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domenica 7 febbraio 2021

La Fin - The Endless Inertia

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Ci sono voluti quattro lunghi anni per partorire il full length di debutto dei milanesi La Fin. Era il 2016 infatti quando i nostri uscivano con l'EP 'Empire of Nothing', facendosi notare per una proposta in bilico tra post metal e post hardcore. Ora l'ensemble italico, forte anche di un deal con l'Argonauta Records, è riuscita finalmente a dar seguito a quel dischetto, rilasciando questo 'The Endless Inertia'. Il disco consta di nove tracce che aprono l'album con "Inertia", un brano lento e magnetico che evoca inevitabilmente come riferimenti principali i Cult of Luna, sebbene nelle parti più cervellotiche, ci siano dei richiami che spingono la band nei paraggi di un prog death, almeno questa la sensazione percepita al minuto 4 dell'opening track. La linea ritmica si conferma comunque solida con accelerazioni caustiche nella seconda metà della traccia, laddove maggior spazio viene concesso alla parte strumentale, pur non disdegnando frammenti acustici che mitigano la proposta dell'act italico o fraseggi che evocano ancora un che di suoni progressivi. Questo in soldoni come delineare la prima song di quest'album e come indirizzarne l'ascolto. Molto più dirompente e decisamente più hardcore oriented, l'incipit della seconda "Zero", visto che dopo il marasma sonoro creato, la band torna a giocare con suoni più calibrati, melodici e sempre coadiuvati dalle harsh vocals di Marco Balzano. Ma l'ascolto del pezzo porta comunque ad una girandola emotiva che evolve con le atmosfere generate e contestualmente, con la comparsa di clean vocals che ammorbidiscono di molto le intemperanze ritmiche dei nostri, che nel finale sembrano voler emulare i Fallujah più cinematici. "Hypersleep"ci mostra un'ulteriore faccia dei La Fin, qui più venata di un tocco malinconico, anche nei momenti più ruvidi. Quello che apprezzo è comunque il lavoro alle chitarre con una sovrapposizione di ben tre asce che si amalgamano con batteria e basso in una matrice ritmica davvero intensa e di elevata perizia tecnica, nonchè dispensatrice di una grande dose di emotività. Un breve intermezzo ambient ci accompagna a "Repetitia" e al suo beating pulsante iniziale, prima che la band si lanci in un'alternanza di riff nervosi e parti quasi shoegaze e ancora, palesi influenze djent o si scateni in lancinanti fughe black. Ma ogni brano sembra avere una sua anima per quanto l'album sia in realtà un concept legato al concetto di inerzia e quella che è la tendenza di un corpo a conservare il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, cosa che in quest'album in realtà non viene confermata. Si, perchè "Disembody" ha un inizio più ruffiano che si esplica successivamente attraverso un post metal erudito a tratti comunque gonfio di rabbia estrema, laddove i blast beat saturano le casse con nevrotiche scariche di violenza. Eppure, la band continua a muoversi con la politica del bastone e carota, alternando momenti atmosferici a parti urticanti, leggasi per questo la violenza di "Blackbody", brano carico di contenuti estremi ma anche di parti più cerebrali, rendendolo forse il pezzo più complicato da digerire di 'The Endless Inertia'. Con "Endless" si torna a suoni più tecnici, con certi fraseggi che mi hanno evocato un ibrido tra post metal e prog, Amenra e Cynic, in un pezzo comunque altalenante nelle sue forme ed espressioni. L'ultimo atto è affidato a "Eulogy", il brano più lungo del lotto, quello in cui il sestetto condensa tutto quanto ascoltato in 'The Endless Inertia', in nove minuti e più di alternanze ritmico-emotive, di rabbia contrapposta a malinconia, di furia strumentale opposta a tenui partiture acustiche, di yin e yang, di bianco e nero, che si consumano come un cerino acceso, negli ultimi 30 secondi della traccia. Questo è solo l'inizio, sono curioso di assistere all'evoluzione estatica dei La Fin. (Francesco Scarci)

sabato 9 maggio 2020

Kayleth - Back to the Earth

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo nello spazio interstellare, ecco che i Kayleth fanno ritorno a casa. La band veronese torna infatti col terzo full length intitolato 'Back to the Earth', continuando con quella loro bella abitudine di trattare tematiche filosofico/spiritual/sci-fi a livello lirico. Il disco include dieci song e la prima cosa che avverto all'ascolto dell'opening track "Corrupted", è un forte ancoraggio dei nostri ai classici del passato, pur non rinunciando alle caratteristiche space rock che ne hanno contraddistinto le loro ultime release. Ma quello del quintetto veneto, più che un ritorno sulla Terra, mi pare piuttosto un ritorno alle origini, là dove tutto è cominciato. Black Sabbath e Kyuss tornano ad essere le preponderanti influenze di questa nuova fatica. La song pertanto mette in mostra un bel riffone di matrice sabbatthiana, con la voce di Enrico Gastaldo però che rimane quasi strozzata in sottofondo, mentre le keys di Michele Montanari assurgono sempre quel ruolo di arrangiamento che va a riempire a tutto tondo il sound dei nostri. Il brano va comunque in levare, con una bella base ritmica che accelera anche grazie alle martellate sulle pelli erogate dal sempre puntuale Daniele Pedrollo. "Concrete" è violenta e abrasiva sin da subito, una cavalcata desertica che trova il proprio ristoro in un litanico break centrale ove dar sfogo a tutte le visioni lisergiche dettate dalla Psilocibina contenuta nei funghi di quei luoghi cosi desolati. I giri di chitarra e basso, a cura del duo formato da Massimo Della Valle e Alessandro Zanetti, ci conducono ancora indietro nel tempo, anni '70 per l'esattezza; quello che non mi torna invece è ancora la voce del buon Enri sommersa da una produzione probabilmente troppo ovattata. Con "Lost in the Canyons", i nostri proseguono sulla medesima pista desertica, guardando questa volta agli Hawkwind, percependo anche un che dei System of a Down in una qualche nota di chitarra, e sottolineando poi come l'ipnotico incedere ritmico venga costellato dai pregevoli synth di Mick che qui assumono quasi la fisionomia del frinire dei grilli nella notte. Se non mi sono poi bevuto del tutto il cervello, mi pare di udire in questa traccia anche il verso di quello che sembra essere un sax ad arricchire i nebulosi arrangiamenti dei nostri. "The Dawn of Resurrection" è un'altra bell'esempio della roboante proposta dei nostri, guidata qui dal basso stentoreo di Ale che, a braccetto col rutilante drumming di Dany, mette a ferro e fuoco un'aria già di per sè incendiata. Qui l'influenza degli Electric Wizard torna a riaffacciarsi, cosi come quella dei Queens of the Stone Age, il cui fantasma aleggia un po' ovunque nel disco. Con "Delta Pavonis", i Kayleth vogliono ricordare parte del loro viaggio intergalattico quando si affacciarono alla costellazione del Pavone, a quasi 20 anni luce dal nostro sistema solare. I suoni da queste parti appaiono più freddi e rarefatti, anche se le melodie delle keys cercano di riscaldarli guidando poi un inebriante giro rock'n roll a base di chitarra e basso. È poi ancora una ritmica pesante quella contro cui sbattiamo il muso nell'incipit di "By Your Side". Mentre le tastiere fanno il diavolo a quattro, la voce di Enri prosegue nel suo evocare il vecchio Ozzy. Quello che preferisco della song è però quel finale etereo tra chitarre e keys che ne rendono davvero giustizia. "Electron" è un pezzo magnetico d'altro canto con un titolo del genere che cosa vi aspettavate? Carico grondante di groove fin dalle note iniziali, il brano scivola che è un piacere in bilico tra uno stoner rock mid-tempo, un post-grunge e una darkwave di fine anni '80, senza troppi fronzoli e trovate, il che ci mostra un lato ancora nascosto del quintetto italico. La sua essenza è tanto perfetta quanto imprevedibile, ideale per un po' di meditazione alla ricerca del proprio IO supremo, l'autocoscienza, prima che nel finale i nostri riaccendano i motori della propria astronave e decidano di riprendere il volo. "The Avalanche", come una valanga, ci investe in modo forse volutamente un po' disomogeneo, mentre "Sirens" ha un che di decisamente magico ed esoterico nei suoi solchi, forse la traccia più strana ed originale del disco, anche se dobbiamo ancora commentare "Cosmic Thunder", la song che furbescamente (e maliziosamente) chiude il disco. Si tratta di una track dall'incedere disco dance anni '70/80 che ci mostra come, in perfetta simbiosi col rock rude dei Kayleth, ci sia ancora molto da scoprire in questa parte non del tutto esplorata di mondo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2020)
Voto: 75

