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venerdì 30 novembre 2012

Fabrizio Leo - Mr. Malusardi

#PER CHI AMA: Guitar Hero, Rock 
A volte voler a tutti i costi ricevere materiale da recensire anche da amici e colleghi porta a delle sorprese. Appena “Mr. Malusardi” ha toccato il mio fido lettore cd, sono scaturite una serie di sensazioni libidinose. Premetto che da svariato tempo, ho lasciato perdere gli artisti ultra tecnici perché molto spesso la costatazione della loro bravura mi lasciavano poco niente a livello emozionale. Ma con Fabrizio è diverso. Partiamo dal fatto che come chitarrista ha un curriculum di tutto rispetto, collaborazioni live e studio con un numero infinito di big italiani, composizione di spot pubblicitari e docente di chitarra. Le basi il ragazzone ce le ha sicuramente e si sentono, come pure le influenze che hanno segnato la sua giovinezza. Bicio (per gli amici) fa trasudare perle di prog e fusion dalla sua fida chitarra, facendo della velocità di esecuzione una delle sue virtù ed è questa l'unica nota dolente dal mio punto di vista. Molti musicisti la possono apprezzare e anche qualche cultore del genere, ma rischia di diventare un pippone galattico se portata all'estremo e non la si riesce a dosare a puntino. Quello che differenzia Bicio è la sua capacità di trasmettere emozioni, dietro ogni tapping o bending riesco ad immaginare un bambino che vede per la prima volta un chitarrista mentre gode con la sua fida ascia e capisce all'istante cosa vorrà fare da grande. Macché medico o avvocato, la passione per la musica (che probabilmente non ti pagherà mai una casa o una bella macchina) è rimasta invariata e si percepisce l'entusiasmo da chi è spinto da un sogno e non si farà abbattere da niente e nessuno. Il main title del cd contiene uno dei solo di chitarra più cazzuti del cd e i continui cambi ritmici della traccia mantengono alto il livello di concentrazione dell'ascoltatore medio. L'intermezzo con delle ballate rock (non le definirei lente, ma sicuramente qualche bpm in meno delle altre canzoni ce l'hanno) come "Eyes of Ice" spezza il ritmo forsennato del cd, regalando comunque una complessità compositiva notevole, mentre gli arrangiamenti e la scelta dei suoni evidenzia l' esperienza e il bagaglio artistico del Bicio. "Hammer Honor" è il pezzo che sento più nelle mie corde, forse per la chitarra di accompagnamento molto prog rock. Ad un certo punto ti aspetti l'entrata di un fantastico synth invece del solo di chitarra, ma ovviamente era solamente la mia testa malata che a questo punto del cd viaggia a briglie sciolte... Chiudo con "Galactic Way", bellissima intro in reverse che lascia subito spazio ad una ritmica suicida e fuori dagli schemi tradizionali. Alla fine del pezzo se ne esce provati fisicamente, solo per aver provato a tener il ritmo col piede dall' inizio alla fine. Questo "Mr. Malusardi" conferma il livello qualitativo altissimo dei nostri musicisti e se amate la tecnica dei Dream Theatre e lo sweeping di Frank Gambale, non potete perdervi questo cd. Segnatevelo come regalo di natale e vi prometto che al cenone vedrete la renna salire sul tavolo preparato a festa e intonare le note di “Pull Me Under”! (Michele Montanari) 

(Shrapnel) 
Voto: 80 

lunedì 26 novembre 2012

Eryn Non Dae. - Hydra Lernaia

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Metalcore
Alquanto movimentati codesti END. Già avrete capito che non è il mio genere preferito ma sono stato piacevolmente sorpreso da questa band di Tolosa. Formati nel 2001 escono, con questo debut album sotto Metal Blade nel 2009, dopo un EP autoprodotto rilasciato nel 2005. Posso dire tranquillamente che non sono il classico gruppo -core americaneggiante, che si fonda su breakdown, chitarre droppate e gente che urla (oltre che libertà e democrazia, guai a non nominarle). La musica di questi francesi non è di facile classificazione in quanto le sonorità da loro proposte, non rientrano nei schemi blindati del metalcore ma vanno ad estendersi nel metal di nuova fattura, con profonde radici che affondano nel groove. Si trovano reminiscenze di Meshuggah, Dillinger Escape Plan ma anche dei Sepultura, periodo post-thrash. Le composizioni hanno un sound moderno, forse a tratti troppo plasticoso, ma varie ed originali, combinando le varie influenze del gruppo con una enorme base che a tratti spazia nel deathcore più profondo, sprigionando una pesantezza ed una forza viste raramente. Un sapiente mix di suoni e creatività alla fine risulta essere l'arma vincente di questo combo francese che tiene sull'attenti fino alla fine con quest'opera frutto di una saggia ricerca stilistica. Ed ora sono curioso di sentire il nuovo album, sperando solo che i nostri decidano di inviarmelo, dal momento che l’ho addirittura acquistato… (Kent)

(Metal Blade) 
Voto: 80

Ragnarok - Malediction

#PER CHI AMA: Black, Emperor, Dissection, Gehenna   
Il ritorno sulla scena di questa storica band norvegese era atteso da due anni. E l'attesa è ben ripagata e siamo di fronte ad un rumoroso e violentissimo album di classicissimo black metal pieno di odio e paganesimo, al punto giusto e ben equilibrato. L'intro classicheggiante è da copione e la partenza a razzo di “Blood of Saints” ricalca un copione già scritto ma con ancora una forza espressiva tale che l'intero cd è pressoché perfetto nella sua staticità. I canoni ci sono tutti: ritmiche tiratissime, riff che alternano melodia e potenza una voce praticamente perfetta e un drumming sempre al massimo dei giri. Tutte le canzoni girano sui 4/5 minuti e non presentano particolari cambi di registro, sono di ottima fattura e il cd si ascolta tutto d'un fiato ed è velenosissimo, carico di adrenalinica rabbia in ogni suo registro per circa tre quarti d'ora di durata. La cosa che colpisce di più è la qualità della registrazione e l'esecuzione, assai pregevole. La classe, mista ad un po' di manierismo, con cui questa band agita il mercato fin dal 1994, senza perdere smalto e coerenza, è spiazzante e spettacolare, considerando che il combo ha sempre vissuto all'ombra di band molto più in vista. Non ci sono spazi per l'innovazione e questo fa in modo che il disco diventi inossidabile, inattaccabile a qualsiasi livello e l'alto valore tecnico/melodico delle composizioni, lo rende splendido, senza lacune. Dobbiamo ammettere che il solo fatto che esistano band ancora così ortodosse e con il gusto della qualità portato all'ennesima potenza, rende questo genere musicale sempre vivo e vegeto. Nessuno potrebbe dire ascoltando “Malediction” che non ci sia vita dietro questo lavoro, la cui godibilità sta nella sua canonicità stilistica e nell'energia con cui questi musicisti norvegesi continuano a riproporre un genere di nicchia nei migliori dei modi. Se vi svegliaste la mattina con un assurdo bisogno di comprare un buon disco di puro black metal, non dimenticate il nome Ragnarok e “Malediction”, sicuramente una garanzia di qualità! (Bob Stoner)

(Agonia Records) 
Voto: 80

domenica 25 novembre 2012

Forgotten Tomb - ...And Don't Deliver Us From Evil

#PER CHI AMA: Black/Doom, Taake, Esoteric, primi Katatonia
Nell'ultimo album dei piacentini Forgotten Tomb, si possono ascoltare le evoluzioni di una band che ha lavorato molto per elaborare un sound che in origine era debitore al più oscuro doom/ black metal e come per altre realtà musicali, la loro musica si è innalzata a forme sonore sempre più personali e di ampio raggio e visione. Incuranti delle critiche sul cambio di direzione artistica, i nostri hanno resistito fino ad arrivare fin qui e a dar vita ad una creatura che vive di luce propria, un’oscura creatura, a dir poco entusiasmante. Possiamo prendere in prestito alcuni riferimenti per far capire il loro sound, ma non riusciremo di certo, ad inquadrarlo comunque tanti sono gli spunti che in esso possiamo trovare. Dentro questo cd troveremo echi doom di scuola Esoteric e il black dei norvegesi Taake, la sospensione temporale di Ancestors e piccole inserzioni di buon rock dal retrogusto seventies e gotico sapientemente mischiati, come se i Fields of the Nephilim si imbattessero in una cover dei The 69 Eyes, cercando di copiare i Candlemass degli ultimi anni. Il sound è esuberante sempre carico e pieno di pathos, solenne ed epico allo stesso istante. “...And Don't Deliver Us From Evil” suona omogeneo, non mostrando lacune, e alla fine risulta veramente piacevole all'ascolto con un'atmosfera ricercata ed un mixaggio molto saggio, che appiana tutte le difficoltà che potrebbero insorgere in un disco di questo genere. La melodia ed il gran lavoro delle elettriche va omaggiato e sulle parti doom i Forgotten Tomb sono irresistibili. La voce è sempre ben calibrata è per tutto il tempo si instaura nell'ascoltatore quella forma d'ascolto malinconico/riflessiva che ha reso celebri band come i Katatonia. Ascoltate “Cold Summer” e la sua vena lievemente romantica oppure “Let's Torture Each Other” e il suo giro di basso che mostra legami alchemici con lo stoner dei Cathedral per poi lanciarsi in un ritornello gotico splendido e tutto, senza dimenticare mai il black d'origine e senza mai risultare banali. Un disco da avere e ascoltare un sacco di volte, sicuramente una perla che ben figurerebbe nell'olimpo accanto a nomi eccelsi del metal. (Bob Stoner)

