com/album/lazarus-taxa

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 marzo 2023

BleakHeart - Twilight Visions

#PER CHI AMA: Doom/Shoegaze
Avevo particolarmente apprezzato la proposta dei BleakHeart ai tempi di 'Dream Griever' per quel loro flavour musicale che li avvicinava tremendamente ai norvegesi The Third and the Mortal. Questo EP, intitolato 'Twilight Visions', non sposta più di tanto la barra dell'act statunitense se addirittura non ne amplifica la componente doomish a livello musicale, lasciando tuttavia inalterati i vocalizzi della bravissima ed emozionante Kelly Schilling. La triste e decadente "No Way Out" si pone come apripista del dischetto, tra lugubri e catartiche atmosfere sorrette da un riffing intenso (emotivamente parlando non in termini di pesantezza, sia chiaro) e dalla stessa voce di Kelly che accompagna quelle linee di chitarra che ammiccano in più di un'occasione ai già citati master nordici. La title track sembra inglobarci invece in una delle surreali scene di Twin Peaks, magari dove il famigerato nano balla al ritmo della musica fluttuante dei BleakHeart che nel corso del brano, strizzerà l'occhiolino ai The Gathering. A me la musica di questo quintetto di Denver piace eccome e vi invito pertanto a dargli un ascolto. (Francesco Scarci)
 
(Self - 2022)
Voto: 74
 

giovedì 8 dicembre 2022

Solitär - Bus Driver Immigrant Mechanic

#PER CHI AMA: Psych/Dream Pop
Il polistrumentista svedese, Mikael Tuominen, già presente in formazioni del calibro di Kungens Män e Automatism, si cimenta in un primo disco solista, uscito via Tonzonen Records, carico di atmosfere dense, intrise di intimità e ispirazione. Il canto sempre quasi sommesso e schivo, si presta molto bene alla forma di psichedelia che l'autore mischia spesso a fattori folk e post rock, melodie luminescenti, spesso ipnotiche ed estatiche. Si parte con "Electric Sea", un bel brano dai tratti desertici, un'evoluzione corale e mantra doorsiani con una buona dose di ricordi, che portano alle sonorità di "Fire Walker" dei Black Rebel Motorcycle Club, uno stile che ritroviamo peraltro in molte parti dell'album. "Ship of Excitement" inizia con un sound che ricorda certe cose dei Cocteau Twins per leggerezza e utilizzo delle chitarre, mentre "Concrete Spaceship", cerca di aumentare il ritmo senza aumentare il rumore, creando un'atmosfera surreale e sospesa, con un uso del noise guitar molto intelligente. A sorpresa in una veste psych folk sommessa e sofferta, avvolta in una luce abbagliante, Solitär si cimenta in una versione originalissima di "The Price", la storica canzone dei Twisted Sister, ottenendo davvero un bel risultato. 'Bus Driver Immigrant Mechanic' evolve brano dopo brano, pur rimanendo in un contesto di musica ipnotica e statica, elettronica e minimale, shoegaze, un post rock di scuola Mùm con qualche richiamo a certa psichedelia evoluta in stile Legendary Pink Dots. Le atmosfere soffuse richiamano magma sonori notturni come la versione di "Satellite of Love" di Milla Jovovich in "Million Dollar Hotel", dotata di un umore malinconico ma sognante. "Spegel Spegel" potrebbe essere un brano dimenticato in qualche cassetto dei Crime and the City Solution, suonato dai Mercury Rev, mentre per "It Rains" potremmo scomodare Hugo Race e la sua musica lunare. La cupa "A Flash in a Glass Jar" è figlia di certa new wave di classe, e sfodera sonorità vicine agli Echo and the Bunnymen, con un lento incedere e tappeti di tastiere maestosi all'orizzonte, con una coda finale assai cinematografica. Chiude il cerchio la brevissima e acustica "Brus", l'unica traccia cantata in lingua svedese, per il resto la lingua utilizzata è quella della terra d'Albione. In definitiva, devo ammettere che 'Bus Driver Immigrant Mechanic' è un album intrigante, profondo e molto sofisticato, certo non è d'impatto e non funzionerà tra i rockers più duri e puri, ma per chi cerca buona musica introspettiva questa è proprio una valida alternativa. Un disco ragionato e ben prodotto con suoni caldi, profondi e intimi, un disco per tipi solitari a tutti gli effetti. (Bob Stoner)

giovedì 20 ottobre 2022

Kodaclips - Glances

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk
I Kodaclips sono una creatura formatasi nel recente passato. La formazione del quartetto italico risale infatti al 2021, con 'Glances' a rappresentarne il disco di debutto e una forma di tributo ad una delle principali influenze della band, ossia i post rockers statunitensi Slint, con il titolo a citare il testo di "Don, Aman", traccia inclusa nel secondo disco 'Spiderland'. Fatti questi dovuti preamboli, la musica dei nostri si muove nello spettro del post rock/shoegaze sognante ed etereo, con certe divagazioni che chiamano in causa anche un certo alternative rock stile Smashing Pumpkins (e penso ad alcune schitarrate incluse nell'opener "Temporary 7") che ben si amalgama con ammiccamenti e derive varie che ci porteranno nei paraggi di certo post punk. Lo shoegaze viene fuori alla grande nella seconda "Pacific", un brano dotato di una certa vena malinconico-depressiva, soprattutto a livello vocale e nelle cupissime melodie che ne affliggono l'andatura. Qui l'aura shoegaze si miscelerà ancora con il post rock che si esplica nel finale grazie a fraseggi in tremolo picking. L'inizio di "Drowning Tree" poteva aprire tranquillamente qualche brano dei The Cure ma i punti in comune con alcune band del passato ci conducono anche ai The Jesus and Mary Chain di "Mood Rider", mentre, sempre ampio spazio strumentale viene concessa alla seconda parte del brano, dotata di celestiali aperture post rock ma anche di roboanti riffoni post grunge. La voce di Alessandro Mazzoni è convincente quanto basta nel suo malinconico riverbero. "Not My Sound" apre con un sound ripetitivo quasi ipnotico, complice il frontman a cantare ininterrottamente "it's not my sound..." e con una coda noise nel finale. Convincenti, mi piacciono. Anche se non tutti i brani sono accattivanti allo stesso modo: "Cerbero" ad esempio la trovo un po' più statica e piattina, anche se da metà brano in poi prova ad invertire rotta e rimettersi in carreggiata con un cambio nell'architettura ritmica, sfoderando peraltro un bell'assolo conclusivo. "Muffling" non mi fa impazzire invece per quella sua eccessiva vena brit-pop nella prima metà, ma credo sia più un problema del sottoscritto, ancorato a sonorità più estreme. Nel corso del brano, la porzione ritmica si farà più energica (complice il basso di Sonny Sbrighi a tracciare poderosi fendenti), cosi come le contaminazioni noise emergeranno alla grande, invertendo nuovamente il mio giudizio iniziale. Musicalmente "Longinus" mi richiama qualche sperimentalismo di "primusiana" memoria mentre la conclusiva, strumentale e più lunga traccia del lotto, "Chrysomallos", chiuderà questo 'Glances' con l'eleganza, la robustezza e la maturità di una band di veterani, anche se, con la voce, il risultato è di tutt'altro effetto. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 74

