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venerdì 31 marzo 2017

Dinosaur Jr. - Give a Glimpse of What Yer Not

#PER CHI AMA: Psych Rock
Se ancora non vi siete stufati, ritroverete quel ruvido fuzz-chitarrismo ormai giurassico (junior) e quell'inconfondibile melanconismo rauco alt-prepensionistico da nonno freak (poco) carino e (evidentemente non) disoccupato. Il songwriting di J Mascis è tuttora fervido di consolidate ed elementari melodie domestiche eppure moderatamente avvincenti (dappertutto, ma soprattutto nelle iniziali furbette "Going Down" e "Tiny") e passaggi chitarristici tra il buono ("Be a Part") e l'ottimo ("I Walk for Miles"). Insolitamente all'altezza i due contributi del riottoso gregario Lou Barlow (soprattutto "Love is..."). Se ancora, dopo tutti questi anni, il vostro morbido cuoricino di flanella fa tum-tum quando passano in radio i figliocci prodighi Dave Grohl e Morgan Shaun, allora ascoltatevi questo disco e poi sparatevi tutta la prima serie di Friends in DVD. Probabilmente non vi ricordavate che Lisa Kudrow fosse così carina, nella prima stagione. (Alberto Calorosi)

(Jagjaguwar - 2016)
Voto: 75

http://www.dinosaurjr.com/

giovedì 30 marzo 2017

Apostasy - Devilution

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black, Dimmu Borgir, Emperor
C’è poco da fare, da sempre i gruppi capaci di suonare black sinfonico, con una certa classe, si contano oramai sulle dita di una mano e di certo gli Apostasy non fanno parte di questa elite. Devo ammettere però, che la band svedese s’impegna non poco per conquistare l’attenzione del pubblico che, come me, acclama a gran voce il ritorno di un genere reso sicuramente celebre da 'Enthrone Darkness Triumphant' dei Dimmu Borgir, ma che in precedenza, aveva visto come maggiori esponenti gli Emperor. Che dire degli Apostasy? È una band che nonostante il discreto esordio del 2003, 'Cell 666', col secondo lavoro datato 2005 si mostra ancora acerba e con idee un po’ troppo scontate e stra-abusate. A parte qualche raro momento, in cui i nostri riescono a catalizzare maggiormente l’attenzione, e dove emergono anche vampiresche influenze alla Cradle of Filth, 'Devilution' si assesta su livelli di sufficienza risicata. Positiva la prova del cantante, mai piatto nella sua performance, in grado di spaziare dal growl allo scream per concludere con una voce più filtrata in stile The Kovenant/Arcturus negli ultimi pezzi dell’album, che mostrano una vena sonora leggermente più avantgarde, che strizza l’occhiolino alle già citate band norvegesi. Banali alcuni passaggi di tastiera, salvabile la ritmica, mai troppo ammiccante nei confronti dell’ascoltatore, qualche discreto assolo fanno di 'Devilution' un album che sta nel mazzo. In complesso, si tratta di un cd che vive di alti e bassi che, alla fine, non è del tutto da buttare. (Francesco Scarci)

(Black Mark Production - 2005)
Voto: 60

https://www.facebook.com/apostasysweden

mercoledì 29 marzo 2017

Coprofago - Unorthodox Creative Criteria

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Cynic, Atheist, Meshuggah
Quest’album è pazzesco, peccato solo sia stato l'ultimo vagito dei Coprofago, prima dello scioglimento nel 2005 (si sono riformati però nel 2014, per cui attendo fiducioso). Con il loro terzo lavoro i quattro cileni si confermano una band di fuoriclasse. Avevo già apprezzato i nostri con il precedente 'Genesis', datato 2000 e, non avendo più sentito parlare di loro, li avevo dati per sciolti. Invece, dopo un lustro ecco arrivare questo spettacolare 'Unorthodox Creative Criteria', platter capace di fondere un death supertecnico, in pieno “Florida style“, con un sound che indubbiamente si rifà ai Meshuggah e al loro malatissimo 'Destroy, Erase, Improve', ma non solo: la cosa che rende veramente notevole il terzo disco dei Coprofago non è tanto l’accostamento ai gods svedesi, ma l’abilità nell’inserire ammalianti inserti jazz/fusion, in grado di far accapponare la pelle, come solo i migliori dischi jazz del passato erano in grado di fare. Qui c’è una grandissimi abilità compositiva, che si accompagna ad una eccelsa tecnica individuale e ad un buon gusto per le melodie. L’unico neo che rimane al quartetto sudamericano, è l’inappropriato, quanto mai ridicolo moniker, che a mio avviso tende a sminuire il valore della band, anche perché, il nome, abbastanza fuorviante, è associabile a qualche grottesca death gore band. Ottimamente prodotti, i Coprofago potevano essere pronti a spodestare dal trono i maestri del genere grazie alla loro classe, ai pesanti riffs sincopati, alle voci vetrioliche, ad un incredibile basso slappato, ad una batteria ipertecnica e a momenti psichedelici di rara bellezza. Se avevate nostalgia dei tecnicismi degli Atheist, dei momenti jazz alla Cynic, se non siete ad oggi sazi della follia dei Meshuggah o vi manca la brutalità melodica dei Death, bene allora 'Unorthodox Creative Criteria' non deve mancare nella vostra collezione. Precauzioni per l’uso: l’album è di difficile presa, servono diversi passaggi nel vostro stereo, per poter essere digerito, ma dopo, ve lo garantisco, non ne potrete più fare a meno... (S)Co(i)nvolgenti (Francesco Scarci)

(Sekhmet Records - 2005)
Voto: 80

https://www.facebook.com/OFFICIALCOPROFAGO/

lunedì 27 marzo 2017

Adamennon - Le Nove Ombre del Caos

#PER CHI AMA: Colonne Sonore/Psichedelia, Goblin
Abito a Como ormai da parecchi anni ed ignoravo completamente l'esistenza di questa band, gli Adamennon. Non certo gli ultimi arrivati poi, visto che il "titolare" della band (trattasi di una quasi one man band) è in giro dal 2006 e in questi undici anni ha fatto uscire parecchi lavori, split e quant'altro, frutto di collaborazioni con vari artisti. Eccomi quindi fare la conoscenza con Mr. Adamennon e con il nuovo album 'Le Nove Ombre del Caos', Colonna Sonora Originale di un ipotetico film mai girato. Il titolo, per quanto mi riguarda, ma lo sarà anche la tastiera introduttiva, è un manifesto programmatico dell'artista lariano, un inno ai Goblin, un tributo a Dario Argento e a tutta la filmografia horror italiana degli anni '70. Avrete pertanto intuito che ci troviamo di fronte a malsane atmosfere ambient, paurose come i film dell'allucinato Dario, quelli però più a sfondo psicologico direi, come 'L'Uccello dalle Piume di Cristallo' o 'Il Gatto a Nove Code', per cui c'è anche una simbologia ricorrente nel numero nove con l'album di quest'oggi. E allora immergetevi insieme a me nelle terrificanti ambientazioni di "Un Sospiro nel Profondo Nero", dove il richiamo alla band di Claudio Simonetti è davvero importante. Con la successiva "Il Felino dallo Sguardo che Arde", le orchestrazioni da chiesa si fanno più forti e si accompagnano a voci corali e recitative, mentre la musica viene guidata dall'angosciante incedere di un magniloquente organo. Delicati tocchi di un nostalgico pianoforte aprono "Il Museo delle Anime Perse", una traccia che subisce un'evoluzione quasi inattesa: la song infatti, pur mantenendo intatto il suo pattern tastieristico, dà maggior spazio alla batteria e soprattutto ad uno screaming tipicamente black. Tra il grottesco e il faceto, ecco arrivare "La Giostra del Folle", un carillon maledetto che però suona molto simile ad una traccia contenuta nell'ultimo album dei Thee Maldoror Kollective, ormai datato 2014. Molto più convincente e soprattutto assai più roboante, "Dalle Fauci al Ventre della Bestia Nera", grazie ad un sound grosso, corposo, avvolgente, drammatico, malinconico, ipnotico e lisergico, in quella che forse è la canzone che più mi ha coinvolto dell'intero album. Il lato B del cd (è riportato cosi sul digipack) apre con la litanica "Incontro e Scontro con la Paura", una song che induce fenomeni paranoici a livello cerebrale, forse a causa di una certa ridondanza sonora, a cui si aggiungono voci pulite in background che si mischiano ad urla disumane. Si scivola lentamente verso la fine del disco con un'altra song dal flusso un po' ubriacante, "La Sconfitta al Pozzo di Sangue", fatta di suoni sbilenchi e urla dannate in sottofondo. L'ultimo atto, tralasciando la pianistica "La Caduta nel Perpetuo Oblio", è affidata alla lunghissima e sacrale "Il Risveglio Nella Morte Universale/Le Nove Ombre del Caos", cantata in latino e italiano, in una sorta di celebrazione ritualistica davvero suggestiva e solenne, affidata quasi interamente ai tastieroni del mastermind comasco e alle vocals del compagno di ventura Maximilian Bloch, responsabile dei synth, del pianoforte e delle voci corali del disco. La seconda parte del brano raccoglie poi influenze ed interferenze drone per un finale delirante, una degna conclusione di un disco sperimentale da godere spaventati, nella penombra della propria casa. (Francesco Scarci)

