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martedì 26 marzo 2013

Obsidian Kingdom - Mantiis

#PER CHI AMA:  Post-metal, Progressive, Porcupine Tree, Opeth, The Gathering,
Il quintetto spagnolo corre un bel rischio con questo "Mantiis": poco più di 45 minuti in cui generi e atmosfere diversissimi si fondono in un continuum senza interruzioni. Da qui a creare un insipido collage di stili il passo è brevissimo: ma gli Obsidian Kingdom restano sempre in equilibrio sul filo, senza cadere mai nell'eccessiva giustapposizione di parti separate ma, d'altra parte, senza mai brillare di esplosiva originalità. Già dal digipack curatissimo graficamente emerge comunque una notevole attenzione ai dettagli: se sulla copertina cartonata campeggia una mostruosa mantide antropomorfa, l'interno ricorda invece vecchi trattati di entomologia e botanica, con illustrazioni in bianco e nero, foto oscure e, ovviamente, tutti i testi dell'album. Il concept è in realtà un'unica canzone, divisa in quattordici tracce – o quattordici "morsi", come spiega bene il sottotitolo – che esplorano altrettante diverse emozioni: si va dalle atmosfere rarefatte e oniriche di "Not Yet Five" e "Fingers in Anguish" alla serenità oscura di "The Nurse" o "Genteel to Mention" (con chiari riferimenti agli ultimi Opeth, soprattutto negli utilizzi delle tastiere e delle chitarre acustiche), dalla violenza distorta di "Cinnamon Balls", "Endless Wall" e "Ball Room" fino alle sperimentazioni pseudo-jazz di "Last of the Light" o della parte conclusiva di "Awake until Dawn". Il gran finale, "And Then It Was", si arrampica su atmosfere strumentali death per poi chiudere con oltre un minuto di disturbanti suoni elettrici. I brani scorrono fluidamente uno dopo l'altro, trascinando l'ascoltatore in territori sempre nuovi ma costruiti senza banalità. Ogni canzone è di fatto un episodio a sé stante, dotato di propria dignità se ascoltato separatamente: ma è inserito nel continuum dell'album che acquista forza e vigore, come una tappa consapevole e mai forzata di un viaggio negli istinti, nelle emozioni e nei ricordi. Dal punto di vista tecnico la band non è sempre convincente: ho trovato appena discreta la sezione ritmica, con basso e batteria poco propositivi e originali. Migliori invece le chitarre e le tastiere – soprattutto per l'attenzione ai suoni –, e più che buona la voce di Rider G. Omega (i nomi d'arte dei cinque spagnoli sono straordinari, per inciso), capace di melodie interessanti e ben interpretate così come di growl oscuri e violenti. La scarsa originalità della ritmica, combinata con un riffing purtroppo non sempre convincente, sono l'unico neo di questo album: i brani più duri e distorti, paradossalmente, risultano meno efficaci rispetto a quelli melodici e d'atmosfera, costruiti su chitarre acustiche e tastiere, che sono la vera chicca del disco. (Stefano Torregrossa)