https://www.facebook.com/kodaclips/

giovedì 5 maggio 2022

Carpet Waves - Inner Weapons

#PER CHI AMA: Post Punk/Alternative
La Germania continua a sfornare una dietro l'altra interessantissime band post punk, con il filone emerso dal movimento punk degli anni settanta, sempre più in ascesa. I Carpet Waves sono un quartetto originario di Düsseldorf che ci presenta questo EP di cinque pezzi intitolato 'Inner Weapons', che richiama ovviamente quello che fu il rivoluzionario sound esploso in UK a fine anni '70. E cosi i nostri irrompono con la trascinante "Biography" (da cui è stato peraltro estratto anche un video), che suona post punk al 100%, per poi ammorbidire la propria proposta con la più malinconica "Aura", e quel suo piglio shoegaze (Slowdive docet) con le vocals del bravo Benjamin ad evocare inevitabilmente Robert Smith (The Cure). Questa seconda traccia mi convince decisamente più dell'incipit del disco, vuoi anche per quel suo vorticoso giro di chitarra, cosi intenso ed evocativo. "Shadows" è un po' più scarna musicalmente anche se nelle sue ritmiche ritrovo, oltre che al post punk, anche un che di indie e brit pop, ma non fatevi ingannare troppo perchè il finale sarà tutto in discesa con distorsioni di chitarra e parti atmosferiche davvero interessanti. "Narrow Dream Factory" ha un piglio decisamente più dreampop e per questo non rientra proprio tra le mie favorite, sebbene il finale, ancora una volta, avrà modo di stupirvi per il relativo inasprirsi della sua sezione ritmica. In chiusura, la lunga "Void Wilderness" ci riconsegna quell'aspetto più malinconico osservato in precedenza, abbinato però all'alternative sound degli americani Dredg dei tempi di 'Catch Without Arms'. Insomma quello dei Carpet Waves è un interessante comeback discografico che vi mostrerà come il panorama teutonico sia vivo e vegeto più che mai. (Francesco Scarci)

(Waveland Records - 2022)
Voto: 72

https://carpetwaves.bandcamp.com/

sabato 23 aprile 2022

Gong Wah - A Second

#PER CHI AMA: Psych/Post Punk/Indie
Li abbiamo apprezzati un anno e mezzo fa quando i nostri uscivano con il loro album omonimo. Tornano oggi i tedeschi Gong Wah, forti di un nuovo lavoro all'insegna di quelle sonorità kraut rock, elettronica e fuzzwave che avevamo avuto modo di apprezzare nel debut. 'A Second' segna il passo del secondo capitolo per la band di Colonia che vede ancora l'evocativa voce di Inga Nelke dominare il palco. E la proposta dei Gong Wah la si apprezza sin dall'opener, cosi gonfia, cosi melodica e trascinante. "Heartache Jean" corre che è un piacere e noi con la fantasia proviamo a starle dietro. "The Well" nel suo incedere pop rock ci porta nel mondo fatato dei Gong Wah, dove il basso magnetico di Giso Simon si unisce al fare seducente di Inga. Le percussioni darkeggianti di Nima Davari aprono "Consolation", una danza ipnotica che non potrà non coinvolgervi nel suo mood non troppo distante pure dallo shoegaze, in un brano che ha una progressione splendida e violenta, che la identificherà alla fine di questo viaggio, tra i miei brani preferiti del lotto. Sofferenza pura per la minimalista "Baby, Won't You Come Along", tiepida e inconsistente però nelle sue zaffate droniche. Più votata al post punk con venature elettroniche invece "Paint My Soul", ancora una volta coinvolgente nelle sue note quasi danzerecce, con la voce di Inga qui sopra gli scudi. E si arriva al momento del pezzo più lungo e strutturato del disco, "One Fine Day", otto minuti di commistioni sonore tra elettronica minimalistica, IDM, kraut rock e qualche ulteriore sfumatura che solo ripetuti ascolti potrebbero palesare. Ma questo è un altro pezzo favoloso di questo 'A Second', un disco in grado di celare ancora piccole perle tipo l'irruenta e sbarazzina "The Violet Room Track". Più ritmata invece "This Life", ed è in questo genere di brani che vedo più "normalità" nella proposta dei nostri, anche se, ancora una volta la voce suadente di Inga, ravviva un po' il tutto. In chiusura la ninna nanna affidata a "A Head Is Not A Home", una ballata che chiude questo stimolante e sperimentale lavoro dei Gong Wah. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 76

https://gongwah.bandcamp.com/album/a-second

venerdì 11 marzo 2022

Pia Fraus - Now You Know It Still Feels The Same

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Dovevano celebrare i 20 anni passati dal debutto del loro primo full length e così hanno pensato bene di cimentarsi in una nuova compilation di brani che furono semplicemente scritti, qualche tempo prima di quell'album che gli fece iniziare una splendida carriera musicale. Il dream pop è un genere astratto, amato da persone miti e tenaci che vogliono raccontare e ricercare altri stati di coscienza, è psichedelia a tutti gli effetti, con la costante sentimentale sempre in prima linea e se poi riuscite ad immaginarne un punto di contatto con il post rock e le teorie del rock alternativo, come risultato otterrete la formula sonora dei Pia Fraus, a mio avviso la band estone più anglosassone che esista in Estonia. La musica di questa band ha sempre mantenuto nel tempo i suoi elevati standard di fantasia e composizione, una buona originalità, un lato sognante assai spinto e dopo un cospicuo numero di uscite di carattere, sono approdati a questa compilation di brani intitolata 'Now You Know It Still Feels The Same' che aiuterà il pubblico a conoscerli meglio, anche se credo che capolavori come 'That's Not All' o 'Nature Heart Software' del 2006, non si possano proprio ignorare in ambito shoegaze, dream pop o soft psichedelia. Il mix proposto dalla band è frutto di numerose associazioni sonore tra i quali i My Bloody Valentine, di cui si appropriano il suono delle chitarre, i Cocteau Twins degli ultimi lavori da cui traggono un'attitudine cristallina ed eterea, gli immancabili Medicine con un pizzico di Lush, ed anche una velata ammirazione per l'ipnosi elettronica dei Seefeel di 'Quique' ed il pop incantato dei Broadcast. Con un'orecchiabilità da far invidia, i Pia Fraus si rendono capaci di atmosfere surreali che si espandono tra chitarre lisergiche, distorsioni di scuola Kevin Shields e doppia voce, maschile e femminile, di carattere estatico che ci accompagnano in un viaggio a ridosso del sole. Questa compilation li rappresenta bene, anche se il loro repertorio è talmente vasto e sfaccettato, che un insieme di canzoni così, può solo dare una piccola idea di quella che è la reale portata di questa band, nata dalla voglia di un gruppo di adolescenti, che hanno deciso di fare musica indipendente partendo dal nulla. 'Now You Know It Still Feels The Same' è un gran bel disco, con tutti i connotati che servono ad un album shoegaze per essere ben accolto dagli ammiratori di questo tipo di sonorità ed i tre brani che fanno d'apertura al disco, "How Fast Can You Love", "Obnoxious" e "Moon Like a Pearl" sono uno splendido biglietto da visita per questa band tutta da riscoprire. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