domenica 26 marzo 2017

The Pit Tips

Francesco Scarci

Gloson - Grimen
Rosk - Miasma
Mord'A'Stigmata - Hope
 

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Michele Montanari

Mothership - High Strangeness
Mood - Out Loud
Trentemøller - Fixion
 

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Don Anelli

Daemoniac - Spawn of the Fallen
Aborted Fetus - The Art of Divine Torture
Hellion Prime - Hellion Prime
 

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Kent

The Denver Gentlemen - Introducing... The Denver Gentlemen
William Basinski - A Shadow In Time
Slim Cessna's Auto Club - Unentitled
 

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Five_Nails

Allegaeon - Proponent for Sentience
Altar of Betelgeuse - Among the Ruins
Pelican - Ataraxia/Taraxis

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Caspian Yurisich

Wytch Hazel - Prelude
Warbringer - Waking into Nightmares
Grouper - Dragging a Dead Deer up a Hill

Winterkyla - Uppland

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Dispatched
L'Uppland è una provincia della Svezia, collocata nella regione dello Svealand, che include peraltro la capitale Stoccolma. Il titolo di questo EP di debutto vuole essere verosimilmente un tributo alla terra d'origine del mastermind che sta dietro a questa nuova band svedese, i Winterkyla. Le informazioni disponibili sul nostro nuovo eroe sono però assai limitate: si sa solo che Requiem è colui che governa questa gelida creatura nordica (il significato del monicker dovrebbe essere infatti raffreddamento invernale) e che ci propone, nelle cinque tracce contenute in 'Uppland', un black per lo più atmosferico. Si parte però con il sound rock progressive di "Frystad", il che farà storcere il naso a coloro che, poco sopra, avevano letto di una proposta all'insegna del black. Siate fiduciosi, perché superato l'impatto iniziale, peraltro assai piacevole, il factotum scandinavo si lancia con "At the Mountains of Madness" con una proposta che a livello di melodie sembra richiamare i Windir, mentre quel suo cantato nevrotico, mi ha ricordato i Dispatched. La canzone però è assai eclettica e si passa da un inizio assai tirato ad una seconda parte più compassata, che lascia intravedere spiragli di grande potenzialità che per ora rimangono non del tutto espressi, ma che se esplorati adeguatamente, potrebbero anche far gridare al miracolo. La terza parte della song riprende quella furia iniziale, che viene stemperata dall'interludio militaresco della terza track. "Winter in Bloom" ha un'introduzione carica di suspense, con un approccio molto vicino alla colonna sonora di un qualche film giallo; poi partono le galoppate in tremolo picking, i blast beat e le screaming vocals, in quella che è la traccia più violenta del disco. Ancora keys minimalistiche in apertura della title track, ultima song del dischetto (che dura comunque la bellezza di 27 minuti), accompagnate da una chitarra che disegna una trama che non definirei proprio lineare ma che mostra un carattere quasi sperimentale, in una traccia dove il cantato, forse il punto debole dei nostri, è fortunatamente messo da parte. I Winterkyla alla fine sembrano avere buone idee che se convogliate nella giusta direzione potrebbero rivelarsi addirittura originali. Come assaggio comunque 'Uppland' non è affatto male; ora, se volete il cd, fate presto, c'erano 50 copie e una l'ho già presa io. (Francesco Scarci)

giovedì 23 marzo 2017

God's Empire - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post, The Gathering, Tool
È sorprendente come due individui, appartenenti a due generi fondamentalmente distanti anni luce tra loro, si siano incontrati dando vita ad un terzo genere, che con i due precedenti non centra ancora una volta assolutamente nulla (o quasi). Stiamo parlando dei francesi God's Empire, duo formato dal chitarrista Jérôme Colombelli (membro di Uneven Structure e di Cult Of Occult, altre due band agli antipodi, una djent e l'altra al limite del funeral doom) e Anne-Sophie Remy (Room Me), una vocalist cresciuta ispirandosi a Patti Smith e PJ Harvey. Questo è il loro EP omonimo uscito da poco autoprodotto, che consta di cinque tracce che strizzano l'occhiolino al versante più alternative della musica rock. Lo si evince già dall'opener "Pleasure" e dal suo rifferama cosi nevrotico che chiama in causa Tool e Deftones, che poco convince però a livello di batteria, sul finire un po' troppo caotica e che mal si inserisce nel contesto musicale creato. L'inizio di "Nightmare" non può non far pensare ai System of a Down, anche se poi l'incedere si fa più cupo e minaccioso, con in primo piano un riffing tosto e ritmato e la voce di Anne-Sophie convincente, ma che lascia ancora intravedere ampi margini di miglioramento. In "Mirrors" si palesa a livello della sei corde un retaggio djent proveniente dagli Uneven Structure, anche se poi quando la vocalist prende la scena, il volume della chitarra sembra abbassarsi, per dare modo ai vocalizzi di Anne-Sophie di elevarsi su tutto il resto, mentre nei cori torna ad irrobustirsi la porzione ritmica dei nostri. "Coma" apre timidamente con la voce di Anne-Sophie che sembra rievocare quella di Anneke Van Giersbergen, ex front-woman dei The Gathering, nei pezzi più malinconici della band olandese; ed è proprio in questa veste più calda che la performance della cantante transalpina si fa ancor più convincente, cosi come la song, decisamente più malinconica delle precedenti. Seppur i due non inventino nulla di che, alla fine è il pezzo che preferisco, perché riesce a bilanciare perfettamente l'aspetto più atmosferico e decadente dei nostri con un riffing a tratti votato al post rock e in altri frangenti, assai più tensivo. Si arriva alla traccia più lunga del disco, "Dark Passenger", ove sono ancora atmosfere rilassate a governarne l'andamento di un brano che, complice una chitarra in tremolo picking, risulterà mostrare un carattere nostalgico e tormentato. Insomma una prima prova quella dei God's Empire che tra luci ed ombre, riesce a mostrare una certa personalità, volubile, eclettica, a tratti indomabile, che comunque potrà convincere quella fetta di fan più aperta a sonorità alternative volte a varie forme di contaminazioni. (Francesco Scarci)