(Agonia Records) 
Voto: 85

giovedì 22 novembre 2012

Mare Cognitum - An Extraconscious Lucidity

#PER CHI AMA: Black/Post/Cascadian
Quasi quasi anch’io domattina mi sveglio e metto su la mia band, la mia one man band. Ormai non mi è chiaro se sia una questione modaiola, o il fatto di avere fior di computer a casa o cos’altro, ma ormai i progetti solisti spuntano ovunque come funghi. Non voglio assolutamente criticare nessuno, la mia è una pura e semplice constatazione, che mi porterà sicuramente a dire, a fine recensione, “ben vengano i progetti solisti”. Dopo queste mie elucubrazioni mentali della mezzanotte, mi avvio alla scoperta di questo progetto californiano che risponde al suggestivo nome di Mare Cognitum. Il cd è essenziale e stilizzato nella sua confezione, ma probabilmente legato al fatto, che la copia nelle mie mani, è promozionale. Mi ha colpito però l’interno del booklet con il simbolo di un segno zodiacale differente collegato alle sei tracce qui contenute (che arrivi un secondo disco con i rimanenti sei segni?). La proposta del nostro bravo individuo, all’anagrafe Jacob Buczarski, è un feroce preparato di black atmosferico, probabilmente contaminato dalla corrente cascadiana, che brulica sulla costa ovest degli States. E ovviamente, dinnanzi a simili sonorità, io non posso che essere felice. La cosa un po’ bacata (della mia mente intendo) è che il Cascadian Black Metal non è nulla di cosi trascendentale o geniale: si tratta di melodici riff glaciali, interrotti da intermezzi acustici (talvolta dal sapore folkish, ma non in questo caso), momenti meditativi (come la chiusura di “Collapse Into Essence”), rabbrividenti harsh vocals e poi… e poi un feeling di insana malvagità intrinseca, che popola tutte queste release, e che sinceramente io riesco a ritrovare solamente in questa corrente musicale. E anche “An Extraconscious Lucidity” non ne è immune, pur non rappresentando in realtà in piena regola, il genere sopra descritto. Chissà, sarà forse l’aria dell’Oceano Pacifico, che mi sembra molto più calda di quello delle foreste norvegesi, a plasmare simili individui, eppure le chitarre acuminate, le voci ringhianti, la voglia di dipingere paesaggi desolati, emerge prepotentemente anche dai solchi di questo cd, di sei lunghi pezzi, in cui emergono, senza ombra di dubbio, la furente “Degeneracy Pressure” e la più (relativamente) tranquilla “Nascency”, un pezzo di black mid-tempo, contaminato però da un po’ tutte le ultime correnti musicali, dal post al cascadian, fino al depressive; però permettetemi di dire banalmente quanto bellissimi siano quei break strumentali, in cui chiudo gli occhi e mi abbandono “al mio dolce naufragar in questo mare”. Il sound dei Mare Cognitum è una tempesta in mezzo al mare, con il gelo che penetra nelle ossa ed un senso di famigerato disagio che si insinua nel mio animo costantemente inquieto. Questa la sensazione ascoltando la deprimente “Ergosphere” o la catartica conclusiva “Pulses in Extraconscious Lucidity”, che chiudono un lavoro dal difficile impatto emotivo, in quanto permeato da sublime disperazione. Ebbene si, alla fine confermo, ben vengano tutte queste one-man band, se i risultati sono questi… (Francesco Scarci)

(Lunar Meadow Records) 
Voto: 75

In the Silence - A Fair Dream Gone Mad

#PER CHI AMA: Progressive, Opeth, Porcupine Tree
Primo lavoro per i californiani In The Silence, uscito ad aprile di quest'anno. Si identificano come una progressive/atmospheric metal band, e certamente sono degni di nota. Si inizia il nostro tour con l’introversa ma energica "Ever Closer": una delizia per le mie orecchie già dalle prime note, la song gioca molto con le sue diverse sfumature, catturando i miei sensi. Insieme a "Serenity" ed "Endless Sea", potrebbe ricordare gli Opeth, mentre l'americanità si avverte soprattutto nel largo uso delle chitarre così graffianti. "Seventeen Shades" inizia invece dolcemente, quasi sottovoce: se prima ho citato gli Opeth, ora mi permetto di indicare i Porcupine Tree come potenziale punto di riferimento dei nostri. Le parti armoniose ricordano molto infatti la band di Steven Wilson e soci, soprattutto nell’utilizzo della chitarra classica, tastiere e batteria, suonate ritmicamente. Di notevole impatto poi, l'assolo di chitarra elettrica. "Beneath These Falling Leaves" è la traccia acustica e maggiormente progressive di tutto l'album. La prima immagine che mi si forma nella mente, è un paesaggio pieno di colori che sfumano dall'oro al rosso, mentre il vento soffia tra i miei capelli: intrisa di malinconia, è il brano perfetto per essere canticchiato in un pomeriggio di freddo autunno, mentre si passeggia. Verso la fine il motivo cambia e mi ridesto improvvisamente a causa di un sound che diviene quasi sperimentale: una bella sorpresa. "Close To Me" è l'anima strumentale, soave e mesta, dove la mente spazia e si svuota, lasciandomi tuttavia una sensazione di conforto nel cuore. "All the Pieces" è potente fin da subito, cantabile e matura: il canto si inserisce perfettamente in tutto il contesto, diventando una cosa sola con il resto dell'ensemble. "Your Reward" è l'ultima canzone di questo primo entusiasmante lavoro. Assolutamente da non perdere è l'uso astratto della chitarra, capace di toccare qualsiasi livello d'intensità. Non poteva mancare un grido liberatorio verso la fine. Un grande plauso a questo neonato gruppo statunitense, che ha sfornato una perla di rara bellezza e ottima colonna sonora per i miei viaggi in treno (e in macchina). (Samantha Pigozzo)

(Self) 
Voto: 85

Old Pagan - This is Saarland Black Metal

#PER CHI AMA: Black, Avsky, Gorgoroth, Mysticum
Gli Old Pagan sono tedeschi e arrivano dallo stato federale di Germania denominato “Saarland”, sono attivi dal 1997 e hanno dato alle stampe numerose pubblicazioni, tra cui due full lenght, tre demo, quattro EP e due split cd. Questo lavoro è l’EP del 2011, predecessore di un altro EP, dal titolo “My Black Witch”, uscito a supporto del secondo full lenght dal titolo “Battlecruiser Old Pagan”. Come suggerisce la copertina e il nome della band, siamo di fronte ad una black metal band violenta e senza compromessi, che rispecchia tutti i canoni del genere della prima ondata, con suoni e ritmi tiratissimi, screaming forsennati ed una lucida freddezza di esecuzione. Non si spostano mai dal tema conduttore e tutte le quattro tracce si lanciano dritte all'inferno allo stesso modo. La velocità la fa da padrona sulla melodia e la voce, onnipresente, si presenta eccessivamente sopra le righe anche per un uso improprio a parer nostro di effetti echo e riverbero in quantità industriale, fin dal primo brano, che infonde una strana e non troppo indicata forma psichedelica al tutto. Se aggiungiamo il suono di una batteria veramente ben suonata, ma dai suoni inconcepibilmente spenti ed evanescenti, sommata ad innesti di suoni indefiniti che sembrano provenire da Marte (non riusciamo a dare un'altra spiegazione!), ci si accorge con rammarico, che qualcosa è sfuggito di mano alla band. In generale il combo si presenta preparato e con le carte a posto, per proporre delle buone cose, ma devono concentrarsi sulla qualità di registrazione e il mixaggio. Le idee ci sono, ma risultano male direzionate, le canzoni con scie di rozii all'inizio o alla fine del brano, non danno l'effetto (crediamo!?!) voluto del Low-Fi e il fatto di inserire un suono stile “marranzanu siciliano” (o scacciapensieri) ad un volume a dir poco fastidioso, in una buona e veloce composizione tipicamente black, non vuol dire essere innovativi e tantomeno originali! Il pezzo strumentale posto in chiusura, conferma le nostre teorie, con una buona melodia epica, ma una batteria spaventosamente spenta e inconcludente. Chiudiamo nella speranza che il full lenght uscito dopo questo lavoro, abbia raddrizzato un po' il timone degli “Old Pagan”, perchè offrirebbero veramente delle buone composizioni, ma così esposte rischiano veramente di cadere nell'oblio eterno. (Bob Stoner)