martedì 14 dicembre 2021

Cepheide - Les Échappées

#PER CHI AMA: Depressive/Blackaze
I Cepheide sono una one-man-band che seguo sin dal primo demo, 'De Silence Et De Suie', peraltro recensito proprio su queste stesse pagine nei primi giorni del 2015, e a seguire abbiamo scritto anche degli altri album dell'act parigino. Ho sempre apprezzato lo stile depressive black del buon Gaetan Juif (qui alias Joseph Apsarah), il mastermind dietro a questo moniker, che abbiamo già avuto modo di incontrare anche con Baume e Scaphandre. Il musicista francese, dopo l'ultima uscita in compagnia dei Time Lurker, torna con il nuovo 'Les Échappées' e quel suo sound black multiforme, a tratti disperato (soprattutto a livello vocale) che in questo platter mostra a mio avviso una progressione sonora interessante. Il genere ovviamente rimane quello di sempre con scariche impazzite di carattere post black, lanciate a tutta velocità ma sempre contraddistinte da un'apprezzabile dose di melodia quasi si trattasse di una versione invasata dei Windir, con quello screaming sgraziato che tuttavia ha sempre il suo perchè, se inserito in un contesto musicale come questo. Preparatevi dunque ad assalti all'arma bianca come quello dell'opener "Le Sang" o della successiva e più atmosferica "L'oubli", che per lo meno mostra una serie di break onirici che interrompono quel tormentato maelstrom ritmico che spesso vede inglobarci mentalmente e dal quale si fa davvero tanta fatica ad uscirne intatti. Non so infatti se esista un segreto per non venire sgretolati dal vertiginoso sound di Mr. Gaetan, tante e tortuose sono le ritmiche dentro le quali il polistrumentista transalpino sembra volutamente farci perdere. È decisamente più esotico, direi mediterraneo, l'incipit di "L'ivresse" (dal quale è stato estratto anche uno psicotico video) che per un paio di minuti sembra addirittura cullarci in un più protetto flusso sonoro. Anche il proseguio del brano in realtà non è cosi schizofrenico come i primi due pezzi, e prosegue in modo più o meno normale per altri 90 secondi, prima che si apra un'altra voragine dove finire inevitabilmente inghiottiti dalle ritmiche lanciate a velocità doppie o triple della luce, spaventoso! Soprattutto perchè non ho la sensazione di venire schiacciato dai ritmi infernali dettati dall'ultratecnico strumentista, semmai mi sento parte della sua idea, un'idea che mi avvinghia, mi ingloba nelle sue strutturate e destrutturate armonie, dissonanze e melodie tra black, epic e blackgaze, come quello che mi ipnotizza nella celestiale e un po' "alcestiana" (ma anche doomish) "Les Larmes". Il disco mi piace: sebbene si tratti di un lavoro alquanto estremo, devo ammettere che il risultato conclusivo sia davvero ispirato, originale e accattivante e potrebbe addirittura piacere a chi a sonorità cosi estreme non si è mai avvicinato. Certo, non tutte le tracce sono sullo stesso livello, forse "Les Cris" è quella più criptica, che meno mi convince forse perchè la più caotica e che meno mi tocca i sensi. La chiusura è poi affidata a "La Nausée", il brano più lungo del lotto e quello che meglio riassume la poliedrica proposta musicale dell'artista francese tra passaggi oscuri, fraseggi black prog e vocals sperimentali che mi fanno pensare a grandi prospettive per il futuro dell'imprevedibile Joseph Apsarah. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 77
 

lunedì 19 luglio 2021

Amusement Parks on Fire - An Archaea

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative/Dream Rock
Ci hanno impiegato ben 10 anni a tornare sulle scene i britannici Amusement Parks on Fire, dopo il successo ottenuto con 'Road Eyes'. La band di Nottingham si era fatta notare da Geoff Barrow dei Portishead che ne aveva promosso il debut nel 2004. Poi il secondo disco l'anno successivo, il già citato 'Road Eyes' nel 2010 ed infine il lungo silenzio rotto prima dall'EP 'All the New Ends" nel 2018 e da 'An Archaea', il nuovo album. Un altro disco un po' border-line, diciamoci la verità, per quanto siamo abituati a pubblicare qui nel Pozzo, nonostante il medesimo venga etichettato come shoegaze, indie rock, ma forse l'etichetta più corretta sarebbe dream pop. Diciamo che per come si presenta l'opener "Old Salt", con quelle sue morbide chitarre e quei vocalizzi ancor più eterei, non è che mi abbia del tutto entusiasmato. Si certo, ci sono echi che riportano a Slowdive e My Bloody Valentine, le chitarre mostrano tratti di una certa rudezza, ma la voce di Michael Feerick non mi fa affatto impazzire. I nostri sembrano irrobustire la propria proposta con la successiva "No Fission", ma è solo una parvenza legata alle chitarre inizialmente più tirate, ma non appena la voce si palesa, si placa anche tutto il comparto ritmico, non offrendo mai uno spunto realmente vincente. "Diving Bell" è un intermezzo strumentale propedeutico a "Breakers", che si apre con una bella botta di batteria in stile Dredg ai tempi di 'Catch Without Arms', tema percussivo che si ripropone a più riprese in un brano sostellato da fraseggi post rock. "Aught Can Wait" esalta i vocalizzi onirici di Mr. Feerick e a quel punto mi convinco che i nostri si possano solo amare o odiare e se non si entra in sintonia con la voce del frontman, il rischio di odiarli si fa assai probabile. Tuttavia, rimango stupito qui da un comparto chitarristico fuori dagli schemi, disarmonico e imprevedibile che mi consente di guardare la band sotto una luce diversa e forse apprezzarli per quello che non ho sentito fino ad ora. Sembra quasi iniziare un nuovo disco per me da questo brano in poi che sembra scomodare anche un che dei Radiohead più sperimentali, in quella che comunque è per me la migliore canzone (forse anche la più chiassosa) del lotto. Un altro strumentale di raccordo all'insegna del noise pop, ed è tempo di "Boom Vang", la song da cui è stato estratto il video di promozione per il disco: bel riffing introduttivo, voce di Michael a prendersi la scena, e la sei corde a costruire psichedelici riff su tempi dispari, quasi a voler dimostrare che oltre al cuore ci sia anche una buona dose di tecnica in queste note. Certo, non tutte le tracce escono col buco e la malinconica "Atomised" alla fine rientra tra i punti deboli del disco. La band inglese prova a risollevare le sorti con la title track ma si tratta di un pezzo molto, ma molto pop, quasi un tributo ai Beatles, complice anche quel pianoforte di accompagnamento che in realtà non fa mai decollare il brano. Ultima traccia affidata alle note soffuse di "Blue Room" che chiude in modo un po' troppo scontato un disco che francamente mi sarei aspettato di ben altro spessore. Lo dicevo che gli Amusemet Parks on Fire si amano o si odiano, e mi sa che io rientro nella schiera dei secondi. (Francesco Scarci)