https://kaylethstoner.bandcamp.com/

venerdì 8 maggio 2020

Megatherium - God

#PER CHI AMA: Stoner Psych Sludge
Ci siamo lasciati con i Megatherium nel 2016 quando uscì il debut album 'Superbeast'. Ci ritroviamo oggi con un nuovo solido lavoro dall'onnipotente e "poco ingombrante" titolo, 'God'. Otto tracce per i nostri, di cui solo cinque in realtà veri e propri brani, visto che "(generate)" funge come sorta di dronica intro, "(organize)" come intermezzo strumentale, mentre "(destroy)" è una più breve e avvinghiante rumoristica song. Con "The One" il quartetto di Verona inizia a macinare i propri classici mastodontici riffoni e la prima cosa che vorrei sottolineare rispetto al precedente lavoro, è un netto miglioramento a livello vocale: Manuele ha infatti aggiustato il proprio modo di cantare e ora lo trovo meglio collocato all'interno di uno stile musicale che rimbalza costantemente tra stoner, sludge e doom, senza tralasciare che altre componenti, quali math, heavy classico, alternative e psichedelia, s'intersecano in più punti nei brani. "The Holy" parte più in sordina, tra riverberi di chitarra e giri ritmici melmosi che sembrano evidenziare una minor accessibilità alla proposta dei nostri rispetto al passato, privilegiando qui un approccio più pesante e oscuro. Forse questo potrebbe essere il secondo punto che differenzia 'God' dal precedente 'Superbeast' e devo ancora maturare l'idea se si tratti di un punto a favore o sfavore di questa nuova release. Probabilmente la differenza risiede nel cambio di line-up, che ha visto la fuoriuscita di Davide alla chitarra e il successivo innesto di Alberto "Tode" a rimpiazzarlo. La quarta song, "The Truth", ha un incipit ben più atmosferico, frutto dell'utilizzo di synth in background che ne mitigano non poco, la fruibilità. Ampio spazio viene dato comunque alla parte strumentale, come a voler stordire l'ascoltatore prima di porgere un paio di carezze ristoratrici, carezze che coincidono con l'ingresso alla voce del vocalist. Ma il sound continua a rimanere urticante e duro da digerire, frutto di continui tortuosi giri ritmici che finiscono col produrre un effetto sfiancante. È il turno della song più lunga del lotto, "The Eye", quasi undici minuti in totale apnea, visto il grado di angoscia che il pezzo riesce a generare. Il brano apre con un arpeggio dal vago sapor mediorientale, prima che un ribassato rifferama si metta a costruire un enorme muro sonoro dove ancora una volta, il cantato di Manuele, cerca di addolcirne le asperità. Il sound dei Megatherium si fa ancor più minaccioso con un giro ritmico dai tratti fortemente dissonanti che trovano in uno psichedelico break percussivo di scuola tooliana, l'apice compositivo (e di irrazionalità) di 'God'. Ecco, questi sono i momenti che adoro di questa band, in cui ti prendono, ti portano all'inferno e li ti abbandonano. Quest'ultimo alla fine è l'episodio del disco che ho preferito, finalmente identificato dopo una serie estenuante di ascolti che mi ha portato quasi al delirio psichico. Tuttavia, il finale è affidato ad una song dal temperamento più hard rock oriented, "The Strenght", in cui i nostri mostrano inizialmente i muscoli con il loro stoner lento ma possente, intriso di una buona verve grooveggiante che rende questa song di facile presa anche laddove la band si infila in un tunnel ove una luce soffusa sembra voler intorpidire i nostri sensi con fare seducente. La porzione interamente strumentale qui votata peraltro alla psichedelia più pura, mostra un'altra faccia dei Megatherium, quella più lisergica e sperimentale prima dell'ultimo ingresso vocale di Manuele. La song chiude un riffing monumentale cosi ritmato che nel suo fading out mi ha evocato i Metallica di 'Master of Puppets'. 'God' alla fine è un album complesso che non si capisce certo al primo ascolto ma necessità di grande attenzione per poter coglierne dettagli a volte sommersi da un riffing pachidermico e assaporarne cosi tutti i suoi colori e odori. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2020)
Voto: 76

https://megatheriumstonerdoom.bandcamp.com/album/god

domenica 3 novembre 2019

Lambs - Malice

#PER CHI AMA: Crust/Post-Hardcore
Che fine hanno fatto i Lambs che ho recensito ormai tre anni fa su queste stesse pagine, in occasione dell'uscita del loro EP 'Betrayed From Birth'? Quella era una band di corrosivo post-hardcore/post-black, mentre i Lambs di oggi, sembrano piuttosto una realtà apparentemente più riflessiva, immersa in un contesto più vicino al post-metal. Questo è almeno quanto si evince dalla song posta in apertura di 'Malice', dall'eloquente titolo "Debug" (song che vanta peraltro la partecipazione di Paolo Ranieri degli Ottone Pesante e il musicista genovese Fabio Cuomo). Che si tratti quindi di una correzione del tiro da parte della compagine cesenate o che altro? Lungi da me trarre conclusioni cosi frettolosamente, visto che il finale della stessa si lancia verso un primigenio caos sonoro che richiama quello stesso corrosivo suono crust che avevo evidenziato in occasione del precedente dischetto, proseguendo addirittura con un sound ancor più aspro nella successiva "Arpia". La traccia si apre con ritmiche sghembe che strizzano nuovamente l'occhiolino alle band black della scena transalpina, per poi infilarsi in mefitici e fangosi meandri sludge (dove i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio) e lanciarsi infine, come un treno fuori controllo, in un'ultima cavalcata dalle tinte oscure, non propriamente nere. È quindi il turno di "Ruins" e qui il ritmo va più a rilento, almeno fino al minuto 4 e 37, quando una grandinata improvvisa si abbatte sulle nostre teste. In "Perfidia", una song lenta e magnetica, i nostri si affidano all'italiano per il cantato e il risultato, devo ammettere, si rivela ben più efficace di quello in inglese. Certo, la song è assai particolare, muovendosi tra crust punk, math, uno sfiancante sludge e schizofrenia pura, risultando alla fine la mia song preferita. C'è ancora tempo per l'ultima sassaiola, quella affidata a "Misfortune", un brano che tuttavia parte piano con un timido esempio di post-rock in stile *Shels, con la tromba di Paolo Ranieri in sottofondo. Come anticipato però, di sassaiola si tratta e non c'è niente da fare, non la si può scampare quando esplode nella sua furia distruttiva. I Lambs cercano di attutirne i colpi, rallentando pericolosamente l'incedere intimidatorio del pezzo. Il giochino riesce alla grande ma alla fine provoca un giramento di testa non da poco, che mi sa tanto che mi accompagnerà per parecchio tempo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2019)
Voto: 72