Bathsheba - Servus

#PER CHI AMA: Doom Progressive/Post Black
La recensione di oggi la inizierei partendo dalla terza traccia del disco, "Manifest", song che esprime tutte le potenzialità di questo combo proveniente dal Belgio, dedito ad una raffinata forma di doom, guidato dalla suadente voce di Michelle Nocon. Ma torniamo al brano numero tre di 'Servus', vero manifesto di quella che è la proposta del quartetto di Genk. Il suono dei nostri si mostra drammatico e di certo ispirato ai grandi maestri del passato, Black Sabbath e Saint Vitus in testa, senza scordarci anche Candlemass e Cathedral. Il pezzo, nei suoi oltre 10 minuti, mette in mostra tecnica, l'amore dei nostri per sonorità lente e pesanti ispirate ai seventies, ma soprattutto uno spiccato senso melodico che si esplica attraverso uno splendido assolo "strappamutande" di oltre due minuti che mi ha lasciato interdetto, a bocca aperta, inebetito per cotanta bellezza, e forse proprio per questa mia reazione, ho voluto iniziare da qui, dal momento più elevato di questo disco, per poi tornare indietro e incominciare col parlarvi della opening track, "Conjuration of Fire". Si tratta di una song che combina il doom con un riffing venato di sonorità stoner, con la voce di Michelle che da soave sacerdotessa assume i contorni di strega malvagia, ricordandomi per certi versi Cadaveria negli Opera IX. "Ain Soph" ha un inizio assai vicino ad una tempesta post black prima che i tempi rallentino e un assolo di sax rubi la scena alla front-woman. Un sax che ci conduce in esclusivi jazz club e che dà un ulteriore tocco di classe ad un brano, che nel suo convulso finale, sfodera un altro furente attacco di musica estrema. Si giunge cosi alla quarta e più lineare "Demon 13", ove la streghetta Michelle ci delizia mostrandoci la sua duplice anima, attraverso vocalizzi che si dilettano tra modulazioni pulite e delicate ad altre più terrifiche e arcigne. È con la successiva "The Sleepless God" che la band torna a dipingere paesaggi apocalittici con quella che forse è la traccia più decadente dell'intero lavoro in cui mi preme sottolineare la performance terremotante dietro alle pelli di Jelle Stevens. Si è giunti nel frattempo all'epilogo di quest'ottimo debut album, con la conclusiva " I At the End of Everything", in cui è ancora l'ammaliante (e demoniaca) performance vocale di Michelle a tenere banco in un litanico mantra lisergico che ci condurrà fino alla fine di quest'ipnotico disco, a cui vi conviene dare molto più di un semplice ascolto. (Francesco Scarci)

(Svart Records - 2017)
Voto: 80

https://bathshebakills.bandcamp.com/

mercoledì 22 marzo 2017

Aisling - Aisling/Trath Na Gaoth

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black/Viking, Borknagar, Asmegin
Che soddisfazione per chi come me ha iniziato a scrivere recensioni di demo quasi vent'anni fa, vedere che alcune di quelle piccole band underground, hanno avuto una chance per farsi conoscere da un pubblico più vasto. Gli Aisling sono proprio una di quelle band: l’act triestino, che deve il suo nome alla lingua celtica (significa “Visione Onirica”), raccoglie in un unico cd l’omonimo album del 2002 e il Mcd 'Trath Na Gaoth' dell’anno seguente, completamente rimasterizzati. Il sound dei nostri è un black sinfonico miscelato ad un viking folk assai malinconico che può riportare alla mente 'For All Tid' dei Dimmu Borgir, ma anche lavori di band quali Asmegin e Borknagar. Le dieci tracce incluse sono, per come le percepisco io, un omaggio alle entità naturali: un inno ai venti, alla neve, ai boschi, ai laghi e alle divinità pagane del Valhalla. Nonostante il black metal proposto dall’orchestra triestina (che tra elementi in pianta stabile e guest consta di ben 10 persone) sia grezzo e primitivo, malinconici elementi invernali (il vento, le cornamusa, i violoncelli, chitarre classiche) contribuiscono a rendere il sound melodico e sognante, di facile ascolto anche per chi non ama particolarmente la brutalità del genere. Non sembra assolutamente di aver a che fare con una band italiana, tanto è il trasporto dei nostri nella loro musica nordica e tale è la bravura nel trasmettere emozioni ancestrali di terre distanti. La band è abile nel creare brani vari in fatto di cambi di tempo e di atmosfere che ci catapultano in tempi lontani; tristi melodie ci accompagnano nel corso del disco e si alternano a momenti di inaudita ferocia e ancora a breaks epici dove fanno capolino soavi voci femminili e recitati evocativi. Sono comunque le atmosfere incantate a rendere questo lavoro assai piacevole, a trasportarmi con la mente in un paese di fiaba fatto di castelli e maghi, draghi e guerrieri. Se volete, gli Aisling si possono accostare anche agli inglesi Bal-Sagoth, veri e propri paladini del fantasy black metal o agli Ulver del debut 'Bergtatt' per quei suoi bellissimi arpeggi acustici. Musica fatta col cuore, peccato solo si siano poi persi per strada. (Francesco Scarci)

(Einheit Prod - 2005)
Voto: 75

https://www.facebook.com/OfficialAisling/

martedì 21 marzo 2017

Defy the Ocean - Elderflower

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock, Tool, Soen, Anathema
Due amici, l'amore per la musica e un progetto per unire la loro passione bruciante. Questi sono i Defy the Ocean, nati nella città eterna incubatrice di arte qual è Londra. La band inizia a produrre nel 2010 e dopo due anni lanciano il loro primo EP che riscuote pareri positivi dalle testate nazionali e non. Nel 2016 escono con questo secondo EP autoprodotto che a noi è arrivato in una bustina cartonata grezza al tatto con una una bella grafica. Questa rappresenta un teschio composto da fiori e foglie di sambuco (Elderflower appunto). I Defy the Ocean si definiscono alternative/post rock, a cui aggiungerei anche influenze prog che sfociano in un piacevole mix che deve molto ad Anathema, Karnivool e in parte a Tool e Soen. I due musicisti (chitarra/voce e batteria/voce) sono artefici di suadenti melodie finemente composte ed eseguite, con pregevoli arricchimenti che se ad un primo ascolto sembrano avere un ruolo secondario, ci si accorge poi che sono la struttura portante delle loro composizioni. Ne sono l'esempio brani come "Rest" e "Veil", due ballate lente, dove le voci navigano appaiate ai riff di chitarra che sono preponderantemente pulite o leggermente sporche in distorsione. Uno spleen in chiave moderna che con qualche lieve progressione ci conducono nel mondo dei Defy the Ocean, un paesaggio dove un timido sole lancia strisce di luce attraverso un giardino urbano. "Brine" si arricchisce di un pianoforte che nel mondo del rock dona sempre un look elegante e ricercato, ma che qui è necessario per lasciar respirare gli arpeggi di chitarra elettrica che dovranno sostenere tutto il brano. La ritmica lenta diventa una sorta di mantra che nella sua ostentata ripetizione, ipnotizza l'ascoltatore e nonostante la sezione strumentale esegua il tutto in modo impeccabile, il rischio di essere colti da un attacco di sonnolenza è alto, soprattutto se si prediligono generi più spinti. Per fortuna, in "Vessel" l'approccio cambia, le ritmiche sono leggermente più sostenute e, insieme ad intrecci di chitarra acustica e linee vocali, lo spessore del brano aumenta, con corrispondente soddisfazione di chi sta dall'altra parte delle casse audio o cuffie. Piacevoli le parti con velate influenze mediorientali dovute all'introduzione di un/a chitravina (strumento a corde che ricorda lontanamente il sitar) e l'aumento di enfasi dato dalle distorsioni. 'Elderflower' chiude con "Bones", sette minuti abbondanti che rimangono fedeli allo stile dei Defy the Ocean, i quali approfittano di un lungo stacco ambient a metà, per riprendere il tema iniziale del brano. La band inglese è sicuramente in grado di produrre buona musica che ammaglia l'ascoltatore grazie ad un attento studio dei suoni e degli arrangiamenti, quindi consigliato se cercate un cd da ascoltare in totale relax seduti sulla vostra poltrona preferita o durante un viaggio verso le terre del nord, senza fretta, come piace alla band. (Michele Montanari)