Voto: 63

Gli Amusement Parks On Fire (APOF) sono una vecchia conoscenza in ambito shoegaze e post rock. Prodotti per la prima volta nel 2005 da Geoff Barrow dei Portishead, sono attivi fin dal 2004 con una certa continuità fino al 2010, anno in cui la band inglese decide di prendersi una lunga pausa musicale. La band capitanata da Michael Feerick (voce e chitarre) ha forgiato la sua forza compositiva attingendo al sound di band come My Bloody Valentine, Swervedriver, The Boo Radleys ed ha continuato a farlo con ottimi sviluppi e risultati fino ai giorni nostri. Gli APOF sono da considerarsi un esempio di coerenza stilistica, poiché la loro formula, all'interno di un genere che oggi non è più in voga ed è considerato un culto per pochi estimatori dal mainstream, risulta ancora fresca e ispirata come ai fasti di un tempo. Il risveglio creativo del 2017 ha portato buoni frutti e probabilmente questo nuovo disco dal titolo 'An Archea' (titolo che dovrebbe aver a che fare con le molecole di energia in chimica) è forse il lavoro che racchiude il succo delle produzioni precedenti, ottime prestazioni soniche fatte di lisergiche distorsioni, solarizzate all'inverosimile, affascinante noise pop colorato, psichedelia e visioni rarefatte, un caleidoscopio di emozioni tenui, momenti di ipertensione e melodica, rumorosa allucinazione, combinate nella dovuta maniera ad un istinto post rock, e degnamente accompagnate, da un canto tenue dal chiaro sapore '90s, tra Ride, MBV e The Boo Radleys appunto. Le chitarre ammalianti rimangono in primo piano e se nei primi due brani d'apertura il ricordo cade implacabile sulla falsariga di Medicine, Swirlies e MBV, in "Diving Bell" le cose si arricchiscono di dettagli spostando il tiro su sonorità post rock/ambient più complesse e ricercate, verso territori luminosi che furono un tempo dei Sigur Ross, tra feedback e astratti sonori che indispettiscono e rendono teso anche il mood soffice di questo brano per accompagnare di seguito, l'ottima quarta traccia, "Breakers". Si prosegue con una veste pop e luminescente associata a degli assalti chitarristici rumorosi ed inaspettati per tagliare il candore splendente di "Aught Can Wait". Da sottolineare, con nota di merito, la cura e la ricerca sulle sonorità perfettamente in equilibrio dell'intero disco, promotrici attive del miglior sound possibile per questa band. "Gamma" è una fuga ambient sperimentale, con un velo sottile di "The Flamming Lips" al suo interno, di due minuti e mezzo che apre alla deflagrante "Boom Vang" (altro brano delizioso), che continua la proverbiale ascesa verso l'infinito degli APOF, divisa tra rumore, romanticismo e sospensione ipnotica, con una trama fatta per spiccare il volo verso i cieli più lontani. "Atomised" è un brano sospeso tra psichedelia e new wave con echi di certe trovate raffinate degli ultimi lavori dei The Church, mentre per la canzone che dona il titolo all'intero lavoro si aggiungono ritmi e coretti a più voci di stampo beatlesiano che distraggono un po' lo sguardo dalla distorsione lisergica tipica della allucinata aura compositiva della band di Nottingham. "Blue Room" conclude la carrellata di tracce dall'atmosfera morbida ed è forse assieme alla precedente, la più delicata del disco. Alla fine si rimane sorpresi dalla qualità musicale di quest'album, dal carisma dei suoi brani, dalla sua freschezza compositiva, dall'ipnotico splendore delle sue canzoni, un estratto di musica pop e psichedelia che non tutti apprezzeranno di questi tempi, ma che darà molte soddisfazioni ad ascoltatori appassionati ed attenti come il sottoscritto. (Bob Stoner)

giovedì 15 luglio 2021

Neumatic Parlo - Random Toaster

#PER CHI AMA: Indie Rock/Shoegaze, Radiohead
Già celebrati lo scorso anno dal buon Bob Stoner in occasione del loro debut 'All Purpose Slicer', tornano in sella i teutonici Neumatic Parlo con un EP nuovo di zecca, 'Random Toaster'. Cinque song per saggiare lo stato di forma dei nostri dopo questo anno e mezzo di follia pandemica. Devo ammettere che i cinque di Düsseldorf non se la passano affatto male, proponendo sempre quel concentrato di indie garage rock, che ammicca, sin dalle note dell'iniziale "Real Insight", ad un che dei Radiohead, qui rivisti in una versione più psichedelica ma pure punkeggiante, esplicato nelle note pulsanti di quel basso strappa applausi. Un po' come il battito del cuore, sorretto da un elettronico pacemaker, il sound del quintetto tedesco mi acchiappa che è un piacere, facendo fluire sotto la mia pelle piacevoli ed inebrianti sensazioni che arrivano a toccare l'apice in quella sorta di assolo conclusivo. Assai sperimentale invece "Nicolas Winding Refn", ma essendo un tributo all'omonimo e geniale regista danese divenuto famoso per il film 'Drive', era lecito aspettarselo. Andatevi a vedere il film e magari nel frattempo ascoltatevi un brano che, almeno nella prima metà, suona quasi surreale con quelle percussioni in primo piano, in compagnia della voce del bravo Vincent Göttler e un sottofondo noise al contempo sognante. Molto più orientata a velleità shoegaze/post punk, la terza "Lake Perris State Recreation Area", grazie a quella sua malinconica atmosfera su cui poggia la ritmica cadenzata dei nostri con la voce di Vincent qui in versione più straziante. Più classica e forse ancorata ai primi Radiohead, ma ancor prima ai The Smiths, la quarta "Ghost", francamente il pezzo che alla fine meno mi ha colpito, perchè privo di quella vena di originalità riscontrata nei precedenti brani. Tuttavia, nella seconda parte il brano si riprende ed è un crescendo emotivo alquanto affascinante. In chiusura, la lunghissima "Airplane", quasi dieci minuti di musica che aprono con le ambientali sonorità che strizzano nuovamente l'occhiolino a 'Kid A' dei Radiohead, per poi virare verso ipnotici giri di chitarra e litanici vocalizzi, e decollare infine in un crescendo chitarristico che ci porterà fino al termine di questo ottimo lavoro, secondo interessantissimo biglietto da visita di questi Neumatic Parlo. (Francesco Scarci)