https://lambsit.bandcamp.com/album/malice

domenica 6 ottobre 2019

Praise the Plague - Antagonist II

#PER CHI AMA: Black Doom, Dissection
A cadenza annuale, tornano i germanici Praise the Plague: era infatti settembre 2018 quando uscì 'Antagonist', l'EP d'esordio della band di Berlino e settembre 2019 vede i nostri tornare con 'Antagonist II', un secondo EP che prosegue sulla scia di quel blackened doom che era stato discretamente apprezzato dalla critica lo scorso anno. Inizio col dire che non vedo/sento grosse differenze con il vecchio lavoro, se non a livello di produzione qui molto più bombastica e che finalmente conferisce maggior risalto a livello di malvagità proposta. Due sole tracce però a disposizione per questo vinile 12" in uscita per la Argonauta. Ecco, mi sarei aspettato qualcosa in più che questa pillola malefica di black che poco si sposa mi pare con il resto del rooster della label nostrana. Comunque sia, "Torment", la prima traccia del lavoro, si apre con il grido del vocalist Robert a cui si accoda la ritmica tagliente in stile Dissection. E proprio il glaciale black svedese credo che rappresenti la fonte di ispirazione per i nostri almeno nelle parti più tirate, questo perchè i nostri tendono a rallentare impietosamente il proprio sound quando si spostando nel versante doomish, creando atmosfere vertiginose interrotte dalle classiche sferzate black. E la bufera annichilente prosegue anche nella seconda "Woe", un pezzo forse più oscuro del lato A del vinile, visto l'incipit che puzza di mefitico e putrefatto funeral doom, con le oscure grim vocals ad ergersi su una ritmica lenta ed opprimente che non concede troppo spazio alla melodia, sia chiaro. È solo a metà brano che le sanguinose e gelide chitarre tornano a soffiare nella loro impetuosa insania. La seconda parte del brano invece sembra ammiccare ad un sludge/post-metal che aumenta il mio interesse per l'ensemble teutonico. Ora sia chiaro, mi aspetto una release più strutturata per meglio giudicare la proposta dei Praise the Plague che per ora si devono accontentare di questo mio voto cosi risicato. (Francesco Scarci)

martedì 19 giugno 2018

Bible Black Tyrant - Regret Beyond Death

#FOR FANS OF: Post Metal/Sludge, Yob, Neurosis
An album filthier than the nether regions of a three dollar lady of the evening, hard at work over Fleet Week in Norfolk, Virginia, Bible Black Tyrant brings a brash and densely infectious noise akin to the sludge seeping from twixt the illicit worker's legs that incubates in its fetid fecundity and ravages a population with plague and progeny alike. In contrast to the namesake of the state in which her underground business operates, her tang is corrupted by the abuse and unrestrained voracity of the lowly yet it is impressive in its epidermal malleability and her constitution's resistance to its own incubation of potential epidemic.

Featuring fluid flows of 'Celestial' sludge throughout the album, especially noticeable when the guitar grain melts and eventually isolates the drums, similar to a breakdown in “Glisten”, this album incubates its own deleterious concoction that remorselessly punishes a listener and leaves him curious as to what more substance may issue from such seemingly interminable captivity. However, Bible Black Tyrant refrains from indulging the bounce and hardcore leanings of Isis in favor of drawing out its oppressive march. The closest moment to a hyper speedy passage is in the disorienting first moments of the title track where the feedback and resonance of a guitar nearly sounds like a lo-fi blast beat which the band then admonishes the listener for entertaining such a notion by scraping strings and slamming the squeaking gate of freedom to draw him back into this dreary penitentiary. In stark opposition to the general flow of a the average album, this title track is merely a minimalist ambient piece separating two segments of creeping and undulating terror as the mechanism of control relishes its reign and resists revolution throughout this audial arc.

Much of 'Regret Beyond Death' is large, lumbering, and jerky with very few moments that combine such spastic contortions and relentless stomping in order to naturally move and flow. The oppressive atmosphere, a constant weight of grain upon one's ears that overcomes conscience and sense of self alike, seems to have no rhyme or reason except to torture and control the listener's thoughts, creating suffocating and delirious expectations as though the trials of a gulag meant not to mine prosperity for a society but to reduce the reproduction of its most wretched refuse. However, when such a combination of rhythm and riff does finally breach these prison walls, what eventually glides through the atmosphere is a greatly welcome moment that flows like fresh water after a drought. The album is unnerving until finally falling into a comfortable groove in “Wilderness of Steel and Stone” as a busy Sabbath style guitar followed by slow and hard cymbal pounding and a chanting chorus of 'the king of the slaves' takes over. Finally a flowing guitar riff on which to build rather than simply oppressing without any present design clears the air and a fresh feeling of freedom inspires an eruption of revolution, as though a mortal coil sheds like snake skin and rapture is achieved in the breaking of chains.

For a band named after a line in “The Legend of Sleepy Hollow”, a short story by Washington Irving featuring the ever-menacing Headless Horseman, there is an apparent horror throughout 'Regret Beyond Death' that seems to usher in a revolt against its confinement after “New Verse Inferno”, sweeping away its own oppressors. Recorded in different locations in the northwest and West Coast, the ensemble comes together well with its abrasive guitar layering, shouted vocals, and bassy percussion that brings grainy cycling in “A Terror to the Adversary”, cracking string whips in “The Irony”, and an almost psychedelic crunch in “The Standard”. A brash swinging in “Instead Of” will pick up its rhythm in order to better bash its own head into pavement while the grip of the hostile treble monopolizes the mix with its relentless reverberations.

Like the climbing guitar tones in “A Terror to the Adversary”, reeking of filth in spite of its undertone of grungy, almost reverential cries to become an anthem, 'Regret Beyond Death' yearns to become something better, but the crushing pain of existence and the weight of tyranny is impossible to truly overcome. The hints of a story arc help the album progress, but the endless deprivation throughout the album make for a release marred by its own misery. It will be interesting to see if Bible Black Tyrant may be able to escape its Hell and subjugate its oppressors, relishing its own revenge after enduring such a ravenous reign, but for now the band seems to be nurturing an uprising that quickly may be quashed. (Five_Nails)