(Self) 
Voto 55

mercoledì 21 novembre 2012

Menace - Heavy Lethal

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Judas Priest, Anvil
“Back to the 80s”… Così si potrebbe sintetizzare l'esistenza stessa dei Menace e questo "Heavy Lethal" è il manifesto di una strada controcorrente che l'heavy metal ("hard and pure" come direbbero gli Skanners) della band vicentina, percorrere ormai da tempo. Nati alla fine degli anni ’90, i nostri danno alla luce, dopo numerosi cambi di line-up, l'EP "Quake Metal" nel 2003, e da poco hanno rilasciato questo full length, sotto My Graveyard Productions. Dopo il primo ascolto la prima reazione è un'improvvisa voglia di farmi ricrescere i capelli, cercare i bracciali di borchie, il chiodo e gli anfibi che usavo quando ero magro, e cominciare a girare per le strade guardando male chi non è vestito come me, ovviamente con la maglietta degli Iron Maiden indosso, t-shirt che ora come ora potrei usare più come top o bandana. L'unico aggettivo che può andar bene per descrivere qualsiasi particolare di questo disco è "heavy metal": l'artwork è heavy metal, il sound è heavy metal, tutte le immagini del cd sono heavy metal, le liriche sono heavy metal, il font è heavy metal. Oltre che heavy metal, questo debut è genuino e personale, completamente autoprodotto, sia in fase di registrazione che di mixaggio, senza nessun ausilio di diavolerie tecnologiche, e ciò fa trasparire tutta la vecchia scuola del gruppo che ci fa scapocchiare, con i suoi travolgenti riff di matrice NWOBHM, le vocals figlie di Rob Haldford e King Diamond, ed una batteria che si lascia scappare up-tempos adrenalinici; peraltro, la rabbia e la potenza che scaturiscono dalle composizioni di “Heavy Lethal” è quella d'altri tempi, ed ogni componente sa dare il suo prezioso contributo a questa eccelsa rappresentanza di classicità. Non c'è molto da dire, se non che questo lavoro, che può sembrare alquanto obsoleto, ci fa notare la più totale mancanza di una solida base nel metal delle nuove generazioni e rappresenta uno spirito ed una devozione alla musica che oramai è difficile da ritrovare; ovviamente vi suggerisco di non perdervi assolutamente un loro concerto, dato che sono rarissime le apparizioni live. Consigliato a tutti quelli che girano ancora con le braghe in pelle. (Kent)

(My Graveyard Productions) 

Gotto Esplosivo - L'Oro Del Diavolo

#PER CHI AMA: Rapcore, Nu Metal, Funk Rock
Con il moniker tratto dal libro "Guida Galattica Per Autostoppisti" di Douglas Adams, questa band dalla Val Brembana, sconvolge letteralmente il mio udito e rimango allibito dalla genialità delle canzoni, sopratutto dai testi cantati interamente in italiano. Come avrete capito dai tag, sto parlando di una musica dalla difficile catalogazione, e di cui io non sono un grosso fan. Però questi Gotto Esplosivo conquistano subito, con i loro movimenti groovy, il cantato velocissimo, i ritornelli catchy. Pura energia concentrata in dieci tracce per una durata complessiva di poco più di mezz’ora. A vantaggio di questo, una produzione cristallina e suoni limpidi, il tutto curato da Davide Perucchini, il fonico live dei Verdena. La ritmica gioca un ruolo importantissimo nelle composizioni del giovane combo e la voce in rima, tiene sempre alta la concentrazione sulla musica e nonostante qualche ripetitività, le canzoni si riveleranno assai creative, differenziandosi molto tra loro, non annoiando mai, vuoi perchè vigorose ed iperattive o semplicemente perchè di facile ascolto. Passiamo dalla prima parte del cd, con tracce come l'opener "Paura" o "Gelosia" con uno stile movimentato ed adrenalinico, verso composizioni meno aggressive, come "Sete" o "L'Occhio". Insomma, un disco variegato, originale e molto (troppo) allegro. Data la proposta musicale molto particolare, sono proprio curioso di vedere cosa salterà fuori dalle prossime pubblicazioni. (Kent)

(Ice Records) 
Voto: 75

Locus Neminis - Weltenwanderung

#PER CHI AMA: Black Symph., Limbonic Art
Black sinfonico… merce rara al giorno d’oggi, dove la contaminazione va per la maggiore, nuovi generi si sono aggiunti e si è dimenticato il passato, le radici dalle quali sono nate le nuove tendenze. Gli austriaci Locus Neminis non fanno altro che rimettere in auge ciò che è stato, modernizzandolo, personalizzandolo ed aprendo a nuovi spiragli di progressione futura. L’intro di “Spiegelbild Der Vergangenheit” sembra uscire da un lavoro dei Negura Bunget, per poi iniziare a pestare grazie al rullare furibondo di un drumming inferocito. Fortuna che qualche tocco di pianoforte stempera un po’ l’aggressività della band di Linz, altrimenti mi avrebbero annichilito dopo i primi mortiferi tre minuti, in cui si raggiungono velocità che vanno oltre la barriera del suono. La cosa intrigante è che tutta questa malvagità dissipata è totalmente pregna di melodia, che si esplica anche attraverso uno splendido solo conclusivo. Pollice verso, non c’è che dire. Il tutto confermato anche dalla title track, che a parte confermare l’irruenza, stile contraerea, in chiave batteristica, non fa che esaltare la brillante proposta dei nostri, bravi in sede esecutiva, quanto in quella compositiva con delle eccellenti melodie, aperture atmosferiche di scuola Limbonic Art, un riffing appassionato e delle vocals grondanti malvagità allo stato puro, sia in formato growl che in chiave scream. La bontà del sound dei Locus Neminis prosegue anche con le tracce successive: un’apertura che sa di suoni black depressive appare in “Wenn Die Nacht Den Tag Verdraengt”, song in cui il drumming impetuoso di Ramiz se ne sta finalmente accuccia e il brano vive di tenebrosi sali e scendi e le parti orchestrate si sprecano. I riferimenti al sound sinfonico ma glaciale di metà anni ’90 sono palpabili, ma il tutto assume connotati positivissimi nella proposta dei sorprendenti Locus Neminis. “Ein Neuer Anfang” ha un inizio oscuro con la voce di Xarius, quasi sussurrata; poi un esplosione di suoni e colori, con una ritmica che galoppa impazzita come nel migliore degli album death metal. Un menzione a parte la voglio fare ad Antimaterie, che grazie alle sue tastiere ariose sorregge tranquillamente il fardello della martellante performance del drummer, il resto lo fanno i due axemen, indiavolati a graffiare con le loro strepitanti chitarre. Gli ultimi sussulti da citare sono per “Totes Licht”, un brano in cui il black dell’act austriaco vola in cielo, nello spazio e acquisisce un’imprevedibilità ed impalpabilità aliena, che nuovamente ha indotto un trasalimento durante la mia scrittura e l’infinita traccia conclusiva (24 minuti e passa) che risponde al nome di “Die Begegnung” che ripropone il feeling maestoso, epico e orchestrale dei Dimmu Borgir più ispirati di “Stormblast” per poi concedersi apparentemente ad un finale ambient (ho pensato che la band volesse raggiungere la durata complessiva di 66 minuti), nascondendo in realtà nella sua coda, una ghost track spettrale, di una ferocia inaudita e dall’attitudine maligna. Certo c’è ancora qualche accorgimento da settare qua e là: una migliore impostazione vocale e decisamente, il ridimensionamento delle velocità ultrasoniche della stramaledetta batteria (a volte ci sta correre dei forsennati, ma non di certo per tutto l’album), per il resto “Weltenwanderung” si candida ad essere una delle sorprese più positive di questo 2012. E che il regno delle tenebre avanzi pure… (Francesco Scarci)

