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domenica 29 luglio 2012

Fall of Serenity - The Crossfire

#PER CHI AMA: Death, Thrash
Ecco il death/thrash spietato dei teutonici Fall of Serenity, in giro ormai da quasi quindici anni; di gavetta i nostri ne hanno fatta parecchia e “The Crossfire” è uno dei risultati di questo duro e costante lavoro. Dopo “Bloodred Salvation” del 2006, il quintetto, che della line-up originale mantiene solo i due axemen, sciorina dieci violentissimi pezzi, accomunati da un minimo comun denominatore: ritmica serratissima con riffs affilati come rasoi e una batteria in pieno stile mitragliatrice, guidano questa ferocie macchina da guerra; le vocals super incazzate di John Gahlert (che nel precedente lavoro vestiva i panni del bassista), qualche spruzzata di melodia e il risultato che ne viene fuori è accattivante, per una serata in compagnia di amici scatenati: il pogo è assicurato! La Lifeforce ha puntato molto sullo spirito pulsante del combo teutonico e sono fortemente convinto che, almeno in patria, i Fall of Serenity godano di un buon successo, forti anche della partecipazione, in veste di guest star, di Sabina Classen (Holy Moses e Temple of the Absurd) alla voce, nel brano "Knife To Meet You" di cui è presente anche il videoclip. Massici, incazzati e determinati più che mai a spaccare le ossa, i Fall of Serenity sono tornati con una release che non vi darà il benché minimo respiro… (Francesco Scarci)

(Lifeforce Records)
Voto: 65


Parkway Drive - Horizons

#PER CHI AMA: Metalcore, As I Lay Dying
Metalcore, ah la mia disperazione: questa volta i ragazzi arrivano dall’Australia, alla ricerca della tanto agognata fortuna. “Horizons” rappresenta il secondo lavoro per il quintetto dell’emisfero australe: dodici schegge di metalcore furioso, con trame chitarristiche che fanno il verso in modo molto palese agli As I Lay Dying e agli In Flames degli anni ’90. Chitarre al fulmicotone, interrotte puntualmente dagli ormai poco amati stop’n go, vocals corrosive (mai un accenno a clean vocals in questo lavoro, se non in “Frostbite”), riffs ripetuti alla morte e qualche buon assolo come in “Idols and Anchors” e “Breaking Point”, rendono la seconda fatica del combo di Byron Bay, un oggetto prelibato, a mio avviso, solo per gli amanti del genere, non ancora saturi, di questa tipologia di sonorità. Piacevoli melodie, sempre assai catchy, ottimi suoni, un grande bilanciamento degli strumenti ed una eccellente performance dal punto di vista tecnico, completano questo lavoro, che ricordo esser stato prodotto dal chitarrista dei Killswitch Engage, Adam Dutkiewicz. C’è da lavorare sicuramente ancora per raggiungere le vette dei maestri, tuttavia sono fiducioso per il futuro di questi giovani ragazzi... e in effetti non mi sono sbagliato! (Francesco Scarci)

(Epitaph)
Voto: 65
 

mercoledì 25 luglio 2012

Frangar - 1915 Tutto per la Patria

#PER CHI AMA: Black Thrash Punk
Oggi avevo voglia di riesumare l’EP del 2007 dei Frangar, band che è stata mia ospite nel Pozzo dei Dannati e con il cui frontman, il Colonello, mi sono anche scolato un paio di bottiglie di Barbera. Cosi per scaricare un po’ la tensione accumulata a lavoro, ecco spararmi in faccia questo trittico di song che miscelano l’ardore del thrash metal con l’irruenza del black, il tutto cantato rigorosamente in italiano e accompagnato da registrazioni storiche o cinematografiche (Colonnello per favore dammi delucidazioni) di marca militare, che lasciano presagire la svolta che i nostri andranno ad intraprendere col successivo “Bulloni Granate Bastoni”. Le song sono belle incazzate come sempre, sporche come solo il punk-hardcore può esserlo, con il pregio di saper offrire qualche variazione al tema (ad esempio degli assoli in “La Settima di Dio”), nelle sue linee di chitarra. “Presente” apre con la storica “Il Piave mormorava…” giusto per non nascondere la rilevanza e il fascino che le Guerre Mondiali hanno prodotto sul quartetto piemontese, ma anche una forma di dedica a tutti gli italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale e forse proprio il suo incedere marziale, vuole celebrare questo, distinguendosi invece da un inizio molto più feroce e aggressivo, quale quello di “Inno alla X Mas”. Ancora una volta, vorrei sottolineare che non me ne frega nulla, se in questa musica vuole esserci un messaggio politico, patriottico o quant’altro, io ascolto, valuto e godo, esclusivamente per quello che un cd è in grado di trasmettermi a livello emozionale e devo dire che “1915 Tutto per la Patria” ha saputo appagarmi, grazie a quelle sue atmosfere militaresche, unite ad un sound spavaldo e robusto. Belligeranti! (Francesco Scarci)