(Argonauta Records - 2018)
Score: 65

https://bibleblacktyrant.bandcamp.com/releases

sabato 3 febbraio 2018

Kayleth - Colossus

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet, Cathedral, Kyuss
Continua con il nuovissimo 'Colossus', il concept sci-fi dei veronesi Kayleth, ormai di casa da anni qui nel Pozzo dei Dannati. Il secondo lavoro, sempre edito dall'Argonauta Records, ha da offrire sessanta minuti di sonorità space/stoner, che non sono certo la più facile delle scampagnate da fare, soprattutto se ci sono ben 12 pezzi da affrontare. Si parte con "Lost in the Swamp" dove, accanto alla consueta ritmica ribassatissima, fanno capolino i synth ispirati del bravo Michele Montanari, mentre la voce di Enrico Gastaldo si muove sempre in bilico tra il buon Chris Cornell e qualcosa degli svedesi Lingua. Da sottolineare la preziosa performance alla sei corde di Massimo Dalla Valle, a districarsi tra riffoni pesantissimi e brillanti assoli. Bel pezzo, l'ideale biglietto da visita per questa nuova release del combo veronese. Si prosegue con "Forgive" e la sostanza non cambia: ottimo e vario il rifferama, abbinato all'imprescindibile componente eterea dei synth, e la voce di Enrico che questa volta cerca modulazioni vocali alla Kurt Cobain. "Ignorant Song" è un bel tributo agli esordi dei Black Sabbath, in grado di sprigionare una dose di energia sufficiente a scatenare un bel pogo. Diavolo, da quanto non se ne vedono. E allora lanciamoci via veloci ad assaporare la tribalità della title track (bravo a tal proposito Daniele Pedrollo dietro le pelli), una song più lenta ed oscura, in cui sottolineerei ancora il lavoro ritmico (le linee di basso di Alessandro Zanetti rilasciano traccianti da paura) e solistico dei nostri. "So Distant" è breve, veloce, uno schiaffone in faccia tra riff tonanti e l'elettronica ubriacante dei synth, con il frontman che canta principalmente su un tappeto ritmico sostenuto dal solo incessante battere del drummer. Forse un modo per cercare un contatto con gli alieni, quello proposto invece dal cibernetico inizio affidato a "Mankind's Glory", song ipnotica che evoca un che degli esordi dei Cathedral, in una song dal forte potere magmatico. Al giro di boa, ecco il lisergico inizio di "The Spectator" (dove io ci sento un che dei Pink Floyd uniti ai Linkin' Park, sarò pazzo?) pronto ben presto a lasciare il posto al più pesante stoner tipico della band italica. Altra mazzata in volto e siamo giunti a "Solitude", altra perla che vede nuovamente nella band di Lee Dorrian e soci (ma che affonda le proprie radici nel suono desertico dei Kyuss), i propri riferimenti musicali in una scalata musicale da brividi. Si conferma la bontà del songwriting, la produzione cristallina amplifica inevitabilmente la resa sonora ed una potenza che non resta a questo punto che assaporare anche dal vivo. Si arriva nel frattempo alla più lenta e ritmata "Pitchy Mantra", più litanica delle precedenti, ma essendo collocata più in fondo alla scaletta, sembra aver meno da dire. E questa è probabilmente la debolezza di un disco che negli ultimi suoi pezzi, pare smarrire la verve dei primi brani, anche se "The Angry Man" ritrova smalto e brillantezza, nella sapiente coniugazione di psichedelia e blues rock. "The Escape" è il penultimo pezzo del cd, e il vocalist sembra voler provare altre soluzioni vocali (Soundgarden) che si stagliano su di una matrice ritmica costruita egregiamente dai cinque musicisti veneti, in una traccia che mostra ulteriori sperimentalismi sonori al suo interno. In chiusura troviamo "Oracle", traccia più soffice e seducente delle altre che conferma quanto di buono fatto fino ad oggi dai Kayleth. Con un paio di pezzi in meno mi sa tanto che 'Colossus' me lo sarei goduto al meglio, da tener ben presente per la prossima volta. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2018)
Voto: 80

lunedì 8 gennaio 2018

From Oceans To Autumn - Ether/Return To Earth

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Russian Circle, Isis, Explosions in the Sky
Il post metal è un genere che non può essere delimitato in maniera definita proprio perché le strutture e i suoni propri del metal sono presi e mescolati come colori su una tavolozza atti a creare un dipinto totalmente nuovo. I From Ocean to Autumn (FOTA) hanno preso alla lettera questa caratteristica e il risultato è un disco fortemente atmosferico, carico di emotività e variegato nella composizione. Si parla in realtà di un doppio cd, per un totale di dodici brani e un milione di scenari diversi. Rieccheggiano nelle tracce le influenze di band come Earth, Explosions in the Sky, Russian Circle e personalmente mi è parso di scorgere alcuni elementi del capolavoro 'Panopticon' degli ISIS. Siamo davanti ad un lavoro totalmente strumentale che però non risulta mancare di nessuna componente musicale, i brani sono sostenuti e decisi e a volte sembra addirittura di sentirla una voce, lontana e lamentosa come se arrivasse da dietro le nuvole. Il disco si chiama 'Ether/Return to Earth' ma più che un ritorno sembra proprio una partenza, il lancio di una navicella spaziale diretta verso il pianeta abitabile più vicino alla Terra. Dalla navicella si vede la galassia che è infinita e spettacolare, le stelle sono così da far perdere il senso di sé che dolcemente si prende una pausa e si siede ad ammirare la magnificenza del cosmo. L’orchestralità è forse il maggiore punto di forza del disco, ove si susseguono, negli oltre 100 minuti di musica, un turbinio di ambienti e incastri strumentali come a voler replicare tutte le combinazioni possibili del dialogo tra i vari strumenti. L’esperienza d’ascolto è qualcosa che estranea ed eleva, non c’è niente da capire ne da risolvere, le emozioni sono trasmesse in modo diretto ed immediato, tutto ciò che è richiesto all’ascoltatore è la pazienza di osservare l’evolversi della musica. È come assistere alla formazione di una stella all’interno di una nebulosa, con la materia che si addensa lentamente e gli atomi collidono su se stessi generando energia e calore. Una menzione particolare va a “Medium”, brano diviso in due parti: i primi tre minuti sono densi di suoni sospesi a mezz’aria senza ritmica che però entra incalzante nella seconda parte accompagnata dal crepitare di valvole e dall’ululato dei feedback in un climax sonico terapeutico e rilassante. La song riassume le migliori caratteristiche della musica degli FOTA apprezzabili anche per esteso negli epici brani "Quintessence/Core" e "Stratus/Vapor" che insieme superano la mezz’ora di ascolto. 'Ether/Return to Earth' nella sua grazia eterea rifulge di luce propria e può illuminare la mente vessata dal grigiore della realtà quotidiana in un lavoro completo, chiaro nella sua identità e incredibilmente ricco di atmosfere. Consigliato a tutti gli appassionati di musica sperimentale. (Matteo Baldi)

mercoledì 6 dicembre 2017

Tuna de Tierra - S/t

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss
I Tuna de Tierra nascono a Napoli all'inizio del 2013 dall'incontro tra Alessio (chitarra e voce) e Luciano (basso) che, grazie alla collaborazione di Jonathan Maurano (alla batteria), portano alla registrazione del primo EP autoprodotto nel 2015, 'EPisode I: Pilot', con un buon riscontro da parte del pubblico che ha permesso al terzetto partenopeo di solcare i palchi italiani e continuare con la loro produzione artistica. Questo self-title è prodotto da Argonauta Records che ha intuito il potenziale dei tre scugnizzi napoletani che non hanno deluso le aspettative. L'album è disponibile in digitale e nel classico digisleeve a due ante, con un artwork desertico disegnato dalla Ver Eversum, già protagonista di poster e illustrazione per band e festival. Le sette tracce sono un mix di sonorità stoner/psych rock che affondano le radici nella scuola Kyuss & Sky Valley Co., grazie a lunghe sessioni di jam lisergiche che trascendono tempo e spazio. Il trio infatti non adotta la scuola del wall-of-sound e si concentra su melodie orecchiabili, come nella prima track "Slow Burn", brano strumentale dai suoni potenti e con un assolo evanescente che guida il breve svolgimento del brano. Passiamo oltre e approdiamo a "Morning Demon", una lunga ballata rock che convince per gli arrangiamenti e la ritmica, mentre la linea vocale è sottotono e non riesce a dare la giusta identità al brano. Il trio convince sempre più sulla parte strumentale, proponendo riff che richiamano la scena stoner californiana, ma riescono a dare un apporto personale grazie a melodie non scontate. L'utilizzo delle progressioni crea una struttura di facile assimilazione che entra calda e lenta nelle nostre vene per poi esplodere nel finale dove ritorna il cantato che questa volta ha la grinta che il brano merita. Il trio ci delizia con "Long Sabbath's Day ", una sorta di desert-gospel-blues fatto di chitarra, voce e percussioni, ideali per una notte fredda e stellata tra rocce e sabbia, stesi su un polveroso tappeto davanti ad un fuoco mentre la tequila scorre incessantemente. I fumi dell'alcool si mescolano alle sterpaglie bruciate, gli occhi lacrimano per l'emozione legata alla catarsi tra uomo ed universo. "Laguna" invece abbraccia il post rock nella sua parte introduttiva con le chitarre che riecheggiano lontanissime, per poi mutare in una lunga ballata psichedelica fatta di fraseggi liquidi e di una ritmica vellutata. Pura lussuria per le nostre orecchie che trasmutano la melodia in serotonina e sfama i nostri neuroni appisolati, mentre il break annuncia l'entrata della classica cavalcata, assolo e rallentamento a chiudere. Mandando in rotazione l'album per giorni si viene rapiti dal sound caldo e avvolgente, dalle melodie oniriche che diventano aggressive quando serve e dalla passione vera per un genere che non accusa affatto l'età. Non definirei quest'album omonimo il seguito del primo EP dei Tuna de Tierra, piuttosto un'evoluzione artistica alla ricerca del proprio io su una strada che si perde all'orizzonte. Speriamo di rincontrarli presto. (Michele Montanari)