domenica 18 novembre 2012

Betrayal at Bespin - Rains

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale, Archive, *Shels
Non avrei dovuto recensirlo questo disco, ma mi sono reso conto che sarebbe stato un peccato madornale se vi foste persi un lavoro di grande interesse qual è “Rains”, cosi come lo era stato il precedente “Diary of a Dead Man Walking” che nessuno di voi avrà mai sentito nominare, ma che a me mi aveva entusiasmato non poco. Abbandonate le suggestioni southern del passato cd, i finlandesi Betrayal at Bespin, si lanciano in una rivisitazione assai meditativa ed evocativa del post rock, in una chiave estremamente raffinata ed originale, che esula da tutte le proposte fin qui analizzate dal sottoscritto. L’album si apre con il sensuale sax di “Strange Days” e il primo pensiero che faccio è se questi Betrayal at Bespin sono gli stessi che avevo sentito nel 2010 o se ho preso una cantonata con un gruppo omonimo. L’irruenza southern carica di groove degli esordi, ha infatti lasciato il posto ad un sound mellifluo che ricorda gli inglesi Archive nella loro veste più dolce e delicata. Non riesco a trovare alcun punto di contatto col passato, che sembra essere stato spazzato via con un colpo di spugna dalla rivoluzione musicale del seven pieces finnico. C’era già un che di particolare in “Diary of a Dead Man Walking”, che lasciava presagire l’unicità di questa band, ma qui, cari i miei lettori, la band propone un che di emotivamente destabilizzante. Ascoltavo “Cherbourg” una mattina mentre andavo a lavoro, guidando lungo le sponde del lago della mia città; il cielo era grigio, e la musica fluiva piena di malinconia nelle casse della mia autoradio e quando ho sentito i passaggi centrali di questo pezzo, e la pelle d’oca si palesava sulle mie braccia, mi sono detto che avrei dovuto recensirlo, sebbene il cd me lo fossi comprato. Echissenefrega, ho pensato; se un album è figo meglio dirlo al mondo e condividere questa gioia con chi come me, ha la passione della musica. Il mare, l’acqua, la pioggia, sono tutti elementi che contraddistinguono e si odono in questo “Rains” ed eccole le onde infatti che aprono “Atlantic”, song vellutata ed eterea che riesce a mettere a proprio agio chiunque con il suo incedere in stile *Shels, soffuso, strumentale e in cui fa la sua comparsa anche una tromba e un violino che rendono il tutto più sinfonico, come se una vera orchestra facesse parte del cuore pulsante della band. Per carità i nostri sono in sette, più tutta una serie di ospiti che si susseguono nel corso di questa intrepida release, che mi fa gridare al miracolo. Comunque a poco a poco, per la sfortuna dei Betrayal at Bespin, sono riuscito a ritrovare delle possibili fonti di ispirazione per la band, o un punto di riferimento per chi si volesse avvicinare alla proposta del combo lappone. Parti acustiche, lunghe fughe completamente strumentali (credo che solo in qualche sporadica occasione ci sia la presenza di un/una vocalist), parti al limite del trip-hop, atmosfere pink floydiane, inserti di archi, sassofono o altri strumenti a fiato (tromba e clarinetto) compaiono qua e là nell’evolversi di un disco, che definire metal, sarebbe la più grande tra le bestemmie. Una volta c’erano i Betrayal at Bespin, band di musica estrema molto sperimentale, oggi ci sono i Betrayal at Bespin, ensemble di musica quasi esclusivamente sperimentale, ma di grandissima personalità. Pertanto, se non avete paura di mettervi alla prova con questo genere di sonorità (gli estremisti si astengano, vi prego), fate in modo di reperire la vostra copia di “Rains”, un album che non vi deluderà assolutamente. Consigliatissimo. (Francesco Scarci)

(Avenger Records) 
Voto: 85

martedì 13 novembre 2012

Necromanther - Between Mankind and Extinction

#PER CHI AMA: Swedish Black/Death, Dissection, Unanimated
Chissà perché, ma da sempre ho erroneamente associato il Portogallo ai Moonspell e ad un sound gotico ed oscuro, cosi quando ho ricevuto questo cd, ed ho letto il nome della band, Necromanther, ho immediatamente pensato ad un qualcosa, musicalmente parlando, legata all’alchimia, al misticismo e a suoni eterei. Mai avrei immaginato di trovarmi di fronte una band dedita ad un black death, nella vena svedese di Dissection o Unanimated; potrete pertanto immaginare la mia sorpresa nel ritrovarmi fra le mani i suoni taglienti, e al contempo melodici, di questo “Between Mankind and Extinction”. Sin dalla sua apertura, “Opal”, la band risente, in lungo e in largo della tradizione swedish, pur mostrando anche una certa intelligenza artistica, curata dal buon Valter Abreu, mastermind di questo combo lusitano, qui supportato da Stefan Sjöberg in tre tracce e da Claudio Frank in “To Reign in Dusk”. Come sempre, facciamo immediatamente chiarezza perché di certo non siamo di fronte allo svolgersi di sonorità originali, rimangono pur sempre derivative di una corrente che lentamente va offuscandosi, soprattutto dopo la scomparsa dalle scene dei mitici Dissection. Comunque quello che i Nostri ci offrono è un qualcosa che cerca di divincolarsi dalla morsa di un genere pur sempre tradizionalista, e cosi, fa certo specie sentire l’inserimento di qualche tastiera all’interno di una matrice chitarristica corrosiva. Cosi come invece non mi stupiscono i rallentamenti e qualche squarcio acustico, che fungono come interruttore di quei frangenti in cui Valter accelera un pochino di più sull’acceleratore (“A Sacred Passage”). A differenza degli heroes svedesi, non ritroviamo ritmiche esageratamente veloci, anzi il tutto è estremamente controllato dal musicista portoghese, che si permette il lusso di uno splendido giro di chitarra all’ingresso di “Peak of Imagination” che mi ha ricordato i defunti Sarcasm e poi una portentosa aggressione ritmica contribuisce a rendere questo il mio pezzo preferito dell’album. È la volta di “Sungrave”, traccia che parte tranquilla, con una linea di chitarra melodica ben definita, su cui, da li a poco, si staglia una rabbiosa ritmica e le vocals maligne di Valter, a cui va un grosso applauso per la sua espressività sia in formato growl che soprattutto più stridulo, e magnetica la parte centrale, con un breve break che sembra influenzato da sonorità mediorientali. Il black qui cede il passo ad aperture heavy progressive e il tutto assume dei contorni totalmente differenti, con un assolo che si incastra alla perfezione nella matrice sonora di questo album. Il lavoro piano piano prova a percorrere una propria strada, cercando di staccarsi dagli schemi rigidi imposti dal genere: in taluni momenti il polistrumentista lusitano ci riesce anche, in altri tende forse a rimanere troppo ligio ai suoi doveri. Un contrabbasso apre “Toneless Scarlet”, poi la song si instrada su una ritmica quasi thrash, per poi lanciarsi, con la successiva “A Portrait of Obscurity” verso anfratti più prettamente death metal. Insomma in “Between Mankind and Extinction”, c’è molta carne al fuoco, che di certo accontenterà un po’ tutti gli amanti di sonorità estreme, tuttavia ricoperte da un pizzico di suoni progressive. Credo che ci sia da lavorare sodo ancora un po’, ma di certo Valter ha dimostrato di essere sulla strada giusta, per ottenere ottimi risultati. Da seguire nella sua evoluzione artistica… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Shiftlight - Distance

#PER CHI AMA: Post/Death Doom, Isis, Saturnus
Dopo ben cinque demo, di cui il primo uscito ormai nel lontano 2000, finalmente gli svedesi Shiftlight vedono la luce e giungono al tanto agognato album di debutto. “Distance” è un lavoro di sette brani per una durata di 37 minuti, una mezz’ora abbondante di suoni all’insegna di un death doom assai ispirato, perché contaminato da sonorità post. Magnetico. Il suo risultato l’ho raggiunge quasi istantaneamente, colpendomi diritto al cuore con la miscela di suoni rabbiosi e pacati di “Blinded”, che mi conquistano, e mi inducono poi alla riflessione con “End”, ed al suo passo ultra ritmato, alle vocals nerborute del bravo Mattias, ma soprattutto alle melodie di fondo create dalle pesanti ed ipnotiche chitarre, in taluni frangenti addirittura travolgenti e trasudanti un pesantissimo groove. Se proprio vogliamo pensare ad un nome, potremo immaginare una creatura mitologica creata dalla fusione di Isis, Tool e Saturnus. “Endeavour”, come da copione, dà ancora risalto al fraseggio chitarristico dell’act scandinavo, con un arrangiamento che conquista per la semplicità con cui scorre, poi per la comparsa di un chorus pulito e per concludere con un’ambientazione in pieno stile post metal, seguendo le orme dei maestri di Boston. Un arpeggio di chitarra accompagnato da basso/piatti di sottofondo, apre “Black River”, song che percorre ancora le orme dei maestri statunitensi, cosi come sarà per il resto del lavoro, in cui vorrei elogiare l’intimistico break centrale di “Subways” inserito in uno scosceso ed irto saliscendi di chitarre e vocals gutturali. “Wound” si apre con un bel basso, e prosegue con un giro di chitarra abbastanza “tooliano”. A chiudere questo sorprendente lavoro, ci pensa la più tranquilla “Mountain Under the Sea”, che in sottofondo esibisce il folkloristico suono della ghironda, quello strumento medievale a corde azionate da una manovella, il cui feeling inneggia qui invece ai danesi Saturnus. “Distance” è un lavoro che ha saputo rapire la mia attenzione per le emozioni che trasmette e le atmosfere che è in grado di creare, quindi non posso far altro che consigliarvelo a scatola chiusa. New sensation from Sweden… (Francesco Scarci)