Arkhaeon - Beyond

#PER CHI AMA: Black/Ambient Esoterico
Non so se sia l'influenza della vicina Francia, ma la Svizzera negli ultimi tempi sembra essere un paese in grosso fermento dal punto di vista artistico. La scena musicale pullula di realtà di ogni tipo che vanno dall'indie rock al post metal, fino a giungere quest'oggi a scoprire gli Arkhaeon e il loro black metal esoterico. Dopo aver fatto partire il cd, che consta di un unico brano, "Beyond" appunto, ho avuto un flashback che mi ha riportato ai primi anni '90, quando uscì un'altra band elvetica, i Sadness e il loro magnifico 'Ames de Marbre'. Oggi la storia sembra ripetersi con il black dark di questi Arkhaeon, di cui ben poco si sa: zero informazioni sulla line-up, men che meno sulla loro città d'origine, magari scoprirò che ci sono davvero punti di contatto con quei Sadness, svaniti ahimè nel nulla sul finire degli anni '90. La musica dei nostri sembra terrificante nel suo malvagio incipit, con una scarica di nerissimo black corredato da schizofrenici blast beat, peraltro ovattato da una registrazione non proprio eccelsa. Le vocals sembrano provenire da gironi infernali, tra urla sgraziate e cantati da rituale esoterico. Qualcosa cambia però velocemente perché dopo soli quattro minuti, il sound degli elvetici cambia forma, diviene più atmosferica, grazie ad un ottimo break acustico guidato da una splendida chitarra sul cui sfondo continuano a capeggiare vocalizzi maligni, ma molto più distanti. Sembra quasi l'ascesa delle anime dannate ad un grado più elevato di purificazione perché le voci si fanno più angeliche, il ritmo più compassato e decisamente più spiritualistico. È una forma sonora più votata all'ambient etereo quello che riscopriamo nei minuti successivi; la rabbia dei primi minuti sembra ormai un lontano ricordo. Ma la band ha un'anima mutevole e il maligno si muove ancora, ne avverto l'inquietudine. È tangibile. E non mi sbaglio in quanto riemerge da lì a poco tutta la foga veemente del black in una poltiglia sonora caotica. Si il caos, quello che divampa e incendia l'aria nei successivi minuti in cui la magia e la ritualità da poco costituitasi vengono improvvisamente azzerate per lasciar posto alla furia caustica dei nostri. Non temete, gli Arkhaeon hanno un demone burlone dentro la loro anima che lotta contro il bene e per questo nel corso dei trentatré minuti di 'Beyond' ci sarà modo di cambiare più e più volte il mood tormentato della band, in un'alternanza stilistica che spazia tra sfuriate black, lunghi intermezzi ambientali, screaming vocals, altre più soavi, cerimoniali di ignota origine, suoni, rumori, derive droniche, sperimentalismi vari, che rendono l'album ricco di fascino, cosi dotato di un sound intrigante, ispirato sicuramente dalla vena ritualistica che ne permea l'intera opera, e che come un mantra entrerà nelle vostre teste, cosi come nella mia, e non vi darà più tregua. (Francesco Scarci)

(BergStolz - 2016)
Voto: 75

https://arkhaeon.bandcamp.com/releases

lunedì 20 marzo 2017

Sólstafir - Í Blóði Og Anda

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Seppure fieri pionieri della via islandese allo scorticamento delle orecchie, i Sólstafir già nell'album d'esordio, peraltro successivo a ben sei pubblicazioni tra demo autoprodotte ed ep discutibilmente prodotti (la versione demo di 'Black Death' è senz'altro più vivace della pubblicazione ufficiale), mostrano evidenti segni di irrequietezza climatica. Occorre verificare. Scavare con attenzione, meticolosamente. Non perdersi d'animo. Potrebbe capitare, dopo le prime cinque furibonde tracce intrise di giga-giga-giga tk-tk-tk-tk-tk-tk (eppure si intravede qualche cartolina dall'inferno in "The Underworld Song") e urla da cane sbranato. A un certo punto, clang, avete individuato la punta della piramide. Vietato dilungarsi a gioire. Dissotterrare la lunga, straordinaria coda di "Ei Við Munum Iðrast", progressivamente virante dai chiaroscuri new wave verso uno space prog nichilistico, seguiranno i melodismi teutonici a incorniciare "Bitch in Black" (irriconoscibile rispetto al demo autoprodotto del '97) e ancora le lapidarie suggestioni fuzz di "Í Víking" e le tormentose sensazioni epiche nella conclusiva "Árstíðir Dauðans". Terminare l'ascolto. Avete ascoltato un album black metal. E vi è piaciuto. Da non credersi. (Alberto Calorosi)

(Ars Metalli - 2002)
Voto: 75

http://www.solstafir.net/

The Universe By Ear - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Blues Rock
Allacciate le cinture perché stiamo partendo per esplorare l’universo dell’ascolto. Chiaro il pay-off del messaggio con cui la sempre attiva Czar of Crickets Productions di Basilea ci introduce la band The Universe By Ear. Inizio a razzo con "Seven Pounds", un brano di 8’24’’ dove il power trio svizzero scalda per bene i motori dell’astronave. Il sound è dilatato e le parti strumentali prevalgono sul cantato, la chitarra traccia la rotta di un progressive rock che potrebbe intrigare i fans della vecchia scuola prog ma anche i più attenti alle nuove sonorità di band come Flaming Lips e Mars Volta. Con il secondo brano "Repeat Until Muscle Failure", il terzetto sfodera la grinta per una possibile hit inserita nella categoria prog sotto i 3 minuti. Sembrerebbe una contraddizione nei termini ma l’esperimento riesce bene e la canzone conquista l’ascoltatore grazie al suo ritornello assai catchy. I pezzi successivi rientrano nei canoni di un prog psichedelico a prevalenza strumentale, dove i musicisti gestiscono bene le parti. "Dead Town" inizia con un riff chitarristico di matrice blues che la band elabora assai bene aggiungendovi effetti, sovraincisioni di chitarra e voci filtrate. "Idaho" nasce eterea e pianistica per crescere poi in intensità, con le voci in coro che vengono doppiate dalle parti di chitarra. In "Ocean/Clouds" la band sfodera il pezzo più lungo che prelude alla chiusura del lavoro: una partitura prog di quasi dieci minuti. Il disco si conclude con la breve e semiacustica "Dead Again", con echi di Pink Floyd appena accennati. La paletta dei suoni a disposizione dei The Universe By Ear è abbastanza ampia e l’omonimo disco riesce a contenere tutto il repertorio fatto di scale hard rock, assoli di chitarra caratterizzati da un sapiente abuso di leva, intesa come trem-bridge, cascate di note e fughe melodiche. Se vi piace il genere, la loro musica sarà la scoperta di un universo nuovo per le vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar of Crickets Productions - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/TheUniverseByEar/

domenica 19 marzo 2017

Aversio Humanitatis - Longing for the Untold

#PER CHI AMA: Black/Death, Unanimated, Bölzer, Deathspell Omega
Il mio sguardo volge ogni giorno verso ciascuna delle quattro direzioni cardinali, cercando in ciascun paese nuove realtà da ascoltare e promuovere. Quest'oggi faccio tappa in Spagna, a Madrid per essere più precisi, e non tanto per celebrare le vittorie di CR7 e compagni, ma per scoprire una band che si muove nel sottosuolo da sette anni e che forse solo con questo nuovo EP, sembra voler emergere dalle viscere della Terra. Sebbene gli Aversio Humanitatis abbiano alle spalle già un disco (datato 2011) e due split cd, francamente non ne avevo mai sentito parlare, ma si sa, il potere di bandcamp ha un che di prodigioso. Ed eccolo il loro 'Longing for the Untold' girare nel mio lettore, con la sua furia dirompente, il suono cupo e minaccioso con cui apre la title track e la cascata lavica che emerge dall'infernale bocca di fuoco di questo primigenio terzetto black. L'opener è furiosa, malvagia nelle sue parti più lente e misantropiche, violenta e devota alla fiamma nera del black svedese (citerei come termine di paragone gli Unanimated) in quelle più veloci, con il vocalist a vomitare tutto il proprio nichilismo verso l'esistenza umana, peraltro con un growling davvero convincente che ben si amalgama con la potenza del trio. "Prison of Shattered Glass" è la seconda song, che mette un po' da parte i blast beat della opening track per concentrarsi su un suono più sulfureo, che si muove su un sound mid-tempo, carico di atmosfere nefaste, ove a mettersi in luce è una prova del batterista davvero poderosa sia nei tempi medi che nelle accelerazioni tipiche del post black. Non c'è luce ma solo tenebre, riesco a percepire addirittura l'odore pungente dello zolfo e ad esaltarmi comunque con le cavalcate melodiche di una band che va dritta al punto, con una chiara consapevolezza dei propri mezzi. La forza detonante degli Aversio Humanitatis torna a colpire nella terza "The Ever Shifting Path", una canzone mossa da un'animosità perversa che ha un che dei Deathspell Omega, ma anche l'irruenza degli svizzeri Bölzer in un attacco death black frontale che non concede alcunché se non in un improvviso ed ipnotico break centrale che ha il merito di stemperare l'arroganza musicale di questi ragazzi spagnoli, non certo dei musicisti in erba peraltro. L'insania dilaga nell'ultima "Advent of the Inescapable", song che rievoca i fasti del black metal "made in Sweden" ma che è ancora in grado di regalare una piccola sorpresa, a voi scoprirla. Alla fine, pur non inventandosi una beata cippa, gli Aversio Humanitatis confezionano un gran bel disco, peccato solo che duri venti minuti e qualche spicciolo in più, motivo per cui mi sento di penalizzarli di mezzo punto. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, non posso altro che dire "bentornati dall'Inferno ragazzi!" (Francesco Scarci)