lunedì 20 novembre 2017

Three Eyes Left - The Cult of Astaroth

#PER CHI AMA: Doom/Psych/Sludge
Siamo in un cimitero di provincia in pieno medioevo, in una fredda notte d’inverno. Il velo che separa la vita e la morte è stato squarciato e un druido sta evocando un potente demone del mondo antico di nome Astaroth, principe degli inferi e braccio destro di Satana. Il freddo penetra nelle ossa, c’è odore di polvere, terra bagnata e fumo da combustione. È questo lo scenario in cui la musica di 'The Cult of Astaroth' ci catapulta senza troppi giri di parole, supportata egregiamente dall’artwork di Luca Solomacello. Si tratta del secondo album dei bolognesi Three Eyes Left edito per Argonauta Records, un concentrato di doom, psych e sludge, influenze che si fondono in un vortice di oscurità che trasuda esoterismo e magia nera. La prima traccia “Sons of Aries” apre con un leggero arpeggio di chitarra acustica particolarmente adatto ad accompagnare una seduta di meditazione che si riversa poi in un tetro ambiente cimiteriale dove solo una voce femminile ci guida tra le tombe diroccate e tra gli intricati sentieri illuminati fiocamente dalla fiamma di alcune candele che resistono al vento freddo della notte senza mai spegnersi. L'incantesimo però viene subito turbato da una cascata di valvole saturate che declamano pesanti riff doom sovrastati da quella che sembra la voce di Ozzy, tanto somigliante da chiedermi se effettivamente non stia ascoltando i Black Sabbath. Il viaggio continua con “You Suffer...I, The Evil Dead”: dopo un’evocativa apertura degna dei migliori film horror con un traballante carillon, inaspettatamente compaiono i primi attacchi di growl a contrasto con la sensazione di proto-doom che il disco nella sua interezza porta con sé. Personalmente è il mio pezzo preferito, racchiude l’essenza profonda del lavoro ed è costellato di accorgimenti sonori interessanti come l’utilizzo di metriche particolari (il tema principale si sviluppa su 10 quarti), la presenza di assoli allucinatori e gli spiccati connotati ancestrali ed esoterici della voce. Si tratta evidentemente di un rituale, una serie di formule che se ripetute nella giusta sequenza, possono portare energie che abitano altri mondi in visita nel nostro. Ripensandoci questo potrebbe facilmente essere il rituale che il druido in copertina sta celebrando per riportare in vita gli antichi demoni che andranno a riprendersi ciò che gli spetta dal mondo dei vivi. Il disco prosegue imperterrito navigando tra profondi mari sconosciuti, cieli in tempesta eterna e distese di terra spoglia a perdita d’occhio. Il viaggio non è privo di ostacoli, non è facile infatti rimanere agganciati ad un percorso di quasi 70 minuti, gli oscuri anatemi sepolcrali dei Three Eyes Left continuano a fluire nelle casse creando una coltre di tenebra spessa e densa tanto da oscurare il cimitero in cui mi immaginavo di passeggiare. Nel momento in cui arrivo all’agghiacciante chiusura “.. And Then God Will Die..” (ho avuto un brivido lungo la schiena solamente a scrivere il titolo di questo pezzo), l’oscurità ha preso il sopravvento, non vedo niente che possa essere umanamente distinguibile, rimane solo la sensazione di essere sospeso in un limbo infinito dove il corpo non esiste più e lo spirito è libero di vagare nei più neri anfratti dell’ignoto. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 75

https://threeeyesleft.bandcamp.com/

venerdì 20 ottobre 2017

Nudist - Bury My Innocence

#PER CHI AMA: Sludge/Post-Hardcore/Doom, Torch, Converge
I Nudist sono una band che sta contribuendo in modo molto pesante a creare cultura e a diffondere la musica estrema in Italia. Non si parla solamente di una proposta artistica ma anche della presenza sui palchi (recentemente si sono esibiti con nomi che pesano tonnellate come Ornaments e Lento) e del marchio Nude Guitars, creato dal chitarrista Gabriele Fabbri nelle sue sinistre Officine del Male nei pressi di Prato. Le Nude, ispirate a brand come Travis Bean ed Electrical Guitar Company, si confermano una delle migliori soluzioni per chi ama vedere i propri coni vomitare ruggine e decibel ad alta radioattività; non per niente si possono ammirare tra le mani di aguzzini del suono come Naresh, degli Hate&Merda e di Zano dei Demikhov. Come se non bastasse, anche il suggestivo e apocalittico artwork di 'Bury My Innocence' affonda le sue radici in profondità nella scena, l’artefice è infatti Luca di SoloMacello, uno staff che tutti dovremo ringraziare ogni giorno per le band che porta in Italia e per la cultura che continua a promuovere. Un mare di lava ed un unico scoglio su cui si staglia un profilo semiumano deforme contro il cielo notturno dimora di neri corvi giganti, questo è quello che si vede tenendo in mano questo LP ed anche all’ascolto, la sensazione che se ne ricava non è poi così diversa. 'Bury My Innoncence' è una miscela super concentrata di punk, post-hardcore e sludge condita da una buona dose di disagio, rabbia, voglia di alzare la voce e di trasmettere sonorità accostabili ai Torch, anche vicine ai Converge per l’attitudine utilizzata e a tratti scorgo potenti lampi di Melvins. Il suono è ruvido e diretto, guidato da una voce oscura che porta parole ancor più nere e sfiduciate. La poetica è anch’essa parte importante dell’opera, una frase tra tutte che mi ha dato i brividi, e tratta dalla vulcanica title track, è stata: “bury my innocence under your faithless ignorance”, una sorta presa di coscienza del fatto che l’ignoranza uccide la purezza dei sentimenti, che è cosa rara perché il mondo ci esorta in tutti i modi a uccidere il bambino che c’è in noi, per farci stare più concentrati, per lavorare e obbedire agli ordini, quando in realtà l’unica cosa veramente importante sarebbe ascoltare quella voce, la stessa voce che ha suggerito ai Nudist di scrivere questo pezzo. La composizione del disco è poi encomiabile sulla scelta delle note e delle metriche; uno dei miei brani preferiti è l’apertura affidata a “Streghtless”, che inizia con un dispiegamento di accordi distorti disposti in modo irregolare su una ritmica quasi militaresca per poi infrangersi contro una rete di arpeggi dissonanti e infernali. Anche "Bloody Waters" con il suo incedere singhiozzante e spietato è sicuramente un’altra prova della capacità compositiva della band. Una menzione va a "Dead Leaves" che porta con sé parole ciniche e disilluse sulla condizione dell’esistenza umana: “we are dead leaves dragged and hurled by the storm” La chiusura è affidata al brano "Drift", il pezzo forse più atmosferico del disco. 'Bury My Innocence' è come l’eruzione di un vulcano, è imprevedibile, brucia in fretta e distrugge qualsiasi cosa si trovi sul suo cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 75