(Kamarillo) 
Voto: 75


domenica 11 novembre 2012

Abbas Taeter - Oblio

#PER CHI AMA: Black Death, Rotting Christ
Torna il side project di Mancan degli Ecnephias, dopo ben quattro anni di silenzio da quell’“Infernalia”, che ottenne non pochi consensi dalla critica, ma non troppa fortuna in termini di risposta del pubblico. Speriamo in questa nuova opera, in cui non solo gli addetti ai lavoro, ma anche i fan, possano dare una chance all’ottimo musicista lucano. Veniamo comunque ai pezzi di questa seconda release, che tra l’altro racchiude anche “Vetusta Abbazia” e “Obedimus”, già viste nel debut album. Un’oscura intro recitata, apre “Oblio”, poi una raffinata chitarra e l’inconfondibile vocalizzo di Mancan attaccano, decretando l’inizio di questo viaggio esoterico-spirituale. Maestosi, sinfonici, epici ed eleganti, ma anche violenti, estremi e malvagi: questi gli aggettivi che potrebbero sintetizzare tranquillamente i contenuti di “Oblio”. Immediatamente rimango conquistato dalla miscela feroce tra death/black e musica classica, il tutto cantato in lingua italiana, che mi fa propendere per un pollice alto, per la scelta amletica che da tempo assilla il bravo vocalist italiano. “Preda” è una song oscura, che vede nelle sue accelerazioni ed in spettrali giri di chitarra, i suo punti di forza, con la voce roca di Mancan a ringhiare nel microfono. Di sicuro, si noterà una maggiore propensione da parte del musicista lucano a forzare a livello ritmico, rispetto alla sua band madre, orientata ormai verso lidi più gotici; tenete comunque presente, che una larga componente melodica è ben presente anche nei solchi di “Oblio”, grazie alla elevata presenza di inserti di pianoforte. La costituente occult doom emerge con “Rito dei Fuochi Pagani”, soprattutto a livello delle liriche che mostrano, come se ce ne fosse stato bisogno, l’interesse profondo del mastermind di Potenza, in tematiche occulte. “Dannati dall’Oblio” è un bell’esempio di black death furente, che vede comunque sempre emergere nel suo fluente incedere, una sostanziosa parte sinfonica (di scuola Limbonic Art) ma pure, ed è ciò che più riesce a scompormi maggiormente, drappeggi di chitarra di stampo classic rock. Forse ai più questa cosa sfugge, troppo spesso focalizzati sulla componente estrema di questa release, ma in realtà, devo dire che le partiture rockeggianti saranno alla fine, ciò che rendono ancor più suggestivo questo lavoro, ancor più dei chorus, che si ritrovano anche negli Ecnephias (e che in questo li rende forse troppo simili), e che qui ritroviamo ad esempio nel breve intermezzo, “Antico Sentiero”. “Sanctus in Tenebris” è una celebrazione delle tenebre e dell’oscurità, tematica da sempre estremamente cara all’artista della Basilicata, e che ancora una volta pongono in risalto l’epicità di “Oblio”, frammista alla furia devastante delle sue ritmiche; ma occhio perché anche qui, il black death dirompente, viene spazzato via ancora una volta da divagazioni, che definirei occult rock. Un altro intermezzo acustico e ci si avvia lentamente verso la conclusione, con un organetto che apre “La Notte del Culto” e ne popola, a mo’ di incubo, anche il suo incedere. L’alone mistico dei Rotting Christ (quelli primordiali), da sempre fonte di ispirazione dei nostri, aleggia leggero anche nelle note di “Oblio”. “Vitriol”, che vede la presenza dietro le tastiere di Sicarius, è la song che alla fine prediligo dell’album: spettrale, violenta e maestosa, strano si trovi in chiusura, ma questo testimonia comunque che l’album mantiene una qualità medio alta per tutta la sua durata. Grazie Mancan, portatore delle tenebre. Ottimo ritorno. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 80 

The Gathering - Downfall

#PER CHI AMA: Death/Doom, Celtic Frost
Attenzione! Prima di procedere nella lettura di questa recensione, rispondete alle seguenti domande: siete dei fan sfegatati dei primissimi lavori dei “The Gathering”? di quelli che se vi capita di ascoltare il loro “Always...” vi coglie un attacco di nostalgia canaglia? Pensate che Anneke van Giersbergen (sospiro) come unica voce li abbia rammolliti? Non vedete di buon occhio il mitico “Mandylion” (a me piaceva da matti, nostalgia canaglia) e ancora meno “How to Measure a Planet”? Se avete risposto “sì” ad almeno due di queste domande, potete continuare nella lettura. Questo è un prodotto dedicato agli ammiratori senza remore del gruppo. Altrimenti potete tranquillamente passare oltre che non mi offendo... vabbé un po’ sì. Vi sembra di riconoscere questo album? Avete ragione, infatti si tratta di un ri-edizione di “The Falling - The Early Years”, una loro raccolta del 2001. La Vic Records la ri-pubblica cambiando scaletta e aggiungendo un sacco di extra, alcuni dei quali davvero rari. Le tracce presenti si rifanno ai tempi in cui i nostri producevano un oscuro doom/death metal e le voci femminili erano solo “backing vocals”. Tracce in cui esce il desiderio di creare atmosfere rarefatte ed evocative di sensazioni oscure. Il disco si apre con le prime sei tracce che derivano da un promo del 1992 di “Almost a Dance”; scopro che qui il cantante non è il Niels Duffheus della versione finale dell’album, ma il growler originale Bart Smits. Per me è una bella sorpresa, non ho un gran ammirazione per Niels e forse Bart, sebbene pure lui non fosse particolarmente adatto al desiderio di quei tempi di cambiamento della band, avrebbe dato a “Almost a Dance” un’anima diversa, chissà. Va be’, dicevamo? Ah già, si continua poi con canzoni presenti nella prima edizione del ciddì. Derivano dai demo “An Imaginary Symphony” (1990), “Moonlight Archer” (1991) e da altri inediti. Spicca la cover di “Dethroned Emperor” dei Celtic Frost, ulteriore indizio sulle loro origini. Si prosegue quindi con una serie di registrazioni di performance dal vivo. Una parola sulla qualità del suono: visto quando sono stati registrate, non è per niente male. Cosa ci rimane alla fine di questa cavalcata nei primi vagiti dei “The Gathering”? A me viene naturale confrontare questa raccolta con ciò che lo ha seguito. Il risultato è un sensazione un po’ divertita mista ad una nostalgia distaccata. A coloro che han sostenuto il gruppo fin dagli esordi, e magari poi abbandonato, questa riedizione regalerà sicuramente emozioni più forti. (Alberto Merlotti)

(Vic Records)
Voto 60 

The Reset - Progenitor

#PER CHI AMA: Djent, Progressive Death, Tesseract, Meshuggah
Un grazie a Simone Saccheri (chitarrista degli (Echo)) per avermi suggerito questa giovane band proveniente da Orlando (Florida), autrice di un buon EP d’esordio, capace di miscelare ritmiche brutal death con le sonorità polifoniche del djent (scuola Meshuggah), con spaventosi cambi di tempo, il tutto eseguito in poco più di 12 minuti di tempesta elettrica. Il lavoro si apre con la strumentale “Materia” che permette immediatamente di identificare il genere proposto dall’act statunitense; la song cede il passo, dopo un paio di minuti di bombardamento a tappeto, stemperato solo da ipnotiche keys, alla ancor più ferale “Relativity” che con le sue chitarre ribassate, il growling oscuro di Steven McCorry, e il suo dilaniante incedere psicotico e al contempo efferato (grazie ad una ritimica mega serrata), ha lo stesso effetto di una pesante bastonata dietro alle ginocchia, mi ha piegato in due. La terza “Satcitananda” apre come il ruggito di un leone, ma con la sorpresa di clean vocals (stile Tesseract), con le chitarre che persistono nel loro gioco ubriacante di fraseggio e passaggio da una parte all’altra delle mie cuffie, portandomi al più totale disorientamento. Ancora l’effetto che percepisco al termine di questa song è quella di essere stato incappucciato, fatto girare decine di volte su me stesso, qualche bastonata qua e la, e poi, tolto il cappuccio, mi ritrovo collassato sul pavimento. La conclusiva “Imperium” continua su questo binario, ma sembra la meno convinta del lotto (anche in fatto di vocals non del tutto convincenti), comunque apprezzabile il lavoro in fase tecnico-compositiva, che conferma che per proporre un simile genere, sia necessario avere le palle quadrate. Veloci ma essenziali. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Decapitated - Organic Hallucinosis