venerdì 16 aprile 2021

Caelestra - Black Widow Nebula

#PER CHI AMA: Post Black/Melo Death
È un death black dal forte impatto emotivo quello della one-man-band britannica Caelestra che nel debut 'Black Widow Nebula' ci delizia con sette pezzi e poco più di mezz'ora di sonorità estasianti. La musica di Frank Harper, polistrumentista di Bristol, scivolano via che è un piacere a partire dalla stratosferica opening track "Solaris", che evidenzia tutte le qualità dell'artista inglese, che tra post black e oniriche parti atmosferiche, screaming e sofisticate clean vocals, mi dice che quello che ho fra le mani è uno degli album più interessanti dell'ultimo anno. Nella prima parte di "The Astral Sea" siamo nei paraggi di un prog metal delicato e soffuso, nella seconda più vicini alle sonorità cinematiche dei Fallujah, in un pezzo a dir poco celestiale. Ma l'apice a mio avviso lo tocchiamo in "Cassiopeia", cosi ricca di groove che permette al mastermind di oggi di scrollarsi definitivamente di dosso la scomoda etichetta black. "In Utero" è un intermezzo ambient noise che ci introduce ad "Everglow", dove ad aspettarci c'è un'altra intro vocale davvero spettacolare, ricca di malinconia e che evidenzia ancora le sorprendenti qualità vocali del frontman, con parole dapprima sussurrate alla musica che va via via crescendo in intensità senza mai realmente minacciare di sfociare in una vera baraonda sonora. Arriva ahimè troppo presto l'atto conclusivo di 'Black Widow Nebula' affidato a "Caelum", emozionante nel suo incipit atmosferico, più tormentato nella sua grinta black che si affianca a fantastiche melodie progressive di scuola Opeth, che chiudono in modo esaltante questo sorprendente lavoro dei Caelestra, band da ora in poi, da tenere assolutamente nei vostri radar. (Francesco Scarci)

martedì 30 marzo 2021

Bound - Haunts

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative, This Empty Flow
Gli statunitensi Bound aprono 'Haunts', loro opera seconda, con "The Bellows", in cui i tinnuli di cristallo cullano il bipolarismo dei suoi suoni. Un’esplosione di vetri che si adorna di lentezza in uno shoegaze dalle tinte alternative. Un arcobaleno prismatico che toglie il fiato al corpo della song per trovare insistentemente il suo tesoro prima, durante e dopo la sua corsa cinematica. Qui conta la scoperta. Una sonorità accesa che ritroveremo anche nella terza ondivaga "The Divide". Il suono che spazia tra paradiso e inferno. Con "The Ward" invece spezzettiamo il tempo in coriandoli sonori. Una polvere che muove l’aria prima di essere aria stessa. Una carezza, malinconica. Con "The Field of Stones" restituisco il passato in questo presente soffuso. Laconiche le sonorità. Ispirati i passi tra le rocce ed il climax ascendente della musica che imprigiona, sposta, asseconda, rapisce con le sue ipnotiche note di synth. Un viaggio da fare e fare ancora. Se non avete mai fatto un passo nel bosco stregato, se non siete stati mai temerari nella casa maledetta, beh venite con me, il tutto potrebbe suonarvi inquietante quasi quanto il video della successiva "The Last Time We Were All Together". "The Lot" suona come il giusto preludio incantato, spezzato dalla circostanza della chitarra, ammantato dall'eterea voce del vocalist ed ancora forte dell’energia che la band manda in etere. Andiamo avanti, abbracciando l’intensità soffusa che spazza l’estetica in “The Small Things Forgotten”. Il brano apre leggero carezzevole con un arpeggio di chitarra, che presto si trasforma in una nuvola di suoni scomposti, irrequieti, carnali, alla fine quasi infernali. Una bolla in cui il pensiero lento e la rabbia veloce possono scambiarsi pensieri, dinamiche, musica, chitarre benedette e maledette. Non abbiamo ancora toccato il fondo perchè vanno on air gli sperimentalismi dream pop di “The Lines”. Il fondo è superficie perché con la musica le prospettive sono aberrazione. Tuttavia, con la musica i cori ci portano a volare. Ma è forse la traccia che vola o siamo noi a volare? Sentite il brano che spezza con un suono metallico ritmato in 2/4. Sentite le anime che urlano a vanno su ad ascendere. Ascoltare e basta. Mi spacca questa song e mi ricompone le fiaccole dell’anima. L’epilogo di 'Haunts' si racconta con la conclusiva "The Known Elsewhere" ed un sound ripetuto, voce facile per uno shoegaze dalle venature post rock. Un graffio che evoca le melodie dei finlandesi This Empty Flow. Avrei forse preferito un epilogo psichedelico quanto l’esordio, ma l’album si congeda con un volto già visto, una sagoma nell’ombra, un disco che ci dice che andare d’istinto è molto più pregiato che farsi trasportare. (Silvia Comencini)

(Jetsam-Flotsam/Diehard Skeleton Records - 2020)
Voto: 70

https://boundlives.bandcamp.com/album/haunts

venerdì 12 marzo 2021

Bear of Bombay - Something Stranger

#PER CHI AMA: Electro Rock
Bear of Bombay è il progetto solista nato dalla fervida mente del milanese Lorenzo Parisini, attivo dagli ormai lontanissimi anni '90. Il 5 febbraio di quest'anno, Bear of Bombay ha pubblicato il suo primo EP che lui stesso ha definito un viaggio in stile "psychodreamelectropop" attraverso le sonorità '80-90s. L'album, 'Something Stranger', disponibile su CD e in digitale, racchiude cinque tracce caratterizzate da una miscela di chitarre cariche di riverbero e delay, synth che tanto piacerebbero ai Perturbator e ritmiche semplici quanto incisive, come richiede il genere New wave. "Night tree" è l'opening track e primo singolo con relativo video pubblicato in anteprima a Novembre dello scorso anno. La traccia parte subito senza tanti orpelli e la pulizia delle linee melodiche di basso e di chitarra incorniciano molto bene la voce di Lorenzo, profonda il giusto e dalla più che buona pronuncia inglese. Il mood è volutamente svogliato, leggermente malinconico con delle semplici progressioni che fanno apprezzare una struttura musicale collaudata. Ad un certo punto ci si aspetta un'esplosione che non arriva e lascia l'ascoltatore in uno stato emotivo incerto e desideroso di continuare l'ascolto. "Lazy Day" entra adagio con i suoi 80 bpm e una struttura fatta di basso, organo hammond che omaggia gli anni '70 e il cantato che ricorda tanto le atmosfere di "Play" di Moby. Un brano chill out che chiama il sorseggiare di un buon cocktail dopo lavoro, magari accompagnato da una fumata che purtroppo rimane ancora illegale in certi paesi. L'EP chiude con la title track, dove la batteria sintetica ci catapulta nei primi anni '80 all'interno di un tubo catodico in cui ci muoviamo roboticamente avvolti dalle sonorità eteree dei synth. Un vortice lento ci fa viaggiare nello spazio, in un lungo break che continua a rotearci attorno anche quando la strofa con il cantato, riprende in maniera incalzante. Un bell'EP, sincero, semplice, e allo stesso tempo curato nei minimi dettagli che vi renderà nostalgici se solo avete più di trent'anni. Oppure vi avvicinerà a sonorità che i vostri genitori ascoltavano su casseta nell'intimità della loro cameretta o forse in qualche club sotterraneo e fumoso di cui vi hanno sempre tenuto all'oscuro. (Michele Montanari)