martedì 22 agosto 2017

Postvorta - Carmentis

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Cult of Luna
Quando si parla di post-metal in Italia, non si può assolutamente prescindere dal conoscere i Postvorta. Dopo gli enciclopedici 'Aegeria' e 'Bekoning', due colonne portanti in stile dorico del metal nostrano, i nostri ci offrono un’altra opera degna e figlia diretta dei suoi predecessori: 'Carmentis', edita da Third I Rex in UK e da Argonauta in Italia. Il nome sembra fare riferimento alla dea romana Carmenta, protettrice delle gravidanze e dotata del dono della profezia. Anche l’artwork rievoca lo stesso significato, il feto umano nell’utero richiama infatti il susseguirsi inesorabile del ciclo della vita e della morte nella sua fase di rinascita e di costruzione di un nuovo inizio. Premetto che la mia opinione su questo progetto verrà sicuramente influenzata dal fatto di averli visti live svariate volte e aver condiviso con loro il palco, ma credo questo sia solamente una conferma della qualità musicale e dell’imperturbabile identità artistica che i Postvorta portano avanti da parecchio tempo. Veniamo al dunque, 'Carmentis' è un porta d’entrata per l’universo del nulla, è un tempio all’ignoto e alla catarsi, dove ogni forma di pensiero umano si sgretola davanti alla maestosità estemporanea del suono. I pezzi principali sono incorniciati da due tracce soniche "15" e "13", rispettivamente intro e outro del disco, a rafforzare l’approccio post alla stesura dell’opera. In "15" si percepisce subito una voce femminile che danza assieme ai suoni ancestrali delle chitarre, a richiamare di nuovo il tema della maternità e della rinascita. Le colonne portanti dell'album poi sono i tre brani centrali, che assieme sommano a quasi 35 minuti. "Colostro", il primo dei tre, inizia con un breve ambiente sospeso a tratti quasi rassicurante, che ricorda “Carry” degli Isis, sostenuto solo dalla batteria e da pochi eterei intrecci di note. Il brano presto divampa come un incendio estivo alimentato dalla voce decisa e imperiosa di Nicola che si staglia sulla struttura di cemento armato, alluminio e ghiaccio creata dalle tre chitarre e della solida sezione ritmica dei Postvorta. Non pensare ai Cult of Luna all’ascolto di questo pezzo ed in generale di questo disco, sembra quasi impossibile. La sensazione è quella di entrare nella sala del trono di un monarca antico e dimenticato, inginocchiarsi a lui con rispetto e devozione per ascoltare i suoi ordini impastati nell’eco dell’alto soffitto della sala. La volontà del Re è guerra, morte e distruzione ma si percepisce la sua infinita saggezza forgiata da innumerevoli battaglie che convive con l’esasperato senso di appartenenza alla propria gente e ad un profondo amore verso i propri sudditi. Alla fine del pezzo si sente l’aria fredda che entra dagli spifferi delle vetrate dietro il trono e mi accorgo di non essere più in ginocchio ma seduto, da suddito sono diventato il Re stesso. "Cervice" mi catapulta direttamente sul campo di battaglia, gli eserciti sono schierati e marciano attraverso una landa desolata ed ostile. Il bagliore delle armature e il rumore ritmato della marcia inondano la valle, pare invincibile la mia armata, niente e nessuno potrà mai sconfiggere un tale dispiegamento di forze. Tornano gli ambienti onirici che levitano a mezz’aria per poi tornare a tuffarsi nel fango di sontuosi riff sludge fino ad arrivare alla coda dronica dove le melodie si distruggono e si gettano nel pezzo successivo, "Patau". L’immaginario a questo punto subisce un lieve turbamento, il pezzo è il più travagliato e il più potente del disco, come se l’esercito antico avesse inaspettatamente incontrato il proprio nemico. Non sembra tuttavia essere l’orda di selvaggi sanguinari che vuole invadere le terre del Re, ma una violenta e implacabile tempesta di ghiaccio e neve che sorprende l’accampamento nel cuore della notte. Il vento taglia la pelle, ghiaccia i cavalli e scoperchia le tende. I soldati non possono nulla, le armi di ferro non hanno nessuna utilità. Rimane solo accettare il proprio destino e soccombere alla forza infinita della natura che così come ci ha creato, ci può distruggere in un soffio. Il disco si chiude con "13" e i suoni di archi antichi e note desolanti, come a rimirare alla luce dell’alba, il campo di battaglia per l’ultima volta. Una valle cosparsa di cadaveri congelati, di armi intatte e animali morti coperti da una coltre bianca immacolata. Il silenzio regna sovrano, non una goccia di sangue è stata versata. Onore ai Postvorta. (Matteo Baldi)

(Third I Rex/Argonauta Records - 2017)
Voto: 80

https://3rdirex.bandcamp.com/album/carmentis

domenica 25 giugno 2017

Kynesis - Pandora

#PER CHI AMA: Experimental Post Metal
Il roster dell'Argonauta Records si arricchisce di un'altra interessantissima band, peraltro italiana, e solo per questo non posso che esserne felice. I Kynesis arrivano da Torino, e sono un quintetto che con 'Pandora' arriva alla loro seconda fatica. Ipotizzo che i testi vertano sull'omonimo mito, purtroppo non sono disponibili; per quanto riguarda il genere proposto, direi che un primo riferimento potrebbe vagamente ricondurre al post metal, però c'è qualcosa nella musica dei nostri che mi spinge altrove, ma non ho ancora ben realizzato dove esattamente. L'ascolto di "Risveglio", opening track della prima parte dedicata all'inconsapevolezza, strizza sicuramente l'occhiolino a sonorità post, vuoi per la profondità delle chitarre o per le desolanti aperture malinconiche, ma le derive in cui la band va incontro, non sono propriamente quelle di Neurosis o Isis, almeno in questo punto. Se proprio dovessi scegliere un nome di riferimento, citerei i Cult of Luna, ma credo sia piuttosto dettato dalla presenza di Magnus Lindberg alla consolle anziché per una reale influenza della band svedese. Anzi ne sono fermamente convinto, ascoltando e riascoltando il cd, i Kynesis mostrano infatti una personalità ben definita che lungo le otto tracce di questo lavoro, ha modo di convogliare verso lidi progressivi, dark ed alternativi (penso a Tool e Deftones a tal proposito), non disdegnando tuttavia qualche rarissima accelerazione in territori post black. Ascoltando la seconda traccia, "Insidia", non si può rimanere insensibili agli innumerevoli umori messi in scena dall'ensemble piemontese, che si configurano attraverso cambi di tempo e d'atmosfera, ma anche dal modo di cantare del vocalist Ivan Di Vincenzo. Nella traccia troviamo alla fine un po' di tutto, addirittura echi di un suono mediterraneo che chiama in causa anche gli In Tormentata Quiete. E andando avanti nell'ascolto di 'Pandora' non si può rimanere che affascinati da un sound in continua progressione, capace di regalare sempre più spunti di originalità. Notevoli le divagazioni noise droniche di "Tentazione", un brano in stile Infection Code, che aveva in realtà aperto con una vena punk. La voce di Ivan di certo contribuisce a creare un po' di disordine cosmico tra urla sempre intellegibili ma quasi soffocate, ed un cantato pulito più meditativo. Un intermezzo ci accompagna alla seconda parte del disco dedicato alla perseveranza e aperto da "Illusione", una traccia che sin dall'inizio si rivela ombrosa, con il frontman che nella sua veste più decadente, ha modo di gridare in ogni modo, pulito, sporco, gutturale e soffocato, e presenta poi un riffing qui davvero volto al post metal, anche se privo di una vera linearità. Forse nell'elevata imprevedibilità della band giace il reale punto di forza del quartetto italico e ad una capacità di mettere in scena svariate idee, anche solo attraverso il suono di un improvvisato dung-chen, la tromba telescopica tibetana simile al suono del didgeridoo ("Cenere"), accompagnato da un parlato freddo e angosciante, da una ritmica tanto minimalista quanto eterea e suggestiva, e da un cantato, sempre in lingua madre, che forse qui trova il suo punto più alto, sia in chiave pulita che urlata. Le chitarre nel frattempo brandiscono riff più esasperati anche se poi è l'egregio lavoro ai synth ad impreziosire la performance dei nostri che quando pestano sull'acceleratore, sanno anche far male, ma che a mio avviso risultano poi più efficaci (e ribadirei originali) nelle parti più cerebrali. Vuoi per il titolo, ma "Catarsi" esplora quei territori darkeggianti che menzionavo poco sopra, con il basso che gioca un ruolo importante nell'equilibrio di una song che vive ancora una volta di saliscendi umorali che ci accompagneranno fino all'epilogo finale, "Sospiro", l'ultimo atto di un disco entusiasmante che vive il suo ultimo sorprendente slancio, con una song in bilico tra shoegaze e post rock, in cui compare anche una voce femminile, ma non aspettatevi nessuna voce eterea, ricordatevi che i Kynesis sono fatti a modo loro, dannatamente originali e... Sublimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 80