(Blackseed Production - 2017)
Voto: 75

sabato 18 marzo 2017

The Extinct Dreams - Fragments of Eternity

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
In Russia non ci sono solo BadMoodMan Music e Solitude Productions a dettar legge nel panorama funeral doom: Stygian Crypt Productions, MFL Records e più recentemente anche la GSP, si stanno facendo sempre più largo nel panorama dei suoni "apocalittici". La Stygian in collaborazione con la Backfire Productions, ha rilasciato sul mercato, sul finire del 2016, il nuovo e terzo album dei russi The Extinct Dreams, dal titolo rigorosamente in cirillico, fortunatamente tradotto anche in inglese in 'Fragments of Eternity'. Il genere è evidentemente quello death doom forgiato dagli insegnamenti dei maestri My Dying Bride e dai primi Anathema, quelli di 'Serenades', per intenderci. Quattro le tracce incluse in questo bel digipack, per una durata che sfiora i 48 minuti di sonorità per lo più decadenti, fortemente malinconiche, ma quella malinconia però, che almeno nel sottoscritto, genera pura gioia. Si lo so, sono abbastanza contorto, ma le note introduttive di "Karma", con quel loro mood non proprio gioioso, riescono comunque a infondermi un senso di pace; dopo poco meno di quattro minuti si sprofonda in un funeral doom non pervaso però dai sacri crismi catacombali che vuole il genere. E proprio qui sta il punto di forza della band, in quanto la pesantezza del doom viene smorzata da suoni più melodici, a tratti eterei, e la nefandezza dei gorgoglii vocali viene mitigata da vocals pulite ed evocative che rendono l'ascolto decisamente più piacevole oltreché agevole. Le aperture melodiche nella seconda parte di questa lunghissima traccia (di ben 18 minuti), volgono poi lo sguardo a sonorità di band quali Saturnus e primi Swallow the Sun, per un risultato conclusivo davvero soddisfacente per il sottoscritto. Il terzetto siberiano una certa esperienza nel corso degli anni l'ha accumulata e si sente soprattutto nella seconda traccia, "Damodara Stotra", la song decisamente più dinamica del disco grazie a quel suo incedere carico di groove che ancora una volta ha il pregio di regalarmi un sorriso e un po' di spensieratezza, pur continuando a crogiolarmi nella malinconia dei miei pensieri. Ottimo peraltro il break acustico a metà brano, che regala suoni che evocano inequivocabilmente la tradizione religiosa indiana e mostrano il lato più colto ed elegante dell'act di Barnaul che sul finire del pezzo trova modo anche di citare gli Anathema di 'The Silent Enigma'. Senza essermene accorto, mi ritrovo già al minuto trenta del disco a godermi la terza "In Searchs of Itself" e le sue spettrali tastiere iniziali che introducono ad una song capace di deliziare i palati con quel suo tremolo picking nostalgico e un seguente riffing più acuminato di chiara matrice death metal, che sembra quasi prendere le distanze da quanto suonato fino ad ora. Però la song è lunga e avrà modo di cambiare più volte umore lungo i suoi oltre dieci minuti tra bordate ritmiche, vocals evocative e splendide melodie che risuonano nell'aere. Si arriva alla canzone conclusiva, quella che dà il titolo al disco: credo sia il suono di un sitar quello che si diffonde vibrante nell'aria con quella sua magia derivante da culture lontane e che insieme ad un intrigante cantato (quasi vicino alla recitazione di una preghiera) sanciscono l'eccelsa prova di questa interessantissima band russa, da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Stygian Crypt Productions/Backfire Productions - 2016)
Voto: 80

Clouds Taste Satanic - Dawn of the Satanic Age

#PER CHI AMA: Stoner/Doom Strumentale
Al terzo album in completa autonomia, i newyorkesi Clouds Taste Satanic (CTS) si appropriano definitivamente di un posto rilevante nella scena musicale underground mondiale. Alfieri di un connubio stoner/doom/sludge dai forti connotati vintage ma al tempo stesso moderni ed attualissimi, il quartetto di Brooklyn riesce a fondere le varie correnti senza far gridare al plagio anzi, possiamo dire che la maturazione è completa, e che stavolta i nostri giocano su coordinate sicure senza rischiare troppo in sperimentalismi. Si sa, il terzo album è un traguardo importante per una band, ancor più se il materiale che propone è interamente costituito da brani strumentali. Il giro di boa è superato senza intoppi né passi falsi, tanto meno senza ripetersi nelle composizioni. Il disco viaggia a gonfie vele: ascoltate "We Die We Live" e godete al minuto 1:20 di un giro apocalittico che si ripete circa un minuto dopo e che porta il magma sonoro ad una forma spettacolare. Questa tipologia di composizione è usata spesso dai nostri paladini con la chitarra che si lancia verso il cielo alla ricerca di una posizione di rilievo e nel mentre viene soffocata da un riff pesante e compatto che diviene il simbolo dell'intero lavoro e l'ottica giusta con cui inquadrarlo ed apprezzarlo. Una copertina favolosa (con opere di Gustave Dorè e Samuel Coleman), rientra perfettamente nel loro stile, cosi ispirata all'Inferno de "La Divina Commedia", cosi come il vinile colorato e psichedelico. 'Dawn of the Satanic Age' si presenta cosi, nel migliore dei modi e devo ammettere che fa un certo effetto averlo fra le mani. I CTS in questa loro terza opera hanno affinato il proprio sound, proponendo una forma di stoner tra le più originali in circolazione, con una verve ed un mood assai singolari, risalente ai Black Sabbath quanto ai Monster Magnet, ma in realtà tanto originali da non riuscire ad etichettarli come figli legittimi di queste band. L'ottima produzione mette in risalto la preparazione dei musicisti che suonano all'unisono ("Retribution" ne è l'apoteosi) e sebbene il mantra sonico sia fortemente catartico, la musica risulta di forte impatto ed all'ascolto multiplo si apprezzano le mille sfaccettature e rifiniture che nascondono la grande esperienza acquisita nel tempo dai quattro cavalieri dell'apocalisse e il loro modo di creare una musica granitica assai particolare. Il doom, inteso come lo intende questa band americana, ha un sapore diverso, più colorato nelle sue oscure sfumature, i vortici sonori non ricadono su se stessi ma si evolvono sempre costantemente verso l'alto, mentre la psichedelia mostra sempre il suo lato più introverso ed heavy in "Just Another Animal", alternandosi con ricami e gemme rubate creativamente ai seventies. A differenza dei precedenti album, il suono degli statunitensi non è mai stato così spesso e corposo come in questo ultimo. Ora, non chiedetemi di identificarli ulteriormente, perché a mio avviso i CTS sono una delle realtà indipendenti più genuine, originali e meglio riuscite degli ultimi anni. Se ricercate un che degli osannati Kyuss o dei Fu Manchu, non cercateli in questo disco, rischiereste di rimanerne delusi. I Cloud Taste Satanic stanno proprio al centro di tutta la musica stoner e doom, vecchia e nuova, illuminati da luce propria, quasi irraggiungibili. Non potremmo mai proclamarli innovatori ma a gran voce li possiamo fregiare con l'appellativo di rigeneratori di incalzanti riff super stoner e vintage. Da amare o da odiare, niente vie di mezzo, niente deserti o cactus ma solo inferni danteschi. Con questo album, a mio modesto parere, i CTS possono aspirare all'onorificenza massima di cult band d'eccellenza, una vera e propria tentazione satanica! (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 85