lunedì 8 marzo 2021

Volvopenta - Simulacrum

#PER CHI AMA: Experimental/Post Rock/Noise
Quest'album parte con un sound soft, un post rock ambientale così carezzevole da rendere la pelle vulnerabile e le sensazioni sublimi per ognuno dei sensi. Quando s'inserisce la batteria poi, sento solo i piatti metallici che toccano l’inconscio, ed il cantato si mescola ai ripetuti di corde pizzicate. È la magia, la malia di "Kargus", la traccia d'apertura di questo 'Simulacrum', opera seconda dei teutonici Volvopenta. La premessa mi porta in etere a sognare. Mando on air "Tele 81". Sorprendente. Una seducente base ritmica evoca gli anni trenta. Un respiro affannoso in musica, lento. Momenti di voce che gridano la rivalsa alternati a loop sonori ipnotici. La batteria con il suo ferro fa sempre da subliminale. Lo stile è unico, assai originale. Sospende, lasciando i sensi xerostomici con la sete a volerne ancora. Quando parte la siderale "Barfly", le luci soffuse si spengono definitivamente. Scrivo nel buio, lasciando all’udito l’assoluto dei sensi. Molto, molto intenso il corpo di questa song, talmente intenso da materializzarsi. Qui la musica, un robusto post rock, diviene carne, sangue ed il buio si fa vista altrove. Provate l’esperienza. Scorre la musica come un fiume che leviga il proprio letto. Una cura. Un vello. Una sensazione che si rinnoverà anche in "Interlude 1". Un sorso di "Ghost" ed avrete nell'etere uno sperimentale retroattivo rivisitato di punk, rock, shoegaze e dark, il tutto servito in un solo calice. Ubriachiamoci insieme. Il secondo momento panoramico lo troviamo in "Interlude 2". Altra cura, altro rimedio per l’anima. Enantiomero dell’1. Complementare all’1. Graffia invece, vibra "One to Five". Imprevista. Futurista. Al contempo retro style con i suoi suoni elettrificati, ma nostalgici come un chiacchiericcio di foglie che vorticano nel vento lentamente. Un moto in musica circolare a tratti ellittico. Ora la nostalgia è la mia, per essere giunta all’ultima traccia, la strumentale "Flint". L’ascolto, la sigillo con un'iperbole ascendente in un ossimoro di musica dalle venature sanguigne, delicate, molto ben interpretate ed estremamente malinconiche. L’ascolto è per anime senza pace. La troverete. La musica è per musicisti senza stile. Vi ispirerete. La dolcezza è per chi come me si sente cullata tra le parole e la musica pregiata dei Volvopenta. (Silvia Comencini)

(Tonzonen Records - 2021)
Voto: 84

https://volvopenta.bandcamp.com/album/simulacrum

giovedì 25 febbraio 2021

Seasurfer - Zombies

#PER CHI AMA: Dream Pop/DarkWave
“SOS” non è una mia richiesta d'aiuto ma l’incipit di 'Zombies', atto terzo del progetto tedesco Seasurfer, che racconta l’urgenza scomposta tra ruggente post punk e darkwave, tra rabbia e pensieri, tra graffio e cura. L'opener dell'ensemble di Amburgo, ribalta il senso comune perchè il graffio diventa la cura e la cura sublima. Si sposta la torcia dalle rocce acuminate di un sound electro noise invadente, a quell’acqua che racconta che una grotta non è stagna. Parte un vibrato, un ritmo synth pop di anni passati (gli indimenticabili ottanta) ed una danza metallica che stride sul ferro dell’ascolto da fare scintille più di una saldatrice. È lei la voce calda e pulsante di "Too Wild". Avanziamo a quadrato come in battaglia, quando parte "Zombies". Siete pronti per una via tortuosa, contorta e adamantina? Una voce d’angelo che custodisce l’inferno. Un sollievo apparente che vi farà viaggiare tra gironi danteschi e paradiso. Il lavoro partorito da Dirk Knight è una strada lunghissima, articolata, introspettiva. Mi perdonerete se lascio in etere alcune tracce, ma prima debbo sostare in "Tears & Happiness", leggera come un filo invisibile che lega i sensi ai polsi, volubile come la golosità per chi ha fame. Veniamo a "Chemical Reaction". Balliamo con la mente ammaliata dalla voluttà della voce sensuale di Apolonia che fino alla traccia 16 si dividerà il ruolo con Mr Knight, per poi lasciare il posto a Elena Alice Fossi dei nostrani Kirlian Camera, per le rimanenti otto del secondo cd, 'The Dreampop Days'. Se volete mandare on air un ambient spinto, la breve “Devils Walk” farà per voi. In apparenza luci impazzite di un rave di emozioni. In verità un limbo, un purgatorio che lavora per un orgasmo paradisiaco in musica. Batte la bacchetta sull’altra bacchetta del batterista. Battono i bassi. Percuote lo stile di questa band. E mentre mi faccio strada nel silenzio dell’attesa, mando su come uno shuttle "Pretend". Questa traccia vi farà vorticare nell’iperspazio. Vi tatuerà l’ascolto nei timpani, lasciandovi sospesi per un po’ tra la Terra e Marte. Vita e guerra. L’ascolto continua elettrizzando le mie sensazioni quando parte la strumentale "Heaven". Ci ammortizzo la giornata. Ci faccio un giro dentro. E quando esco, mi accordo di aver vissuto un momento catartico che ha spezzato la mia quotidianità e composto l’ispirazione con la sua eterea synth wave. Non perdete la strada che vi porta in questo regno di Oz. La strada è lunghissima. E siamo solo alla traccia 15 di 24. "Dead in the Garden". Ripenso ascoltando ai Depeche Mode, ma anche alle più recenti performance degli Ulver. Quella contrattura di musica lontana che si allenta in un eco blu scuro. Il brano parte anni '90 per continuare ridondante senza forma e sostanza. Se volete un loop, questo vi piacerà. Ancora, ancora senza tregua, i Seasurfer ci fanno cambiare scenario. “Blue Days”. Cambia l'interprete vocale, non cambia il risultato. Dovrei essere descrittiva ma qui sono rapita da questa voce femminile. Dolce, malinconica, sensualissima. Me la godo e basta. Sappiamo che per ogni piacere, il karma ci manda indietro un dolore. Il mio karma è veloce e sintetico. Quando "Killing Tears of Joy" va on air, mi spezza l’anima. Mi fa sanguinare il cuore con la sua toccante malinconia. Mi porta ad un sentire senza barriere. Complimenti alla band per saper come scoprire le ferite e curarle al contempo. Leggera, delicata, anzi direi vellutata, è invece "Shine". Un balsamo di oscuro dream pop che ci prepara a "Fairies in Twilight". Il balsamo diventa mani sulla schiena, un intercalare fisico attraverso la musica che passa dalla mente al coccige. Un vello di suoni sintetici, quasi impossibile da descrivere, come solo la musica può fare. Sappiamo che ogni gioco vale la candela. Quest'album inizialmente mi sembrava una vetta invalicabile con le sue 24 song. Ora arrivata quasi alla vetta, voglio chiudere la mia personale scalata con "Fear in the Woods" (mancherebbero infatti ancora due brani a rapporto). Ma questo per me sarebbe un degno epilogo. Ad ogni fuoco corrisponde un ghiacciaio. Alla pace la paura. Quest'album mi ha fatto vivere battiti e morte apparente. L’azzardo e la bellezza. Molto, molto bene i Seasurfer. È infatti cosi che mi piace viaggiare al limite delle emozioni. (Silvia Comencini)