https://kynesisband.bandcamp.com/album/pandora-2

martedì 4 aprile 2017

Goodbye, Kings - Vento

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Vanessa Van Basten
Da quando Argonauta Records si è affacciata sul mondo della musica, parecchie band meritevoli di attenzione sono venute a galla ed i Goodbye, Kings (GK) sono sicuramente una tra queste. Originari di Milano, il sestetto ha esordito nel 2014 con l'autoproduzione 'Au Cabaret Vert', importante meta raggiunta tramite un primo EP e una demo, che lasciavano già intendere che non ci troviamo di fronte ad un progetto banale. I GK sono un piccolo esercito votato al post rock e non solo, pur dovendo confrontarsi con una scena italiana ed internazionale assai attive, riescono a distinguersi con uno stile raffinato e trascendentale che ricorda i Godspeed You! Black Emperor ed i King Crimson. "How Do Dandelions Die" è la prima traccia di 'Vento' e grazie ad uno sviluppo in crescendo con grosse reminiscenze prog, ammalia l'ascoltatore con suoni perfettamente bilanciati ed atmosfere eteree. Il lieve soffio del vento iniziale ci colloca al di fuori della nostra reale posizione, sopra una nuda scogliera a picco sull'oceano calmo del mattina, mentre il tocco leggero sulle corde di chitarra fanno riemergere ricordi lontani come un grande cetaceo che torna in superficie accompagnato dallo sbuffo liberatorio. Gli accordi distorti di chitarra sopraggiungono lentamente per dare man forte ad una struttura ripetitiva ed ipnotica. In "Shurhuq" si progredisce di livello, e l'opera diviene un ensemble minimalista dove il pianoforte diviene il protagonista della sua stasi, colma di tristezza ed in cerca di un pertugio di salvezza. La naturale continuazione sfocia in "The Tri-state Tornado", con basso e batteria che si fondono in un grande ed unico battito che accelera per lasciare poi spazio alle chitarre. Queste proseguono nella ripetizione ciclica del loro riff per poi calare, tornando al battito di apertura che scema nella chiusura del piano. Molto bello il duetto finale tra quest'ultimo e la chitarra pulita. La magnum opus è probabilmente "The Bird Whose Wings Made the Wind", una canzone di ben quindici minuti che riassume il concept dell'album. Ritornano le folate di vento, una timida chitarra si fa spazio tra la forza della natura e vince grazie alla sua caparbietà, come una goccia che scava nella dura roccia grazie allo scorrere del tempo. Tutto è semplice, emozionale fino al midollo, una lunga sonata che s'innalza progressivamente scavando nel nostro io primordiale. La seconda parte si arricchisce della sezione ritmica fatta dal basso che coesiste visceralmente con la grancassa adibita a cuore pulsante dell'intera struttura. L'incursione delle chitarre, distorte e volutamente distanti, aggiunge grinta in forma eterea ed effimera, una sorta di sogno iperrealistico che la mente dell'ascoltatore forgia a suo piacimento fino alla conclusione in fade out che affida la chiusura alle sferzate del vento. "12 Horses" è il brano più carico, l'incipit è potente e spazza via le precedenti introduzioni shoegaze per lasciar spazio al furore imbrigliato nell'animo dell'esercito battente bandiera meneghina. Il tono si abbassa, il piano duetta con melodie rovesciate dal delay delle chitarre, generando una ritmica complessa e impossibile da solfeggiare, ma poi il tutto si distende con brevi sprazzi lineari. Se 'Vento' è appunto un concept album incentrato su questo elemento naturale, il brano in questione è sicuramente la sua rappresentazione in termini di potenza ed energia. In generale l'album ricorda i passati Vanessa Van Basten, un duo genovese che ha lasciato un segno indelebile nell'undergound italiano, di cui i GK hanno saputo far tesoro degli insegnamenti. Un lavoro semplice, dal grande impatto sonoro ed emotivo, eseguito con passione ed estrema cura nell'uso dei suoni. Da vedere in concerto, sicuramente un'esperienza unica da assaporare sospesi tra sogno e realtà. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://goodbyekings.bandcamp.com/

lunedì 13 marzo 2017

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

giovedì 12 gennaio 2017

Naat - S/t

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal strumentale
Argonauta non si stanca mai di veleggiare verso i mari più impetuosi e sconosciuti. Stavolta sono approdati ad un’isola nel bel mezzo dell’oceano dal nome NAAT. Si tratta di quattro talentuosi ragazzi genovesi con in testa l’abisso. La proposta sludge post metal strumentale convince e affascina, a cominciare dalla copertina del disco: un braccio senza il corpo che gocciola sangue su una città in rovina. Lo sfondo è giallo ocra, come se fosse un’istantanea sbiadita ritrovata sotto un cumulo di macerie. Sembra che ci sia stato un disastro senza precedenti che ha cancellato ogni ombra di civiltà e di vita dalla faccia del pianeta. Probabilmente una guerra causata dall’uomo che con la sua avidità e cupidigia è riuscito (finalmente) ad autodistruggersi. Rune e frattali poi decorano il retro ed il cd, scelta sobria ed elegante che va a conferire all’opera quell’aria di mistero proprio dell’abisso. E proprio di abisso vorrei parlarvi perché penso sia la chiave di questo splendido omonimo disco di debutto. Fate attenzione a premere play, con il pezzo di apertura “Vostok” verrete subito catapultati nel fondo più oscuro dell’oceano dove solamente poche forme di vita riescono a sopravvivere. In un ambiente così inospitale manca l’ossigeno e la pressione è talmente forte da far implodere qualunque cosa si avventuri così in profondità. Ah e ovviamente, il buio è totale. “Falesia” continua l’esplorazione tra grotte sotterranee senza uscita e mostruose creature di cui l’uomo ne ha sempre ignorato l’esistenza. Con “Temo”, traccia sonica intermedia, si torna per un momento sulla superficie devastata della terra: auto, case, fabbriche, palazzi, tutto dimenticato, tutto tramutato in ruggine, calcinacci e polvere. Un polvere così densa da ostruire le vie aeree di qualsiasi creatura che respiri, da ostacolare la luce del sole privando anche le piante del loro nutrimento vitale. L’acqua offre l’unico riparo possibile da quell’aria malsana e dalla terra avvelenata e il baratro profondo dell’oceano è il solo rifugio che la vita può trovare. “Baltoro” è il mio pezzo preferito del disco, sette minuti di cinica lucidità senza tregua, tra slanci atmosferici vicini al black e riff sludge inconsulti, incastrati e ansiogeni. Una song che rimane e che lascia la voglia di vedere come la band riesca a trasporre tutte queste sensazioni dal vivo. Segue “Bromo”, altra traccia di passaggio stavolta un po’ più lunga che ha il proposito di traghettarci all’ultimo disperato assalto dei due pezzi “Dancalia” e “T’Mor Sha”. Il primo è più destrutturato, con un incedere cadenzato e suoni diradati che si addensano dopo cinque minuti per tornare poi a svuotarsi; il secondo, decisamente più violento, racchiude tutta la rabbia e la potenza dei NAAT ma anche l’attitudine all’arrangiamento e alla composizione sempre originale e mai scontata, la degna chiusura dell’opera. Un’ultima riflessione sul progetto riguarda la sua natura strumentale, per molte band di questo tipo la mancanza di una voce si fa sentire ma non in questo caso: gli intrecci fantasmagorici di chitarre e le ritmiche ancestrali e dionisiache, riescono infatti a sostenere e a completare la musica senza bisogno di aggiungere altro. Sarà forse perché sul fondo dell’abisso il suono non si propaga e gridare fino a lacerarsi le corde vocali non servirebbe a rompere il silenzio che nel profondo regna sovrano. Oppure sarà che in questo disco la volontà di potere e controllo dell’uomo ha portato la nostra specie ad una fulminea autodistruzione; quindi niente più civiltà, niente più uomini e niente più voce. (Mattei Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://naat.bandcamp.com/

