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sabato 10 dicembre 2011

Sacratus - ...Paradise for Two

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost, My Dying Bride
Li avevamo lasciati poco più di due mesi fa con il loro debut “The Doomed to Loneliness” e torniamo oggi a recensire i russi Sacratus, con un nuovo lavoro, decisamente più maturo del suo predecessore. “…Paradise for Two” presenta otto tracce di cui tre ri-registrate provenienti dal precedente album. Diciamo subito che la formula non è cambiata granché, in quanto l’act di Cherkessk continua a proporre un death doom dalle forti tinte autunnali. Ciò che è migliorato sensibilmente è il songwriting, la struttura dei brani si è snellita, con pezzi più brevi, digeribili e intellegibili, le vocals continuano a rappresentare il pezzo forte dei Sacratus, muovendosi tra growlings mai estremi e cleaning vocals assai piacevoli. Ciò che di fatto fa fare un salto di qualità al quartetto è la vivacità della proposta, che richiama per certi versi i Paradise Lost di “Shades of God” o i My Dying Bride di “Turn Loose the Swans”, mostrando però più sprazzi di solarità nel loro sound, anche se comunque a parte la opening track, tutte le altre songs sono finiscono per l’essere imbrigliate in un senso di velata cupezza. Ma d’altro canto se cosi non fosse, non sarebbe di sicuro doom quello che i quattro propongono. “Shadow”, “The Hard Thinking”, “Tristeza Mia”, ma soprattutto l’arabeggiante “Revelation” (la mia preferita e forse anche la migliore del lotto), fluiscono senza intoppi e il loro ascolto non scade di sicuro nella noia, come mi era capitato invece nella precedente release. Quel che è appare chiaro è che tra le mani non abbiamo nulla di nuovo, è sempre un sound abbastanza derivativo che non apporta grosse novità al genere. Però mi sembra che l’ensemble russo stia lavorando egregiamente, anche grazie al supporto dell’attenta etichetta Darknagar Records e che quindi meriti la vostra attenzione. Per ciò che riguarda le tre tracce ri-registrate, “Madness”, “Fallen Angel” e “The Last Hope”, i nostri tornano ad ammorbarci con pezzi stralunghi in grado di rubarci una mezz’ora della nostra vita, con visioni cupe e catastrofiche. Depressi! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 75

sabato 8 ottobre 2011

Sacratus - The Doomed to Loneliness

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, Saturnus
Ditemi voi, cosa può racchiudere un album di una band chiamata Sacratus, che nel titolo del proprio album di debutto riporta le parole doom e solitudine e la cui casa discografica si chiama “Disperazione Infinita”? Facile no, funeral doom penserete voi, come ha fatto d’altro canto il sottoscritto ancor prima di infilare il cd nel lettore. Facile cadere in tranelli di questo tipo, perché in realtà la band russa propone un death doom estremamente dinamico (strano a dirsi) ma che comunque, pur cedendo alle scontatissime influenze di My Dying Bride, primi Paradise Lost, ma soprattutto degli Anathema di “The Silent Enigma”, convince inizialmente per la vivacità della propria proposta, pur spingendosi con i propri brani a delle durate al limite del sopportabile (oltre i dieci minuti per brano, per una durata complessiva di settantanove sfiancanti minuti). Affrontare le prime tracce mi è sembrata infatti una passeggiata di salute e immergermi nelle calde melodie di “Blackeyes” o “Interlace”, dove gli echi dei fratelli Cavanagh di metà anni ’90 sono forti più che mai, è stato assai piacevole; mano a mano che si procede con l’ascolto dell’album, s’inizia a sentire la fatica, nemmeno stessimo affrontando il Passo del Mortirolo durante il Giro d’Italia. I toni si fanno più cupi e drammatici, il ritmo rallenta paurosamente, scadendo in riff triti e ritriti all’interno del genere, e provocando un improvviso calo di interesse. Non bastano infatti le tastiere (o qualche effetto) a destare un maggiore interesse nella proposta del quintetto di Cherkessk: “Madness” è aperta da un’intro felina e “Sub Hokhi” da un belligerante incipit, la musica dei Sacratus non convince appieno, complici se volete le lunghe durate dei brani, il cui immediato effetto è quello di skippare al brano successivo, alla ricerca di qualcosa di più accattivante. Certo non mancano alcuni spunti che hanno il marginale ruolo di risollevare le sorti della band russa: alcuni riff effettati di chitarra catturano l’attenzione ma è solo questione di qualche secondo, dopo di che il rischio di distrarsi si fa largo lungo gli infiniti 80 minuti, fino alla conclusiva strumentale “Melancholy”. Un plauso particolare però va alla voce di Serge che muovendosi tra un growling mai troppo pesante, sulla scia dei Cemetary of Scream e qualche episodio clean, contribuisce a salvare un lavoro che forse avrebbe rischiato una forte stroncatura. Per ora il consiglio è di lavorare duramente per prendere le distanze dalle vecchie glorie del passato ed acquisire una propria definita identità. Non vorrei mai che il death doom, da fenomeno dell’anno possa diventare la rottura di palle dell’anno, mi dispiacerebbe molto, perché è un genere che ha ancora un sacco di cose da dire. Esortando i nostri a dare di più, rimango curioso e in attesa di ascoltare il nuovo cd. (Francesco Scarci)

(Endless Desperation)
Voto: 65