Swans - The Burning World

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Shoegaze/Darkwave
Una manciata di esangui lamento-tristerie dark-pop squisitamente anni '80 ("Well, I awoke this morning in the blackest night / and a million stars were aching in the sullen sky" cantato in "The River That Runs With Love Won't Run Dry", epperdincibacco) intrise di un generico pessimismo licantropico ("God Damn the Sun"), rattristanti violini ("Let It Come Down", per esempio, ma in verità ovunque nell'album) e svenevoli orchestrazioni (ancora "God Damn the Sun"), collocabili tra i Fields of the Nephilim con l'insonnia ("Jane Mary, Cry One Tear"), i The Jesus & Mary Chain con la camicia fuori dai pantaloni ("Saved") e un Nick Cave che assiste alla replica televisiva della finale di Telemike (tutto il resto del disco). Ascoltate questo (ormai introvabile) album stimolati dalla curiosità di sentire Michael Gira, stiamo parlando di "quel" Michael Gira, tristoallegramente lalleggiare canzonette pop-dark alla Bob Geldof pre-irish-era con tanto di vocione new-romantico alla Colin Vearncombe (giusto per dirne uno davvero sfigato, pace all'animaccia sua). Quello stesso M-G che successivamente si vergognerà di questo disco più o meno quanto Lenny Kravitz della foto con Clemente Mastella, al punto da disconoscerlo e affibbiarne interamente le colpe al produttore Bill Laswell, stimato jazzista e, appunto, produttore. La verità, però, sta altrove. Per esempio nella ahimè prodromica cover di "Love Will Tear Us Apart", pubblicata pochi mesi addietro e per niente prodotta da Laswell. Tecnicamente, si chiama sindrome post-traumatica da tasche piene. (Alberto Calorosi)

(Uni Records - 1989)
Voto: 60

https://www.facebook.com/SwansOfficial

domenica 21 febbraio 2021

BleakHeart - Dream Griever

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, The Third and the Mortal
Quando ho ascoltato la prima volta i BleakHeart ho pensato ad una versione americana dei The Third and the Mortal. Fate partire "Ash Bearer", opening track di questo 'Dream Griever', e capirete esattamente a cosa stia alludendo. Certo, non ci saranno le liriche in norvegese di Kari Rueslåtten che popolavano 'Tears Laid in Earth', opera prima dei norvegesi, però il modo di cantare di Kelly Schilling (peraltro voce anche dei Dreadnought) è a metà strada tra la cantante scandinava e l'altrettanto brava Anneke van Giersbergen, anche se negli acuti la voce si perde un po'. A parte queste sottigliezze, va sottolineato come la proposta musicale del quartetto di Denver nella sua raffinatezza, si muova in bilico tra doom, shoegaze e darkwave e lo faccia sfoderando un'ottima prova collettiva. Non solo la voce della frontwoman in primo piano dunque, ma la capacità di un gruppo di musicisti di creare musica in grado di toccare le corde dell'anima, nonostante un suono non cosi facile da assimilare, complice anche la presenza in formazione di due chitarre a discapito del basso. E anche in questo la band si conferma originale. Dopo gli oltre otto minuti dell'opener, arrivano i quasi otto della seconda "Heed the Haunt", un brano che mette in mostra altre influenze dei nostri, dallo shoegaze al gothic, non rinunciando comunque a livello ritmico alla robustezza delle sei corde, stemperate dalla soave prova di Kelly al microfono. Da manuale comunque le melodie che escono dagli strumenti di questi musicisti, capaci di proporre atmosfere costantemente decadenti senza rinunciare ad una forte componente emozionale. La stessa che si scorge nella tribalità minimalista di "The Visitor", che nuovamente evoca forti rimandi ai The Third and the Mortal degli esordi. L'atmosfera creata dal drumming è cupissima, sferzata dalla sola sofferente voce della cantante. Le chitarre entrano in scena infatti solo dopo oltre quattro minuti contribuendo comunque a rinforzare quella plumbea ambientazione che proseguirà sulla medesima linea di monolitica angoscia fino alla fine di tutti gli otto minuti di durata. "The Dead Moon" prosegue sullo stesso binario stilistico, proponendo un sound sicuramente meno claustrofobico rispetto al pezzo precedente, ma sicuramente più statico rispetto ai primi due brani del disco che tanto mi avevano impressionato positivamente. Il sound dei BlackHeart resta comunque positivo, ma forse più prevedibile per quanto la performance di Kelly a questo punto innalzi la prova collettiva. La chiusura di 'Dream Griever' è affidata proprio alla title track e ad un inizio che evoca "Atupoéma", ancora estratto di quel mitico 'Tears Laid in Earth' citato a inizio recensione. Le atmosfere si confermano pesantissime, ma fortunatamente, trovano il modo di rimodellarsi nel corso del brano, con cambi di tempo che si erano un po' persi invece nella parte centrale del lavoro. Il brano regala comunque sprazzi di classe con una parte intermedia più eterea, di scuola ultimi The Gathering, con l'aggiunta di un pizzico di jazz che aumenta le vibrazioni rilasciate da tale release. 'Dream Griever' è alla fine un buon lavoro con le sue luci, qualche ombra da smussare per cercare di rendere più dinamico un sound che rischia talvolta di incepparsi sul più bello. Le potenzialità sono altissime, punterei sull'aggiunta di un bassista e sulla riduzione di quelle ritmiche pesantissime che alla lunga rischiano di soffocare l'ascolto già di per sè impegnativo di un lavoro da ascoltare e riascoltare nei momenti più bui. (Francesco Scarci)