venerdì 17 marzo 2017

Malefic Mist - Il Richiamo dell'Inverno

#PER CHI AMA: Depressive Black, Burzum
I Malefic Mist sono una one man band di Milano, guidata da tal Mors Taetra che ho avuto già modo di conoscere e recensire con l'altra sua creatura musicale, i The Undergrave Experience. Gli MM francamente non li conoscevo e scorgendo il numero di release a loro carico, sono rimasto davvero impressionato: una quindicina, tra demo e split album, sono inclusi infatti nella discografia del musicista lombardo, peraltro senza mai aver rilasciato un full length. Quello che ho fra le mani oggi è 'Il Richiamo dell'Inverno', un demo cd composto tra il 2008 e il 2012, rilasciato in modo indipendente nel 2012 e solo nel 2016 grazie all'Adimere Records. Due le song contenute in questo lunghissimo lavoro che dura la bellezza di quasi 50 minuti. E la prima traccia, nonché title track, è costituita da oltre trenta minuti di sonorità glaciali, mid-tempo, che potrebbero chiamare in causa il buon vecchio Varg Vikernes e le sue produzioni più minimaliste. Difficile indicare qualcosa di particolare in una traccia che poggia buona parte della sua durata sul lento defluire di un paio di accordi di chitarra e pochi tocchi di basso, con la batteria lontano in sottofondo. Burzum e tutto lo stuolo di band depressive black non possono che essere il punto di riferimento per il mastermind italico. Solo dopo un quarto d'ora si avvertono le prime variazioni nelle linee di chitarra, grazie prima a delle armonizzazioni e poi ad un rallentamento abissale del già di per sé lento flusso sonico di Mors Taetra, qui aiutato da Gionata Ponenti alla batteria e chitarra solista nella successiva "Cuore di Lupo". I minuti scorrono sfiancanti e asfissianti con una ridondanza a livello dei suoni che ha un che di paranoico come quello di un pendolo meccanico in un orologio a pendolo. Nell'ultimo terzo di canzone, le chitarre si fanno più piene, pur senza cambiare l'accordo su cui poggiano, dandoci il definitivo colpo del ko. Arrivo francamente stravolto alla seconda tappa di montagna de 'Il Richiamo dell'Inverno' consapevole che potrei trovarmi di fronte all'ennesimo ipnotico giro di chitarra che questa volta durerebbe una ventina di minuti. Sono tocchi delicati quelli che sfiorano le corde della chitarra nei suoi primi sette minuti di sonorità che rischiano di condurmi direttamente alla pazzia; compare poi il suono arrugginito di una chitarra elettrica ad affiancare il componimento acustico, ma il risultato delirante non cambia ed un senso di inquietudine mi attanaglia la gola fino al raggiungimento degli ultimi interminabili attimi d'ascolto di questo alienante, ma per certi versi affascinante, 'Il Richiamo dell'Inverno'. (Francesco Scarci)

giovedì 16 marzo 2017

Anthrax - For All Kings

#PER CHI AMA: Thrash Old School
Un calligrafico album di old-school thrash-metal (ascoltate i manicaretti di chitarra in apertura di "Suzerain", le fast-sbruffonate disseminate dappertutto, ma soprattutto in "Zero Tolerance" e nella robusta "Evil Twin") arricchito da ululanti incursioni nei grotteschi territori dell'old-school power-metal (i Rainbow/ismi della gustosa "Monster at the End", l'attacco Maiden/iano della title track "For All Kings", addirittura ruvidi teutonismi tardo-Scorpionici in "Breathing Lightning"). La carretta trainata dal marito della figlia di Meat Loaf si riavvicina cigolando a certo thrash pionieristico early '80s con un'attitudine compiaciutamente e moderatamente retroguardistica. Quanto ai contenuti, vi suggerisco di approfondire almeno il qualunquismo sdegnoso di Ian e Belladonna in merito agli attentati terroristici a Charlie Hebdo e Bataclan, leggendovi il testo di "Evil Twin" ("You represent your discontent slaughtering the innocent / insolence, you're no martyrs"). Tra le bonus, avete mai fatto caso che "Fight 'em 'til you Can't" clona spudoratamente "Master of Puppets". No? Sì? (Alberto Calorosi)

(Nuclear Blast - 2016)
Voto: 65

http://anthrax.com/

Scuorn - Parthenope

#PER CHI AMA: Black Symph/Folk, Inchiuvatu, Fleshgod Apocalypse, Rotting Christ
Vergogna. No, non vi sto invitando a provare quel senso di inadeguatezza che deriva dall'avvertire simile emozione, vergogna è semplicemente la traduzione in italiano di "scuorn", parola che arriva dal gergo napoletano e che da oggi non scorderò mai più, in quanto Scuorn è anche il moniker di una band proveniente proprio da Napoli, che dopo parecchie vicissitudini, arriva finalmente al debutto, con un album che definirsi bomba, potrebbe rivelarsi riduttivo. 'Parthenope' è il titolo del cd in questione, uscito per la Dusktone Records da poche settimane. Un album che francamente mi ha stupito per i contenuti, la cura dei particolari, l'inventiva, e mille altri motivi. Partendo da un'impostazione black metal, ci immergiamo in un lavoro che saprà spaziare dal death sinfonico al folk mediterraneo, passando attraverso l'epic, l'ambient, il progressive, l'etnico e diverse altre sfaccettature, che rendono già in partenza "Fra Ciel' e Terra" una traccia semplicemente meravigliosa, che si muove tra sfuriate black, pompose orchestrazioni in stile Fleshgod Apocalypse, spezzoni tribali, il tutto cantato rigorosamente in napoletano. Si avete letto bene: Giulian, il factotum mente della band, utilizza il dialetto della propria terra per accompagnarci in questo viaggio unico nella musica estrema campana. E la opening track (escludendo l'intro) entusiasma per le sue melodie, i suoi cambi di tempo, l'utilizzo degli strumenti tipici del folklore partenopeo, le vocals growl e quelle recitate in italiano e in latino, le frustate chitarristiche, i blast beat, le magniloquenti tastiere, quegli echi alla Inchiuvatu che si mischiano con il sound colto degli In Tormentata Quiete, il tutto trainato da un sound sinfonico alla Emperor. "Virgilio Mago" attacca di seguito con una chitarra che richiama suoni della tradizione campana, prima di lanciarsi in vorticosi giri ritmici ed aperture atmosferiche di scuola Dimmu Borgir/Old Man's Child, break di chitarra da brividi che esaltano le qualità del mastermind italico, epiche melodie classicheggianti, ed un drumming finale roboante che ammicca al sound ellenico dei Rotting Christ dell'ultimo periodo. Lo sottolineo nuovamente, è musica esaltante quella degli Scuorn. Il vortice sonoro prosegue con "Tarantella Nera" e il suo ritmo spezzettato da quei cori in napoletano, che mi spingono anche a concentrarmi sui testi che ci raccontano leggende del periodo greco e romano di Napoli. La musica spinge con tutta l'enfasi possibile, non stancando mai, anzi continuando ad esaltare per le trovate che costantemente emergono dalle tracce di quest'incredibile disco, che si candida già oggi, ad essere nella mia personale top ten di fine anno, se non addirittura sul primo gradino del podio. Si picchia, non temete: con "Sangue Amaro", i colpi inferti alla batteria, i riffoni di chitarra, le vocals maligne sono un esempio di come rendere una traccia selvaggia, pur stemperata successivamente da parti folkloriche più raffinate che si prendono interamente la scena poco più tardi con la magia dell'interludio "Averno", che ci piglia per mano e ci introduce a "Sibilla Cumana", la sacerdotessa di Apollo, colei che profetizzava nelle religioni classiche. La complessità dei pezzi, unita ad un innato gusto per le melodie e ad una produzione spettacolare, avvenuta ai 16th Cellar Studio di Stefano “Saul” Morabito, riescono a rendere interessanti anche quelle tracce che magari hanno un po' meno da dire, come poteva essere questo racconto sulla somma sacerdotessa, ma che in verità, si dimostra un pezzo parecchio interessante. Con calma si arriva a "Sepeithos", il nome greco del fiume che bagnava l'antica Neapolis, il cui significato è "andar con impeto", quello stesso impeto che contraddistingue l'ottava traccia di quest'intenso lavoro, che vede peraltro nelle sue diverse edizioni - che includono un disco bonus orchestrale - una serie di guest star prestar le proprie voci nella narrazione di questo gioiello musicale. Inclusi nel disco troviamo infatti tra gli altri, Tina Gagliotta dei Poemisia, Diego Laino degli Ade, Wolf dei Gort e Riccardo Struder degli Stormlord alle orchestrazioni. Nel frattempo siamo giunti alla lunga title track, pezzo clou dell'intero lavoro, in cui mi preme soffermarmi sul break centrale, in cui dialoghi in dialetto napoletano narrano le gesta di Ulisse incatenato legato all'albero maestro della nave a sfidare il canto delle sirene. Le atmosfere in sottofondo sottolineano l'epica drammaticità di questo momento, e di un disco carico di emozioni di ogni tipo, che lo rendono davvero unico ed imperdibile. (Francesco Scarci)