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Della serie, riscopriamo vecchi album del passato, mi domando se ci sia qualcun altro che mi voglia prendere a scarpate nel culo quest'oggi? Dopo i Krisiun ecco recensire un’altra bastonata per i miei oramai delicati timpani: trattasi questa volta dei polacchi Decapitated e del loro album edito dall’Earache, “Organic Hallucinosis”: poco più di mezz’ora di furia omicida miscelata alla perfezione con le ritmiche sincopate tipiche dei maestri Meshuggah e di altre trovate strampalate che potrebbero accostare la band ad altri mostri sacri quali Cephalic Carnage o Cryptopsy. L’evoluzione musicale iniziata in “Nihility”, prosegue in questo capitolo, il quarto, proiettando la band, guidata dal nuovo cantante Covan (ex Atrophia Red Sun), ad essere una delle più belle realtà del metal estremo. Il quartetto polacco continua a crescere (e le release successive l'hanno poi dimostrato) e si sente: sono infatti abili nel miscelare la brutalità del proprio sound con divagazioni avantgarde e i tipici stop’n go dei master svedesi. Il tutto poi, fatto con un’invidiabile tecnica individuale, nonostante la giovane età dei nostri, rende il lavoro ancora più appetibile. Buona la performance vocale di Covan che, prendendo le distanze dai gorgheggi tipici del genere, interpreta i brani con assoluta personalità. Assoli al fulmicotone, velocità al limite dell’umano, melodie dissonanti, furenti blast beat, accelerazioni mozzafiato, elucubrazioni chitarristiche e atmosfere snervanti, accompagnate da una equilibrata produzione, completano ulteriormente, uno dei lavori più interessanti tra quelli usciti nel 2006. Sebbene non ci troviamo di fronte ad un capolavoro che brilli per originalità, devo ammettere che la proposta dei nostri è risultata davvero spiazzante per il sottoscritto; bravi, ma ne sono certo, c’è ancora spazio per migliorarsi... (Francesco Scarci)

(Earache Records) 
Voto: 75

Krisiun - AssassiNation

#PER CHI AMA: Brutal Death
Che sonora mazzata nei denti ragazzi... ecco in poche parole cosa racchiude l'album dei brasileiros Krisiun, il sesto della loro esplosiva discografia: 46 minuti di ferocia inaudita, decisa a perforare i nostri sempre resistenti (ancora per poco) timpani. Il combo sud americano non si allontana di molto dal proprio tipico stile techno-brutal-death, che oramai contraddistingue la band, fin dal lontano debutto del 1993: un sound compatto, solido e rovente, suonato costantemente con un’elevata perizia tecnica. Disumano è il lavoro alla ritmica, con una batteria rutilante, precisa e variegata a costruire atmosfere annichilenti e claustrofobiche; le debordanti ritmiche, ricche di cambi di tempo, constano di selvagge chitarre laceranti, efficaci nel creare un muro sonoro insormontabile, che si alternano, con imprevedibile naturalezza, a momenti d’insana tranquillità, quasi a preannunciare l’arrivo della tempesta, fatta d’impeccabili assoli che giocano molto spesso, a rincorrersi l’un con l’altro, nell’arco dei vari brani. Musicalmente i Krisiun sono accostabili agli Hate Eternal, anche se gli ultimi lavori del combo statunitense non mi avevano convinto completamente, per una certa immobilità di fondo; al contrario, l’ascolto di “AssassiNation”, si è rivelato davvero entusiasmante. L’assalto sonoro profuso dal platter, targato Century Media, e coadiuvato dall’eccellente produzione ad opera di Andy Classen, consacra definitivamente il trio, guidato dai brutali grugniti di Alex Camargo, quale migliore band nel genere. Consigliatissimi agli amanti del genere. Devastanti... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 80

Australasia - Sin4tr4

#PER CHI AMA: Sonorità Post
Dannazione, solo 22 minuti! Io ne volevo molto di più… Signori, vi presento gli italiani Australasia, ennesima dimostrazione di come il nostro bel paese, pur regredendo sempre più da un punto di vista economica, stia invece facendo balzi da gigante in territori musicali/artistici, tanto da rischiare di scalzare i godz mondiali. Gli Australasia ci presentano la loro personale interpretazione di post rock, dalle fosche tinte autunnali si, ma anche contraddistinto da un più elettrico e corrosivo uso delle chitarre. “Antenna” funge quasi da intro (ma intro non è) del lavoro e non fa altro che palesare l’amore del duo per l’entità post rock mondiali, penso soprattutto a God is an Astronaut ed Explosions in the Sky, certo che poi, quando la ritmica inizia a pestare sul serio deduco, che con il duo italico, si va ben oltre al post rock, nella normale accezione della definizione. Quando “Spine” attacca infatti, e ricompare il feroce fragore dei blast beat, rimango attonito ed affascinato dinnanzi siffatta espressione musicale. Sicuramente nel sound dei nostri compaiono le classiche stemperanti aperture ariose del genere “gentile”, ma accanto a queste si collocano pure, roboanti cavalcate dall’incedere devastante. E forse proprio in questo imprevedibile connubio tra forza e delicatezza, tra mostruosi riffing ed inserti elettronici, parti atmosferiche e melodie soffuse, che si nasconde il punto di forza dei nostri. “Apnea” inizia in modo più sinuoso, rilassato e finalmente si vede la comparsa di un angelo alla voce, mentre la musica assume connotati che esulano completamente dal metal e i suoni pian piano avvinghiano le mie terminazioni nervose, provocando un esaltante rilascio di endorfine, ma la song dura troppo poco per poterne assaporare tutte le sue sfaccettature. Va di scena (e scusate il gioco di parole) “Scenario”, song che si apre in modo canonico, per poi lasciar posto all’ennesima scarica al limite del post black (chi ha citato Deafheven?) contaminato dallo shoegaze. Cavolo anche questa dura troppo poco, che nervoso. Diamine, qualche brano più lungo non si poteva fare? Va beh, rassegnato di fronte a questa evidenza, mi lancio all’ascolto della seconda metà di questo EP: “Satellite”, “Retina” e “Fragile” completano questa release di sette pezzi, contraddistinte dalle melodie sonnacchiose della prima traccia, dalla robusta sezione ritmica della seconda contrappuntata da bei giri di chitarra ed infine dal pomposo e seducente sound dell’ultima traccia. Beh che dire, se non che anche oggi abbiamo scoperto una nuova interessante realtà nostrana, che auspico possa esplodere molto presto, grazie anche al vostro supporto, e possa dare del filo da torcere a tutte le realtà statunitensi, che ancora per poco primeggeranno nel panorama mondiale. “Sin4tr4”, una fantastica scoperta… (Francesco Scarci)

(Golden Morning Sounds)
Voto: 80

Frozen Ocean - A Perfect Solitude

#PER CHI AMA: Ambient/Post Rock
Ritorna sulle pagine del Pozzo, la one man band moscovita dei Frozen Ocean, sempre guidata dal factotum Vaarwel. La band, che avevamo incontrato in occasione dei due interessantissimi lavori che precedono questo “A Perfect Solitude”, esce con quello che probabilmente rappresenta il perfetto connubio tra “Vestigial Existence” e “Likegyldig Raseri”, però in una veste drasticamente più soft. La nuova release infatti risulta maggiormente orientata verso lidi ambient post rock, con ampio spazio concesso alla componente strumentale, con ben cinque song prive di vocals. Dopo la malinconica intro affidata a “Broken Window”, incontriamo “Somewhere Clouds Debark” e le nuvole cariche di pioggia iniziano ad incombere sulle nostre teste. Ecco subito trasparire quindi l’immagine autunnale legata al freddo, alle intemperie e quant’alto, con un’atmosfera drammatica e triste, che permea, fin dagli albori, il sound dei Frozen Ocean. Le chitarre drappeggiano decadenti tonalità grigio fumo, dall’incedere lento e oscuro, mentre le drammatiche clean vocals, recitano su un tappeto di ispiratissime tastiere. La terza “A Sunflower on the Prison Backyard” è una traccia di 13 minuti, di cui la metà, spesa in tocchi eterei di synth e la seconda metà che presenta invece la stessa plettrata alienante per i successivi sette minuti, con un riff melodico che fortunatamente si sovrappone, nell’ultimo spezzone di brano. Straniante ma deludente. “Mare Imbrium” ci avvolge ancora con delle tetre ed ipnotiche melodie, create dalle sue ammalianti tastiere, coadiuvate, in un secondo momento, anche da uno splendido giro di chitarra e dal freddo suono della drum machine. Poco importa però, la traccia, in piena tradizione burzumiana, fluttua nell’etere, catturando i miei sensi. Con “Camomiles” mi aspettavo qualcosa di sonnacchioso, invece si sfocia nel noise, con suoni non proprio cosi facili da identificare, tanto meno da immagazzinare; questa tematica sarà ripresa anche nella conclusiva “Cleavage and Emission”. “Unavailing Steps on Perpetual” mostra infine il lato più brutale dei Frozen Ocean, con un epico attacco blackish (e un quasi un accenno di screaming vocals), e delle atmosfere darkeggianti che mi hanno ricordato i finlandesi Throes of Dawn. Insomma, “A Perfect Solitude” è un lavoro contraddistinto da luci ed ombre, in cui la componente ambient/noise, mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca, mentre le song cantate e quelle più ispirate, mi hanno davvero entusiasmato. Da rivedere col prossimo album, in cui sinceramente nutrirò molte più aspettative. (Francesco Scarci)

