Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Shaytan Productions. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Shaytan Productions. Mostra tutti i post

lunedì 28 gennaio 2013

Al Namrood - Kitab Al Awthan

#PER CHI AMA: Black/Pagan/Folk, Dornenreich, Orphaned Land, Melechesh,
La cosa che più affascina del black metal è la sua forza rigenerativa e la sua continua espansione in territori sempre più inaspettati. Da un genere musicale nato con regole rigide, all'apparenza insormontabili e collocazione geografica scontata, si è giunti nel 2012 all'uscita di un album che almeno per il paese di provenienza, espande i confini di questi suoni in una inusuale e atipica locazione, l'Arabia Saudita. Immaginate cosa significhi essere una band metal, il cui nome tradotto significa “i non credenti” in un paese dalle soffocanti restrizioni sociali e religiose, dove le donne nemmeno possono guidare e dove non esiste legge scritta ma solo una sorta di teocrazia tramandata a voce, dove non si può suonare il metal e si deve tener nascosta la propria identità per pubblicare album all'estero rischiando pene severissime. Il black pagan folk metal ha sconfinato fino al deserto e ha dato vita ad una stupenda creatura di nome Al Namrood che parla degli antichi abitanti d'Arabia, i Babilonesi, che probabilmente come nei testi dei loro brani affermano, erano più liberi di agire e pensare di adesso. I nostri propongono un sound potente vicino al suono dei Grave con tante ritmiche tribali e mid tempo, con un ottimo screaming sulfureo, perfido e narrante, ricordano per concetto d'avanguardia i primissimi Die Apokalyptischen Reiter e possiamo guardare in termini folk al variopinto mondo oscuro di Dornenreich integrando ritmi e suoni folklorici della loro terra, come usano fare gli Orphaned Land. Si presentano ben calibrati e sobri, ben assemblati, ricercati, ipnotici, pieni di pathos e strutture musicali ben architettate. Proprio sulle strutture ritmiche è doveroso soffermarci e spiegare che questa band non si limita ad unire i due generi (folk e metal) ma li fonde a tal punto che si possono sentire chitarre violentissime e distortissime tessere melodie e sinfonie che sembrano uscire dalla colonna sonora del leggendario film “Lawrence d'Arabia” e percussioni tipiche del deserto ripiegare su forme tribal/industrial/sinfoniche, come potrebbero fare solo gli Skinny Puppy in vacanza tra le dune. Un sound moderno , equilibratissimo e d'impatto, un retrogusto world music e una devastante rabbia nera. Anche se comprensibilmente non tutti ameranno questo infuso di suoni medio orientali e metallo nero, bisogna ammettere che dalla sabbia di questo deserto geografico e sociale è nato un capolavoro, una sorta di rosa del deserto di grande splendore. Da amare o da odiare, sicuramente da ascoltare e scoprire. (Bob Stoner)

(Shaytan Productions)
Voto: 80

https://www.facebook.com/alnamroodofficial

mercoledì 23 gennaio 2013

Kalki Avatara - Mantra for the End of Times

#PER CHI AMA: Sonorità esoteriche
Chiudete gli occhi e meditate. Concentratevi sullo scorrere del tempo visualizzandolo come note sul pentagramma. Ascoltatele o meglio abbandonatevi al loro lascivo abbraccio. Sentitevi avvinghiare dalla loro densa, impudica nebbia. Vi avvolge. Vi stringe. Vi penetra. Vi possiede. Aggrappatevi a questa fonte di inesauribile piacere e fatelo vostro. Viaggiate. Viaggiate molto, molto lontano. Tanto, tanto tempo fa. Indietro. Indietro. Indietro nel tempo. Sarò la vostra mefistofelica guida in un’epoca più che remota, prima della comparsa del vecchio saggio Vyāsa. Un’epoca dove le persone comuni ancora ricordano i Veda a memoria, al primo ascolto, afferrandone nell’immediato le profonde implicazioni. Nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale) durata della vita e memoria si sono assopite, vengono meno, gli individui sono spiritualmente meno acuti. Ecco che allora Vyāsa discese nel mondo, mise i Veda in forma scritta, li divise in quattro parti e compose tutti i 18 Purana, uno in particolare: il Bhagavata Purana. 25 sono i maha avatara che lo compongono. Kalki è sempre l'ultimo di questi in ordine cronologico: la tradizione lo descrive nelle sembianze di un valoroso condottiero dalla fiammeggiante spada in pugno, a cavallo di un bianco destriero. Sradicherà il male dal mondo, si dice. Rinnoverà la Creazione stabilendo un regno dei giusti, si narra. I lettori più accorti avranno certo colto questo mio tentativo d’iniziazione ai magici misteri dell’induismo. Religione poco nota, da noi, se vogliamo, e proprio per questo molto affascinante. Ma questo è solo un mio personale punto di vista, non condivisibile se vi pare. Fatto sta che queste rocce millenarie rappresentano il fulcrum, vero e proprio concept di questo EP “Mantra for the End of Times” rilasciato in sole mille copie da Kalki Avatara: tricolore progetto solista autoprodotto da Paolo Pieri "Hell-I0-Kabbalus" nel 2008 (già attivo in band quali Aborym e Malfeitor, per chi non lo conoscesse) e rilasciato poi dall’etichetta canadese Shaytan Productions nel 2009 in sole mille copie. Ma procediamo con ordine nell’eviscerare questa tetraedrica liturgia dai sapori orientali decisamente evocativa. Mi calo in una sorta di sopor aeternus cullato come un fanciullo dai primi atmosferici suoni di “Mankind Collapses”. Poche, ma ben concepite note di tastiera s’amalgamano armoniosamente ad un ritmo molto lento di batteria. Molte, e lunghe, le pause. S’intersecano a quest’arcano disegno, voci corali che mi accendono circuiti neurali del tutto inesplorati. Le scintille si fanno poco a poco fiamma che prima tentenna al vento per poi sfociare in fuoco con l’avvento della voce. Uno screaming cavernoso, da rigurgito (senza offese, è un complimento) ben dosato, senza eccessi dunque, che si contrappone alle pulite, alte voci corali. Segue un intermezzo strumentale costruito su una magnifica fuga di tastiera, coadiuvata dalla batteria, che qui si concede una breve galoppata. Il pezzo torna a rallentare e viene reintrodotto il tema principale che conduce alla fine del pezzo. Campane tubulari, percussioni e non ben definiti strumenti etnici introducono “Ruins of Kali-Yuga”. L’introduzione sfocia però poi in un tema che ricorda tutti i sapori della precedente traccia. Unica novità, a mio avviso, è la presenza di un intermezzo jazz che prende il posto di quello che prima era il posto della fuga di tastiera. Segue “Purification”: la sorpresa qui sta nel fatto che è cantata in tedesco, una lingua dura che sposa molti, anche se non tutti (power e progressive ad esempio), i generi di metallo. Caratteristica degna di nota di questo pezzo è, per me, la tastiera. Qui ricorda un carillon e mette brio alla composizione melodica di base. La fine dei tempi viene scandita dall’ultima delle quattro track, l’outro “Awaiting the Golden Age”: ancora una volta odo i cori ma qui diventano salmodici, oserei dire omelici. Sono accompagnati da quello che azzarderei essere un sitar. L’urlo finale mi catapulta senza preavviso al presente: fatto di tasse, crisi ed imminenti elezioni. Non c’era quindi titolo più azzeccato di questo per fare ironia: bisognerà purtroppo aspettare davvero molto per entrare nell’età dell’oro, anche se le pepite che da sempre preferisco sono quelle di metallo pesante. (Rudi Remelli)