Voyage in Solitude - Through the Mist with Courage and Sorrow

#PER CHI AMA: Depressive Black, Deafheaven
I Voyage in Solitude sono l'ennesima dimostrazione che il metal non ha confini e si possa suonare a tutte le latitudini e longitudini. Si perchè la one-man-band di oggi è originaria dei Nuovi Territori di Hong Kong e il polistrumentista che si cela dietro al monicker, Derrick Lin, ci propone un black che oscilla tra l'atmosferico e il depressive. Le atmosfere si gustano proprio all'inizio di questo 'Through the Mist with Courage and Sorrow', primo full length della band dopo tre EP e materiale vario, con la lunga apertura strumentale affidata alle magiche melodie di "Veil of Mist". Con la lunga "Dark Mist" la proposta del mastermind hongkonghese inizia a prendere più forma, delineandosi appunto come un depressive black, dalle tinte fosche e cupe, al pari dello screaming del vocalist. La prima parte del pezzo viaggia su coordinate stilistiche davvero atmosferiche, con una linea di chitarra evocativa in quel suo tremolo picking che potrebbe quasi fuorviarci e farci propendere ad un post rock. Il finale vede l'appesantirsi della sezione ritmica senza tuttavia mai trascendere in fatto di velocità, fatto salvo per la furia post-black affidata all'ultimo minuto e mezzo del brano. "Incoming Transmission" ha un preambolo nuovamente ambient, in cui una chitarra acustica s'intreccia con suoni di synth. Ma è solo una sorta di intro ad un pezzo più andante, nel quale l'artista esprime attraverso la malinconia della linea melodica e delle sue harsh vocals, la solitudine, l'impotenza e la frustazione della gente della città in cui vive, dopo un biennio davvero complicato per Hong Kong. E questo dissapore per la società emerge forte e sconsolato dalle note del brano, in cui il musicista ha modo di combinare al black eterei suoni post rock in lunghe fughe strumentali. I pezzi si susseguono, viaggiando peraltro su durate abbastanza consistenti: "Reign", nel suo torbido incedere, sfiora i nove minuti e lo fa combinando chitarre tremolanti con un drumming al limite del post-black, mentre la voce di Derrick, forse troppo nelle retrovie tipico delle produzioni molto underground, distoglie l'attenzione da quelle melodie che inneggiano qui più che altrove ai Deafheaven. Il risultato è davvero buono, forse una produzione più pulita avrebbe giovato ulteriormente, ma siamo agli inizi, quindi mi aspetto grandi cose in futuro da Mr. Lin. Ancora un intro acustico con la dolce (si avete letto bene) "Memories", un pezzo strumentale che potrebbe fare da ponte tra la prima parte e la seconda del cd, in cui lasciar vagare la vostra mente mentre guardate la cover dell'album. Qui è ancora la componente post-rock a dominare, sebbene il drumming nella seconda metà si faccia più convulso e alla fine dirompente. "Despair" prosegue sulla medesima linea tracciata dalle precendenti song: inizio timido, acustico e poi con l'ingresso dello screaming di Derrick, ecco che le chitarre si fanno più "burzumiane". Ma attenzione, perchè questo pezzo riserva una novità proprio a livello vocale con l'utilizzo del pulito in una sorta di coro, a mostrare le enormi potenzialità a disposizione della band asiatica. L'emozionalità che trasuda 'Through the Mist with Courage and Sorrow' va comunque sottolineata come vero punto di forza dell'album che si chiude con "In Between", un pezzo ove è lo shoegaze a dettare legge tra chiaroscuri di chitarra, magnifiche e sognanti melodie, un cupo pessimismo cosmico ed una gran dose di malinconia che mi fanno enormemente apprezzare la sublime proposta dei Voyage in Solitude. Bene cosi! (Francesco Scarci)

(Self - 2020)
Voto: 77 

mercoledì 17 febbraio 2021

Cornea - Apart

#PER CHI AMA: Post Rock, God is an Astronaut
Questa mattina è arrivato il corriere, mi ha consegnato 'Apart', album di debutto dei patavini Cornea. Non potevo fare altro che mettere il vinile sul mio giradischi e assaporare le note strumentali di questo nuovo terzetto italico, che vede tra le sue fila Sebastiano Pozzobon che apprezzai come bassista dei Dotzauer, Nicola Mel, (ex?) voce e chitarra degli Owl of Minerva (un'altra band che abbiamo ospitato qui nel Pozzo) e a completare il trio, Andrea Greggio alla batteria. La proposta dei tre musicisti viaggia su lidi alquanto differenti dalle loro precedenti band, trattandosi infatti di un post-rock dalla forte vena shoegaze. Ad aprire le danze "Daydreamer", un brano che definisce immediatamente le coordinate stilistiche su cui correranno i nostri, con un inizio alquanto oscuro ed intimista. Da qui le note si fanno più eteree, con la chitarra che s'incunea in territori dapprima morbidi, per poi esibirsi in un riffing più corposo e sognante, a cavallo tra post rock e post metal, quest'ultimo retaggio sonoro sicuramente ascrivibile a Sebastiano. I suoni sono suggestivi, per quanto manchi una voce a bilanciare la cascata sonica in cui ci siamo immersi, ma ne vale la pena, non temete. Con "Kingdom", nonostante un poderoso avvio, ci si imbatte in suoni più psichelidici che hanno la grande capacità di mutare in brevissimo tempo, prima ancora in un robusto post metal, e a seguire, in una serie di cambi di tempo e di ritmo dal potere avvolgente, peccato solo l'assenza di una presenza vocale a guidarci nell'ascolto, lo so, sono ripetitivo alla morte. Con "Will Your Heart Grow Fonder?" i suoni si fanno ancor più profondi a generare quasi un moto emotivo nella nostra anima, sebbene le sferzate ritmiche cerchino di rinvigorire la proposta della compagine veneta. Un break acustico rompe gli schemi, con basso e chitarra a sonnecchiare timidamente, dandoci il tempo di una pausa ristoratrice. Poi è la melodia della sei corse a prenderci per mano e condurci nella parte più intrigante e atmosferica del disco, con il basso in sottofondo a generare tocchi di un magnetismo impressionante. Qui la componente malinconica si fa più vibrante dando quel quid addizionale al brano forse meglio riuscito di 'Apart'. Tuttavia, siamo solo a metà strada del nostro cammino, visto che mancano ancora i tocchi delicati della suadente e crepuscolare "Saltwater", una piccola gemma che ha forse il solo difetto di risultare troppo circolare nel suo incedere. Essendo la traccia più lunga del disco, rischia quindi di essere quella che stanca prima, ma i nostri provano a cambiare registro con riverberi luminescenti, puranche con roboanti riff che vanno a rompere quella delicatezza iniziale. "Sentinels of a Northern Sky" parte ancora con fare gentile con la chitarra a prendersi la scena nel suo affrescare melodie raffinate, mentre il basso in sottofondo sembra richiamare (non chiedetemi il motivo, è solo una sensazione quella che provo) echi dei vecchi The Cure. Il brano cresce progressivamente con la chitarra a lanciarsi in fughe in tremolo picking, mentre il drumming detta il ritmo in modo preciso e bilanciato. A chiudere l'album ci pensa "Diver" che con i suoi astrali bagliori onirici ci accompagnerà fino alla conclusione del disco donandoci l'ultime note di un post rock che paga forse qualche tributo a mostri sacri del calibro di Mogway, Explosions in the Sky, i più lisergici Exxasens e i più robusti Russian Circles, ma che comunque mette in mostra le qualità di una band che deve solo non aver paura di osare un pochino di più. (Francesco Scarci)

(Jetlow Recordings - 2020)
Voto: 74

https://cornea.bandcamp.com/album/apart