(Wolfsgrimm Records)
Voto: 75

giovedì 8 novembre 2012

Wedding In Hades - Misbehaviour

#PER CHI AMA: Doom Gothic, My Dying Bride
Vi confiderò che la Francia, a differenza del Franz, non m'ha mai attirato molto musicalmente a parte per qualche complesso. E i Wedding In Hades confermano il mio scetticismo verso la loro scena. Composizioni prive di ogni originalità e testi squallidi, fanno da padroni in questa pubblicazione, rendendomi di difficile sopportazione l'ascolto. Per perizia, ho pure dato un ascolto al loro primo full length e mi sembrava nettamente migliore. Non nascondo invece che il gruppo cerca di crearsi una propria personalità musicale provando ad uscire dai stilemi del genere britannico, usando chiari riferimenti ai Type O Negative o ai Saturnus. La presenza della violinista Marie Clouet (scomodata dalla The Grand National Orchestra Of Ile De France), rimane marginale e, invece di aiutare la band ad emergere nelle composizioni, si confonde nel resto dell'opera. Ma le sorprese non si fermano qui, perché all'interno di questo disco trovo un'ulteriore supporto al mio giudizio: una traccia death metal. Fatta male per di più. Probabilmente è stata scritta apposta come un simpatico scherzo o come tattica geniale per dar risalto all'opera, ma in un contesto dove si fatica a produrre un buon disco, non vedo spazio per tali perdite di tempo. Non uno ma tre passi indietro dal disco precedente, a dimostrazione che ultimamente la BadMoonMan Music non ne azzecchi una in fatto di band, a differenza delle etichette gemelle. Bocciati. (Kent)

(BadMoonMan Music) 
Voto: 50

mercoledì 7 novembre 2012

Toorn - Kronieken Van Het Einde

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Toorn… Ira. “Kronieken Van Het Einde”… “Cronache della Fine”. Fatevi pure un’idea sul cosa aspettarsi dall’ascolto del secondo lavoro, uscito il 30 settembre, della one man band fiamminga, guidata da Mr. Gorik. La strumentale “A” apre il disco e le sue malinconiche melodie richiamano immediatamente il sound atavico dei Katatonia (era “Brave Murder Day”). Potrete pertanto immaginare la goduria per le mie orecchie, ma aspettiamo ad esaltarci; certo che quando “Omen” attacca, è inevitabile l’accostamento con i gods svedesi, anche in modo fin troppo eccessivo. Poco importa però, la band di Blakkheim e soci, ha ormai preso il largo verso altri lidi più rock, quindi ben venga la proposta death doom, dalle forti venature autunnali del mastermind belga. Se mi chiedete poi di descrivervi l’album, beh questo mi risulterà estremamente semplice: prendete ancora una volta il capolavoro della band svedese, traslate quel sound al 2012, quindi modernizzandolo con gingilli ed orpelli vari, tenendo come costante la lunga durata dei pezzi, un sacco di parti atmosferiche con voci soffuse, e avrete anche voi il vostro gioiellino di death depressivo a portata di mano. “Zomerzonnewende” apre con il più classico degli arpeggi, che tra l’altro ricopre buona parte della canzone, prima di lanciarsi in una sorta di climax ascendente, all’insegna di un sound emozionale che si mantiene comunque soffuso e decisamente melancolico. Poco spazio, ma va bene cosi, alla voce di Gorik, che si alterna tra un growling/screaming estremamente “gentile” ed alcuni vocalizzi oscuri ma puliti. Le chitarre stanno sempre li, a dipingere desolati paesaggi innevati, con le ritmiche che talvolta divengono aggressive (quasi black), e “Solitaire” ne è un esempio, che spinge sull’acceleratore che è un piacere, ma le cui keys di sottofondo e le parti arpeggiate, regalano deliziose melodie ancestrali. “Hiaat” è un altro pezzo strumentale che ci prepara al poker conclusivo, che si apre con i dieci minuti abbondanti di “Carpe Omnia”, song piuttosto ruvida, in cui il nostro Gorik sembra perdere per strada un po’ dello smalto con cui aveva deliziato il mio palato nella prima parte del lavoro: troppo poco convincente ed assai impersonale la ritmica nei primi cinque minuti; il classico intermezzo acustico, fortunatamente risolleva le sorti di una traccia di cui avrei certamente fatto a meno. “Winterzonnewende” lascia presagire sin dal titolo di essere una song dalle sfumature invernali, e l’ennesima apertura acustica (suggerisco una drastica riduzione di questo tipo di aperture), permette solo di intravedere le tenebre della notte nordica. Comunque ottima song che forse arriva addirittura a richiamare “Dance of December Souls” dei pluricitati Katatonia. “Ω” chiude in definitiva un album dalle ottime prospettive, che auspico non passi inosservato a chi, come me, si ciba di questo genere di calde sonorità autunnali. Poi siamo anche nella stagione giusta, quindi guai farselo sfuggire… (Francesco Scarci)

(Self) 

Voto: 80

Obsidian Sea - Between Two Deserts

#PER CHI AMA: Epic Doom, Candlemass, Isole, Saint Vitus
Son contento. Da tempo non mi giungeva in mano un'opera come questa, capace di riportami alla mente ricordi di bei tempi andati e farmi riaffiorare le stesse emozioni del passato. Sto parlando del debut album degli Obsidian Sea, gruppo di Sofia che in questa giorno mi ha accompagnato per tutto il pomeriggio. La band formatasi nel 2009, rilascia un demo nel 2010, prima di debuttare con questo "Between Two Deserts" proponendo un epic doom in completo stile Candlemass, con una buona attitudine classicista, che in certi passaggi li porta ad assomigliare a band come i Saint Vitus. L'artwork e i testi sono tutto ciò che apprezzo fortemente in una band che si avvicina all'epic doom, ovvero un pizzico di misticismo e magia insieme a molti elementi che richiamano immaginari fantasy e antichi. Purtroppo non posso dire lo stesso della musica. Nonostante un'ottima attitudine e delle buone tracce, il gruppo bulgaro non riesce a convincermi della sua completa validità artistica. Le composizioni sono grezze e scarne ma presentano anche una buona musicalità ed un equilibrato intrattenimento tra gli schemi troppo chiusi del genere ed una lieve presa delle composizioni proposte dalla giovane band. In pratica è un disco acerbo e primitivo, non solo nelle composizioni ma anche nei suoi suoni ruvidi e privi di ausili moderni. Confido in una futura release dove si capirà se questi Obsidian Sea riusciranno ad emergere attraverso una propria personalità o abbandoneranno i lidi del doom per addentrarsi a qualche contaminazione, dato che vanno tanto di moda ultimamente. Nel frattempo se siete amanti del metallo oscuro old school, vi consiglio di darci un paio di ascolti intensi, potrebbe anche ammagliarvi. (Kent)