(Shaytan Productions)
Voto: 80

http://www.shaytanproductions.com/

martedì 11 dicembre 2012

The Horn - Volume Ten

#PER CHI AMA: Black/Industrial
The Horn's A D MacHine è la mente che si cela dietro questo ambizioso progetto, la classica one man band, che ancora volta giunge dall’Australia; non stiamo certo parlando di un tizio di “primo pelo”, che la mattina si è svegliato e ha pensato di mettere in musica le sue deliranti visioni sull’antico Egitto. The Horn infatti giunge con questa release al traguardo dell’undicesimo lavoro (deve essersi un po’ incasinato, avendo fatto uscire nel 2011 il “Vol. 11” e nel 2012 il “Vol.10”). Lo Stargate si apre e io vengo proiettato, come nell’omonimo film, su un altro pianeta, altamente civilizzato, ma dove il popolo adora ancora le divinità nelle piramidi, intese qui come luogo di culto, distribuite su tutto il globo. I suoni che sento sono strani, ovviamente di origine aliena e a cui il mio orecchio non è decisamente abituato, anche se tra le linee delle feroci ritmiche extraterrestri, si insinuano melodie che sembrano derivare dalla antica tradizione araba, tanto da indurre il nostro eroe a definire il proprio sound come “Pure Ancient Occult Egyptian Space Metal”. “Spell 124” è una traccia di black industriale, ipnotica e malata, che si inocula nel mio sangue in modo pericoloso, con il vocalist che sembra aver assunto le sembianze vocali di un Predator. Una danza tribale esordisce in “Spell 47”, poi solo delirio sonoro, con suoni che non avevo mai udito sul mio pianeta, ma magari in questo nuovo mondo che sto esplorando, ne rappresentano la consuetudine. Il black noise che qui si scatena, ha un effetto intimorente. Un coro ritualistico alieno domina “Spell 146”; sinceramente non riesco a decodificare la nuova lingua antica, ma il ritmo ha un che di esoterico. Con “Spell 26” ci addentriamo in territori ambient/drone mentre con la successiva magia, torniamo ad esplorare nuove terre, nuovi paesi, che assumono sempre di più i connotati medio orientali, per suoni, colori e profumi; e ancora una volta ho la sensazione di essermi perso in un qualche suk di una qualsiasi città araba e ne approfitto per assaporarne ogni sfaccettatura. Ma una nuova tempesta magnetica è già pronta a scatenarsi sopra la mia testa, con un fragore ed una violenza inaudite, accompagnate da belluine vocals inumane. Sono terrorizzato e scappo, passando attraverso il Portale, pronto a chiudersi, per poter finalmente ritornare sul mio amato pianeta. Ma quando passo al di là di esso, mi ritrovo catapultato nel passato, con un sound che sembra un mix tra rock’n roll, black metal e funeral doom. Sono confuso, non capisco dove sia finito e se riuscirò a far mai ritorno a casa. Nel frattempo mi lascio conquistare dalla mitologia, dalla storia e dalle forze occulte che guidano quest’opera, e dal desiderio del factotum The Horn, di mettere in musica, l’intero “Ancient Egyptian Book of The Dead” di R.O. Faulkner. Appare come un progetto ambizioso, ma al momento i The Horn sembrano essere sulla strada giusta con questa delirante composizione di black industriale, ambient, noise e drone, di non facile accessibilità, ma assai affascinante. Provate anche voi a lanciarvi nello Stargate e vedere in quale dei mille universi paralleli andrete a finire… (Francesco Scarci)

(Shaytan Productions)
Voto: 70

http://www.myspace.com/thehornproject