venerdì 4 novembre 2016

Varego - Epoch

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Baroness, Voivod, Mastodon
I Varego sono una band centrata e convinta delle proprie idee, non scendono a compromessi se non a quelli di fare esattamente ciò che l’anima comanda. 'Epoch' trasuda passione e amore quasi paterno, un disco fortemente voluto e con alle spalle un grosso lavoro. La copertina parla chiaro, una maschera di pietra, probabilmente un idolo pagano, affiancato dalla dea dell’oscurità e dalla dea della luce con due mezzelune come orecchini. Un altare votivo, una nicchia a cui inginocchiarsi e invocare la grazia e la potenza del dio del metal, la cui forza scorre vigorosa nelle vene dei Varego. Non solo di misticismo vive 'Epoch', bensì anche di potenti assalti ferrosi e taglienti, come l’apertura di “Alpha Tauri” che rompe l’iniziale intro incantato, comunque dotato di una vena oscura. Si tratta di un impeto di una legione di guerrieri a cavallo contro un esercito di orchi sanguinari. Mentre la battaglia infuria tra fangosi riffoni sludge e ostili ambientazioni psichedeliche, una voce si staglia su tutti i combattenti enunciando formule magiche con voce piena, un’invocazione a dei pagani per propiziare la vittoria. A seguire, oltre ad una vallata piena di cadaveri di guerrieri, orchi e cavalli accatastati uno sopra l’altro, arriviamo al pezzo più rappresentativo del disco, “Phantasma”. Di nuovo la chitarra di Gero introduce con note maligne ad un’ambientazione dal sapore antico e macabro, come un assalto di un vascello pirata ad un mercantile pieno d’oro: coltelli tra i denti, vecchi archibugi e palle di cannone. La ciurma di bucanieri si lancia sulle vittime impotenti trucidando, saccheggiando e distruggendo. Dietro rimane solo una scia di sangue e l’eco delle grida di terrore. Una volta che il bottino è stato conquistato, si cancellano le prove incendiando quella che oramai è solo una grande pira funeraria destinata a vagare per gli oceani senza meta alcuna, per l'eternità. Fortunatamente noi invece possiamo veleggiare alla terza traccia “Flying King”, pezzo in cui l’influenza dei Mastodon e dei Baroness (e Voivod/ndr) si rende più evidente e completa piacevolmente gli scenari oscuri fin qui descritti. La distorsione esce dagli auricolari come onde dell’oceano che si infrangono sulla spiaggia, cadenzate ed inesorabili, accompagnate da una voce a tratti supplichevole, a tratti decisa e potente ma sempre con una presente aura mistica e sacrale. Una voce robotica affogata in un tappeto di noise drone ci trasporta alla seconda parte del disco, forse più sperimentale della prima parte. Dopo “Cosmic Dome” troviamo “Swarms”, personalmente il mio pezzo preferito del disco, una song originale e compatta, che può considerarsi come la summa del Varego pensiero, che ben rappresenta tutte le caratteristiche della band. La voce dello stregone continua imperterrita a lanciare anatemi, che si concretizzano in bordate sludge e ritmiche cadenzate adornate da arpeggi distorti e distrutti. Il culmine lo si raggiunge nell’ultimo minuto col rilascio di una tensione che cozza con il resto del pezzo dotato di un carattere visionario, etero e quasi rassicurante, da pelle d’oca. 'Epoch' termina con un commiato violentissimo, come se tutto il disco implodesse su quest'ultimo rabbioso “Dominion”. Quando il lettore si blocca la sensazione è quella di aver viaggiato nel tempo, partecipato ad eventi fantastici mai accaduti, aver battagliato, navigato per mare, aver impersonato divinità dimenticate e soprattutto essere tornati alla realtà sani e salvi, poter ricordare e trasmettere l’esperienza vissuta. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://varego.bandcamp.com/album/epoch

giovedì 29 settembre 2016

lunedì 26 settembre 2016

Dee Calhoun – Rotgut

#PER CHI AMA: Rock Acustico
Non è raro che chi suona in band di musica hard decida ad un certo punto di esprimersi in un ambito apparentemente lontano da quello abituale, pubblicando dischi per lo più acustici, quieti, intimi. Basti pensare ad esempio ai Neurosis e alle uscite soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, a Wino o al “nostro” Stroszek. Alla lista si aggiunge anche "Screaming Mad" Dee Calhoun, da qualche anno voce della storica band doom degli Iron Man. Il suo esordio da solista esce per l’etichetta ligure Argonauta Records ed è un lavoro sicuramente interessante, per i fan della band madre ma non solo. 'Rotgut' è un disco prettamente acustico, scritto, suonato e cantato in modo totalmente autarchico dal buon Dee, ad eccezione di qualche parte di armonica e violoncello. Quello che emerge in maniera preponderante è la voce di Calhoum, potente e versatile, al di là di quanto già sentito negli Iron Man. Il nostro è in grado di scegliere tra più registri e risultare comunque convincente, sia quando aggredisce il microfono con tono rauco che quando fa volare le sue corde vocali in alto in modo sorprendentemente limpido. Musicalmente i brani si muovono tra atmosfere alla Alice in Chains acustici ("Unapologetic", "Babelwoka"), western-blues polverosi ("Backstabbed in Backwater", "Cast Out The Crow"), ballate toccanti ("At Long Day’s End") e suggestioni folk ("Winter: A Dirge"). Ci sono poi brani meno definiti, in cui Calhoum sfoggia un approccio forse un tantino epico e che in generale appaiono un po’ troppo prolissi ("The Train Back Home") e c’è anche spazio per un omaggio al figlioletto (che canta con lui) nella prescindibile "Little’Houn, Daddy ‘Houn". La resa sonora non è impeccabile, ma quest’aria da demo casalingo contribuisce ad accrescere quel senso di spontaneità che fa bene ad un album sincero ed appassionato, cui avrebbe sicuramente potuto giovare una nemmeno troppo generosa sforbiciata nel minutaggio. (Mauro Catena)