(Solitude Productions) 
Voto: 65

Hypnotheticall - Dead World

#PER CHI AMA: Progressive (tanto), Power (pochissimo)
Gli italianissimi (e vicentini) Hypnotheticall si sono formati nel lontano (o vicino?) 1999, dall’incontro di tre elementi: Francesco Dal Barco (voce), Giuseppe Zaupa (chitarra) e Paolo Veronese (batteria). Dopo l’uscita del demo “In Need of a God?” nel 1999, a pochi anni di distanza ecco che vede la luce anche il primo lavoro (ufficioso, oserei chiamarlo) “Thorns”. Presisi una pausa di riflessione, nel 2005 tornano con dei nuovi membri: Mirko Marchesini (chitarra), che poi rimarrà fino ai giorni nostri. Uscito un altro lavoro nel 2006, e rimaneggiando le vecchie opere, si arriva all’anno in cui altri due elementi entrano nella band: Luca Capalbo (basso) e Francesco Tresca (batteria). Poco prima dell’uscita del vero e proprio album “Dead World”, Paolo Veronese esce dal gruppo. Rimarrà comunque citato nel booklet in quanto autore dei brani. La title track si apre con influenze industrial: suoni distorti, drum machine e aria inquietante. Dopo poco fanno breccia anche archi che aprono la strada alla chitarra forte e chiara. “The Eternal Nothingness of Sin” ha un ritmo incalzante ed aggressivo, mentre la batteria accompagna in modo scandito le parole, con qualche rullata qua e là. Tutta la canzone è un tripudio di batteria e chitarra, mentre la voce di Dal Barco rimane sempre grintosa. Nei ritornelli hanno inserito anche dei cori, che sollevano l’udito da un ritmo che rischierebbe di essere pesante. Verso l’ultima parte il ritmo diventa quasi acustico, rilassato: da li a poco si torna alla grinta iniziale, ma con una vena un po’ più melodica. Il loro primo singolo, “Fear of a Suffocated Wrath”, mostra una vena più melodica rispetto al brano precedente, ma comunque di forte impatto, avvicinandosi più ad un progressive metal condito da qualche scream, molto piacevole da ascoltare e cantare. “No Room to Imagination” cambia le regole in tavola: ritmo veloce, batteria pesante e la voce tornata al livello di “The Eternal […]”. Perfetta per essere cantata live, la song racchiude una perla di assolo di batteria+chitarra che si può trovare in altre band power-melodic: difficile tenere ferma la testa. “Heaven Close at Hand” sfiora leggermente l’industrial, con un intro di chitarra e batteria che ricorda (ma molto vagamente) le ambientazioni delle maggiori band americane. Tutto il brano è un vortice di diversa intensità: se all’inizio era incalzante, durante il cantato rallenta per accompagnarlo, tornando poi veloce e tosto. Degno di nota anche il massiccio uso della batteria in sottofondo. “Hi-tech Loneliness” mi ricorda un po’ gli Incubus, con la voce in primo piano e la chitarra appena pizzicata. Tutta la traccia si sviluppa su questo gioco, creando un ritmo sincopato. Molto interessante è anche l’assolo di chitarra, pieno di passione: un tributo al dio rock di stampo classico, dove la testa si reclina indietro e gli occhi si chiudono, assaporando nota dopo nota. “Lost Children” riprende il sound del singolo, con all’interno una piccola e breve occhiata alla musica mediorientale (a metà brano): si odono infatti note di sitar, e di un altro strumento a corde che viene suonato anche accompagnando la danza del ventre. Chiusa la parentesi arabeggiante, si torna al puro progressive dei Dream Theatre, i quali sicuramente avranno ispirato il nostrano ensemble. Questa è anche la prima canzone che si conclude sfumando, anziché chiudendo direttamente; probabilmente per accompagnare l’ultima traccia, la strumentale, “Bloody Afternoon”. Qui la chitarra torna nuovamente pizzicata ed acustica: mi immagino Zaupa seduto davanti ad un camino, in una giornata fredda e piovosa, mentre imbraccia la chitarra ed inizia a suonarla ispirato dal mood di quel momento; ne esce questa canzone calma e profonda, come racchiusa in un mondo tutto suo. Più che aver ascoltato un album, mi pare di aver fatto un viaggio, esplorando le diverse sfumature che il progressive può dare. Per essere il loro primo lavoro discografico, non è affatto male anche se ha bisogno di svariati ascolti per essere apprezzato pienamente. Ora non resta che aspettare il prossimo lavoro. (Samantha Pigozzo)


(Insanity Records) 
Voto: 75

Absinthium - One for the Road

#PER CHI AMA: Thrash, Heavy, Megadeth, Testament
Sono lì, controllo alcune cose del mio disordinato tavolo, e mi cade l’occhio sull’artwork di questo “One for the Road”. Penso: una taverna abbastanza oscura, una figura fatata dalla ragguardevole sensualità, un uomo disteso su un tavolo per colpa di un bicchiere di assenzio... mmm mi sa che qui andiamo sull’etereo, sull’impalpabile. Va bene, un po’ cauto metto il CD nel lettore, mi armo di cuffie e parto all’ascolto. Qui mi rendo conto che quella copertina è fuorviante: mi ritrovo infatti con otto canzoni thrash/heavy molto consistenti. Primo LP per i campani Absinthium, alle loro spalle hanno una storia iniziata nel 2003 e due demo (rispettivamente nel 2006 e nel 2009). Vari cambi nella formazione, e la scomparsa del singer Luca Cargiulo, hanno portato alle line-up attuale: Alessandro Granato alla voce, Franco Buonocore alle chitarre, Dario Nuzzolo al basso e Tommaso Ruberti alla batteria. Il primo ascolto mi lascia freddino, invece i seguenti mi convincono a) della bontà del loro operato b) del fatto di essere ubriaco al primo ascolto. Sopra dicevo della struttura delle tracks, ecco sono piuttosto influenzate dal metal degli anni ottanta e primi novanta. Attenzione non siamo alla clonazione dei classici gruppi del periodo (Megadeth e Metallica in primis), però l’ispirazione si è quella lì. La band fa un buon lavoro, si possono scorgere contaminazioni di altri generi con risultati spesso gradevoli e interessanti. Le tracce sono potenti e solide, si appoggiano su dei riffoni tiratissimi, ben eseguiti e nel complesso non troppo banali. Il cantato vi si amalgama bene: è pulito, evocativo e piuttosto orecchiabile. Decisamente quadrata la parte ritmica, regge adeguatamente il tutto. Ne esce una miscela heavy-thrash niente male, naturalmente ci sono momenti esaltanti e altri più aridi, l’insieme mi colpisce positivamente. Si sente la volontà di non appiattirsi dal punto di vista compositivo: i cambi di atmosfera, gli stacchi, gli assoli (classici, semplici, ma ben eseguiti) ne sono la prova. Cito, tra i pezzi, “H.A.I.L.” e “Mr. Nothing” con i loro buoni fraseggi. Ritengo però “Skull” la migliore del mazzo, la cui introduzione melodica, fa da contraltare alla sua susseguente esplosione, i cori e l’assolo morbido poi ne fanno il punto più alto del disco. Pollice verso per “Circular Saw” e l’inutilmente lunga “Black Gown”. Una prima prova che mi convince, piuttosto semplice nella parte della scrittura delle canzoni, ma ben suonata, ben prodotta, direi priva di grandissimi cali, ma che pecca di un qualcosa che possa colpire. Il titolo dell’album dovrebbe riferirsi all’ultimo bicchiere (no, fermi con gli oggetti contundenti, Nikki e Max Pezzali non c’entrano) da bersi prima di un lungo viaggio: ora mi auguro che il lungo viaggio sia una loro tournée, e non una loro assenza dalle sale di incisione. Mi aspetto un nuovo lavoro più deciso e personale. (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 Records)
Voto 70

martedì 6 novembre 2012

Yayla - Fear Through Eternity

#PER CHI AMA: Soundtrack Ambient, Burzum, Dead Can Dance, Popul Vhu
Yayla è il progetto con sede in Turchia del musicista Emir Togrul che abbiamo conosciuto qualche tempo fa con un lavoro di grande fascino ma che affrontava tutt'altra sonorità rispetto al presente “Fear Through Eternity”, dal titolo “Sathimasal” da noi allora ben recensito. Il valore di questo musicista ermetico consiste nel creare musiche estremamente profonde e coinvolgenti, oscure e molto criptiche. Yayla stavolta elimina ogni tipo di suono distorto, al contrario del precedente lavoro, e misura la sua capacità compositiva con una colonna sonora preparata ad arte per un suo film, dal titolo ovviamente uguale all'album “Fear Through Eternity”, di cui si può vedere il trailer sul sito www.merdumgiriz.org, sito che ospita tutti i lavori del suddetto artista (purtroppo non siamo riusciti a risalire alla tematica del film, ne a vederlo, non conosciamo il suo scopo commerciale o la sua distribuzione, ma sembra sia autoprodotto dall'autore, e quindi ci siamo accontentati del trailer). Il nostro cavaliere nero si arma di soli synths e qualche sparuta percussione e spolvera otto brani molto legati tra loro, tutti molto bui e riflessivi, nebbiosi e umidi. La colonna sonora così concepita e staccata dal collante immagine, risulta molto ostica e monolitica al primo ascolto per poi divenire famigliare, interessante e piacevole ai successivi ascolti. Siamo di fronte a qualche cosa di ferale ma molto melodico che ricorda a tratti la colonna sonora del film “Nosferatu” con K. Kinski, capolavoro dei mitici Popul Vhu, luminari del krautrock ma con uno spirito oscuro, più vicino alle cose sinfoniche, ambient e melodiche di Burzum (vedi la parte iniziale del brano “Der Tod Wuotans” dall'album “Hlidskjalf”), una spruzzatina del sound mistico dei Dead Can Dance senza cantato, ed i prestigiosi giochi percussivi del duo anglo/australiano, e il gioco è fatto. Questo album non è per tutti e la sua musica è cosa che più distante si possa udire dal mondo del metal o del rock! Ma chi avrà la volontà e il piacere di affrontarlo a orecchie ben aperte, non ne rimarrà certo deluso, anzi ne assaporerà la profonda nuova catarsi di un musicista molto molto motivato. Ascolto da provare! (Bob Stoner)

(Self) 
Voto: 70