mercoledì 15 marzo 2017

Altar of Betelgeuze - Among the Ruins

#FOR FANS OF: Stoner Death Doom, Reverend Bizarre, YOB
Altar of Betelgeuze is an unusual group. Mixing some aesthetics of death metal with slower paced doom and grunge, this Finnish outfit creates an impressive and unique sound that is as dark and full of foreboding as it is a captivating and crisp adventure into a stoned drone zone.

Like a ship floating through deep space, Altar of Betelgeuze fits their consistent and gradual pace between Reverend Bizarre playing 'Burn in Hell' and YOB playing 'Quantum Mystic'. However, this band is quite contemplative in where to expound upon each movement and shrewdly bounces a change across the entire ensemble rather than jettisoning one element far out into the void. The doomy stoner sound has me thinking of slower style Sabbath songs like “Hand of Doom” or “Planet Caravan” with prominent guitar riffing that has that bluesy Iommi feel. Altar of Betelgeuze elaborates on this hypnotic structure with a mix of clean vocals reminiscent of Layne Staley's delivery in Alice in Chains and moments of growled vocals. “Sledge of Stones” stands clearly at the forefront as a single that could get plenty of airplay with an addicting rhythm, a great chorus, and guitar tones bringing diminishing gravel to uplift the lead guitar's contradicting melody. Escaping the grumbling dirge for a fleeting moment and halted at its apogee, the guitar is reeled back quickly as though spacewalking while tightly tethered to the main vessel. Growls are used sparingly in songs like “No Return” and “New Dawn” to balance with the higher cleans and though such a combination is a noticeable difference from the era, I could be convinced that much of this album had come out in the early '90s. The real focus in Altar of Betelgeuze's muddy rumble is their Sabbath-worshiping riffing with a grunge aesthetic like in “Absence of Light” that sounds as improvised as it is reveling in the amplified resonance. The band can riff with the best of them and the title track shows it with expertly crafted movements that harmonize in atonal resonance while a thick kick thunder urges on the guitar crash.

If you just sit back and let the journey take you, Altar of Betelgeuze will whisk you away with their crunchy guitar chugging, rattling bass guitar, and atmosphere thick with a deceptively lumbering drum gait stepping slowly to a haunting cadence. (Five_Nails)

(Transcending Obscurity Records - 2017)
Score: 80

https://altarofbetelgeuze.bandcamp.com/

martedì 14 marzo 2017

Partholón - Follow Me Through Body

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Centrare il bersaglio grosso al primo colpo non è affare per tutti. Gli irlandesi Partholón tuttavia, per quanto la loro musica possa essere definita derivativa, ci sono riusciti in pieno, ma andiamo con ordine e proviamo a capire qualcosa in più. A detta di Wikipedia, nella tradizione medievale irlandese, Partholón, nativo della Sicilia, era il capo del secondo gruppo di persone che colonizzarono l'Irlanda. Si dice che siano stati i primi ad arrivarvi dopo il mito biblico del diluvio universale. Ora questo moniker identifica anche un quartetto proveniente da Cork, fondato nel 2015 sulle ceneri dei Five Will Die (autori di due album doom tra il 2008 e il 2011), che propone un post metal che trae palesemente linfa vitale dai Neurosis. C'è chi potrebbe gridare addirittura al plagio, io utilizzerei piuttosto la parola rivisitazione, che nelle quattro tracce contenute in 'Follow Me Through Body', trova spunti davvero interessanti. Fin dalla opening track, "To the Stars", una song drammatica nel suo incedere sludge/post metal, che rivela la sua anima pulsante lungo i suoi oltre otto minuti, fatti di sonorità melmose che, a livello vocale, richiamano inevitabilmente Scott Kelly e soci, mentre da un punto di vista musicale allargherei il tutto anche a Isis e Cult of Luna, in una rilettura davvero convincente. "Jerusalem" è un tutt'uno con la prima song e nel suo magmatico avanzare, evidenzia certamente la somiglianza vocale tra il vocalist irlandese e il suo più famoso collega di Oakland, ma poco importa perché le atmosfere oscure e dilatate rendono giustizia ad un pezzo caratterizzato da pachidermiche chitarre fuzz. "Light" parte più lenta con la sola voce abrasiva del cantante in primo piano, ma sono comunque le melodie a guidare il lento camminamento tra fosche atmosfere apocalittiche. È forse però con gli oltre 14 minuti di "Hunt" che i nostri danno il meglio di loro stessi, una song in cui compaiono anche forti ammiccamenti al progressive, sebbene la musica si muova lenta e timida tra ripetitivi giri di chitarra in sottofondo e spirituali vocals corali. Dopo i primi cinque minuti c'è il primo strappo, con gli arrangiamenti che diventano più avvolgenti, le melodie si fanno più malinconiche, il cantato più personale e le atmosfere più cupe grazie ad un delicato breakdown armonico che lancia la musica dei nostri verso una fuga strumentale dal mood tipicamente post rock, contribuendo cosi a rievocare paesaggi nella mia mente che vidi recentemente durante il mio viaggio in terra d'Irlanda, per cui chiudendo gli occhi non posso far altro che vedere le spettacolari Scogliere di Moher col vento che soffia e il mare che s'infrange sulla costa. L'ipnotico batticuore finale sancisce la chiusura di un gran bell'album e l'inizio di una storia che in futuro, sono certo, ci potrà regalare grosse soddisfazioni. (Francesco Scarci)

lunedì 13 marzo 2017

Teleport - Ascendance

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive, Enslaved, Voivod, Deathspell Omega, BTBAM
Non c'è solo una certa animosità a livello politico in giro per il mondo, c'è anche un fermento artistico che fa spuntare come funghi band di qualità, un po' ovunque. Oggi la nostra attenzione si sposta in Slovenia, luogo da cui arrivano questi notevoli Teleport, con un sound che non è altro che una miscela intrigante di black avanguardistico unito a reminiscenze thrash/death, probabile retaggio dei trascorsi della band, il tutto affrontando tematiche sci-fi. Cinque i brani a disposizione del quartetto di Ljubljana, anche se "Nihility" è in realtà una intro che ci conduce a "The Monolith", fondato su delle ritmiche sghembe che per certi versi mi riconducono al sound deviato dei Deathspell Omega che si unisce con quello più progressive di Enslaved e perchè no, Voivod. Qui le chitarre si muovono infatti a cavallo tra cavalcate death e stilettate black, su cui si insinuano quei maligni stacchetti cigolanti che compaiono nella musica dei gods francesi, il tutto condito da vocals oscure e malefiche. La musica dei Teleport si arricchisce di devianze techno death nella terza "Artificial Divination", song contorta, di difficile ascolto ma che sputa fuori un lungo assolo di chiara derivazione aliena, che esalta le potenzialità delle asce, cosi come pure innalza l'asticella per l'act sloveno. I cambi di tempo si sprecano nella song dove a tratti diventa quasi arduo seguire il filo conduttore di un death black che sembra quasi basare il suo flusso sonico sull'improvvisazione matematica. Con "Realm of Solar Darkness" la musica non cambia, facendosi ancor più complicato star dietro ai deliranti giri di chitarra dell'ensemble, suggerendomi che all'interno del sound dei nostri ci siano anche influenze math di scuola Between the Buried and Me, questo a certificare anche un tasso tecnico davvero elevato, che forse toccherà la summa nella conclusiva "Path of Omniscience". Gli ultimi cinque minuti sono costituiti inizialmente da sonorità più meditative che presto saranno in grado di tradursi in un black progressive mid-tempo, sancendo cosi lo sbocciare di una nuova folgorante band estrema dalla piccola grande Slovenia. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

https://teleport1.bandcamp.com/

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

domenica 12 marzo 2017

Afraid of Destiny - Hatred Towards Myself

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Gli Afraid of Destiny nel 2017 rilasceranno il loro secondo full length. Cosa di meglio allora che recuperare il loro ultimo EP, 'Hatred Towards Myself' e fare la conoscenza di questa realtà nata come one man band e nel frattempo divenuta un quartetto? Nati nel 2011 come Vitam Nihil Est, la creatura guidata da Adimere cambia ben presto moniker in Afraid of Destiny, dando alle stampe in sequenza ad uno split album, al debut, ad un altro paio di split prima di giungere a questo EP, datato 2013-2014 ma uscito solo nel 2016 in 50 limitatissime copie, che include tre sofferenti tracce di suicidal black. Come vuole il genere, ci troviamo di fronte a song dilatate, con ritmiche mid-tempo, chitarre ronzanti (Burzum docet), qualche raro utilizzo di synth e screaming vocals che trattano tematiche legate alla depressione o al suicidio. Questo è quanto potrete ascoltare nella opening track "Reflecting Under an Ascending Moon" e più in generale in un disco che raccoglie ovviamente tutti i cliché di un genere e ricerca, per quanto sia possibile (e complicatissimo), delle variazioni al tema. Ecco perché la traccia nel suo epilogo emula il conte Grishnackh e le sue intuizioni di 'Det Song Engang Var'. Un lunghissimo arpeggio di oltre tre minuti, apre "I Reject Life" (un vero inno alla vita) che poi si abbandona in un crescendo melodico davvero succulento che mantiene tutta la mia attenzione all'ascolto di questa song strumentale che sfodera alla fine anche un attacco di matrice post black. Si arriva alla title track, traccia dal mood oscuro e paranoico, in cui il buon Ayperos alla voce sembra un Gollum travestito da cantante. La song preserva lungo i suoi sei minuti il suo abito grigio scuro, quello da colloquio di lavoro, l'abito delle giornate di pioggia, quello ideale per un giorno da funerale, si il proprio. (Francesco Scarci)

giovedì 9 marzo 2017

Evenline - In Tenebris

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore, Alter Bridge, A Perfect Circle, Papa Roach
Con questa release, uscita sotto l'egida della Dooweet Agency nel gennaio del 2017, i francesi Evenline confermano il loro stato di grazia compositiva. Dopo un ottimo precedente album ('Dear Morpheus'), recensito su queste stesse pagine, come album dai toni marcatamente post grunge, la band transalpina opta per un sound più raffinato e colto (ascoltatevi a tal proposito 'In the Arms of Morpheus', mini album acustico per capire l'evoluzione, l'apertura mentale e le potenzialità di questo gruppo). Pur mantenendo le forti radici nella musica di Seattle, il combo parigino riesce a fondere le sue composizioni con una forma più progressiva e d'atmosfera che tocca vertici di tutto rispetto. La musica, condotta dalla magistrale e dotata voce di Arnoud Gueziec (che canta sia in pulito che growl), è derivata da band di culto come Porcupine Tree ed A Perfect Circle pur mantenendo comunque intatta la propria originalità e freschezza. Passo dopo passo, i brani scivolano veloci, coinvolgenti e potenti tra manierismi del genere e vere e proprie chicche di tecnicismo progressivo: "Straitjacket", "Echoes of Silence" e la dirompente "Never There" con il loro sound spolverano inserti metalcore stimolanti ed energici, rievocando l'alternative metal delle ultime uscite degli In Flames, suonati a meraviglia da musicisti che sanno come farsi applaudire ed ascoltare, e che usano suoni duri in modo accessibile ed orecchiabile senza ammorbidire o commercializzare a dismisura la propria proposta. Neppure la cover di Jamiroquai (si avete letto bene) "Deeper Underground", fa cadere i nostri nel vortice della banalità in quanto, rivista nel loro stile, trova un suo perché nel corso del lungo album, non sfigurando affatto. Comunque preferisco le loro composizioni originali che risultano molto più intense, cariche e più personali ovviamente, come la supersonica "From the Ashes", e quel suo riffing iniziale "meshugghiano". Ottima la produzione con soluzioni moderne e accorgimenti degni di un album mainstream, con suoni azzeccatissimi ed un equilibrio perfetto dove poter assimilare e gustare ogni singolo suono e strumento. Dieci brani tutti da ascoltare ad alto volume senza respirare, carichi di intensità, d'atmosfera e interpretati con quella tensione mista ad un sofferto e arrabbiato romanticismo che da tempo non sentivo in un lavoro, forse paragonabile ai bei tempi dei Temple of the Dog. Una veste aggressiva e raffinata aggiunta a quello che potrebbe essere lo standard operativo degli Alter Bridge, citati dalla band tra le tante fonti d'ispirazione, un look alla Muse, una preparazione tecnica e una propensione al (prossimo) salto mainstream, sono attitudini che meritano di essere premiate. Questo album sono certo non vi deluderà! (Bob Stoner)

Ande - Het Gebeente

#PER CHI AMA: Punk/Post Black
Lo stuolo di one man band si fa più sempre più corposo qui nel Pozzo dei Dannati. La band di oggi arriva dal Belgio, parte fiamminga mi pare di capire dalla "durezza" del titolo, con un disco che rappresenta la seconda fatica per il mastermind Jim, dopo il positivo esordio 'Licht', di due anni fa. Non è certo una regola scritta, ma chi è parte di una one man band, notoriamente suona black metal e gli Ande infatti non sono immuni a questa legge non scritta. Sei le tracce incluse in questo 'Het Gebeente', di cui una è il prologo che fa da apripista al sound tortuoso e feroce di "Argwaan", che delinea per sommi capi la proposta del combo belga: un riffing efferato in salsa punk black costituisce il background su cui si muovono i nostri, da cui si ergono le vocals incomprensibili e spietate del cantante. La song, nei suoi oltre otto minuti, va dritta al sodo, tagliente più che mai con una crudezza vocale data da uno screaming che di umano ha ben poco, e in cui gli accenni di melodia si dimostrano merce assai rara. Non c'è spazio per sprazzi di luce o di un barlume di speranza nel sound degli Ande. Anche se "Gebukt" è più compassata nel suo incedere, le sue fattezze sono spettrali, amplificate poi da una voce dilaniata e da vertiginose accelerazioni post-black, interrotte da ipnotici giri di chitarra black doom. Non è proprio una proposta facile da digerire quella contenuta in questo primitivo e misantropico 'Het Gebeente'; c'è un che dei Darkthrone nelle linee di chitarra di Jim, anche se poi influenze post e una leggera vena atmosferica, contribuiscono a prendere le distanze dall'ensemble di Fenriz e soci. "Oud En Vet" è interessante per un tribale break down centrale ma anche qui poi la rigidità delle ritmiche, cosi come la mancanza di melodia o di qualche orpello stilistico che permetta un ascolto più easy-listening, rendono questa traccia cosi come la successiva "Leeg", davvero montagne insormontabili. Ci pensano ancora una volta gli ostici intermezzi ambient (a tal proposito complicato è il finale ambient drone affidato a "Uittrede") a dissipare qualche nube e rendere l'ascesa verso il picco, un po' meno difficoltosa. In realtà, ancor più che le pause atmosferiche, credo che siano le accelerazioni post black a conferire una maggiore accessibilità a questo disco. Buffo da credere, ma 'Het Gebeente' non è certo un album per tutti, neppure per molti a dire il vero, forse solo per pochi mefistofelici intimi. (Francesco Scarci)