(B.M.I.A.)
Voto: 70

Meniscus - Absence of I

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
“Si viaggiare…” cantava Battisti 30 anni fa e io continuo a farlo, rimbalzando da una parte all’altra del globo alla scoperta di nuove entusiasmanti realtà e il mio viaggio, fa oggi tappa in Australia, alla scoperta dei Meniscus. Di primo acchito un nome del genere, mi farebbe pensare a quelle band anatomo-patologiche dedite ad un grind-splatter gore. Niente di più sbagliato, i nostri baldi giovani aprono questo Ep di sei pezzi, citando subito una delle band che ha fatto la storia del rock, i Pink Floyd, prima di iniziare ad entusiasmarmi enormemente con un sound notturno, che seguendo le orme di valide realtà del panorama post rock odierno (e mi vengono in mente Explosions in the Sky e Russian Circle), intraprende un sentiero fatto di magnifiche e fluttuanti melodie, il tutto centrifugato con una tecnica ineccepibile da tre ottimi musicisti, che una dopo l’altra, immortalano il proprio sound con dei grandiosi pezzi. “Cusp”, “Pilot”, “Mother” mostrano la vena progressive/post rock dei Meniscus, che seppur priva della componente (per me fondamentale) del cantato, riesce a catturarmi e lentamente avvinghiarsi alle mie interiora. Atmosferici, malinconici, carichi di groove e al contempo di visioni oniriche, senza tralasciare la pesantezza dell’heavy metal nelle sue ritmiche più rabbiose o un certo feeling etnico, questi sono i Meniscus. La sensazione che mi genera l’ascolto di questo disco è quella di vivere un sogno, dove le immagini sono decisamente sfocate e i suoni risuonano lontano come l’eco che rimbalza sulle pareti rocciose delle montagne, fino a giungere alle mie orecchie. Beccheggiante, come l’andatura delle barche a vela sul mare, “Idiot Savant” potrebbe rivelarsi il brano ideale per una crociera in libertà, perché quella che respiro è si aria di indipendenza, con il vento che soffia in faccia. Apro i polmoni e mi lascio trasportare in mercati mediorientali con sonorità arabeggianti, presto spazzate via da un riffing acuminato e da un drumming fantasioso. Eccelsi, non c’è che dire, anche per uno come me che di dischi strumentali non vuol sentir parlare. L’album si chiude con la timida e al tempo stesso roboante title track e con il cicalio di “Far”, dove ancora il suono lontano di timide percussioni, mi spingono a veleggiare verso nuovi lidi lontani… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 85

martedì 24 luglio 2012

Kubark - Kubark

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, A Perfect Circle, Isis, Russian Circle
E dopo aver recensito il nuovo EP dei To a Skylark, non potevo esimermi dal valutare anche il primo demo dei piacentini Kubark, che abbiamo visto recentemente su queste stesse pagine con l’EP “Ulysses”. Ero curioso di conoscere gli esordi del quartetto emiliano e direi che la mia aspettativa non è stata delusa. Se prendete come punto di riferimento le parole spese dal sottoscritto per il loro ultimo EP, aggiungete un po’ di cattiveria a quel loro sound alternative/post rock, assai vicino alle cose degli A Perfect Circle/Tool, condite il tutto con quel feeling un po’ grezzo tipico dei debutti, dilatate il sound a coprire con soli due pezzi più di 18 minuti, potrete forse capire che cosa intendo. “Autogenic” apre e chiude con quel suo ipnotico e ubriacante avanzare, che finisce con l’ammaliarmi sul continuo ripetere del vocalist “Son of me, son of my eye”, prima che una furia inattesa, esploda dirompente, nel growling finale. “Meat” è il classico trip targato Kubark, cosi come abbiamo avuto modo di ascoltare nelle nuove ultime tracce, in cui il vocalist, non ancora al meglio della sua performance, riesce comunque a trasmettere tutta l’emotività della band, che in questa song sembra viaggiare molto più su coordinate progressive e post rock, in cui a colpirmi maggiormente è il suono pulsante del basso e l’effettistica della chitarra. Si, insomma, questo demo self titled, mi è servito a capire che i Kubark non sono certo degli sprovveduti e che “Ulysses”, non è di sicuro uscito per caso… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70 
 

To a Skylark - Tides

#PER CHI AMA: Progressive, Post Metal, Nahemah, Porcupine Tree, Opeth
Della serie “a volte ritornano”, ecco fare di nuovo la propria comparsa i vicentini To a Skylark, di cui avevo perso le tracce ormai tre anni fa, poco dopo il rilascio del loro debut omonimo, per mano della WormHoleDeath. Ebbene, i nostri sono riusciti nel frattempo a partorire ben due tracce (e chissà quando ne ascolteremo di nuove, se il ritmo è questo), ritrovarsi senza etichetta, assoldare in modo definitivo Riccardo Morganate alla chitarra e inglobare nella band, Matteo Galarsa Dalla Valle, dietro ai synth. Se la qualità è questa però, posso fare un piccolo sforzo e attendere magari un lustro per avere tra le mie mani un album completo. “Tides” è appunto un 2-track EP della durata di poco più di 18 minuti, che comprende l’iniziale “High Tide”, che nella sua parte introduttiva di quasi quattro minuti, ci regala un poderoso tributo psichedelico ai Pink Floyd, prima di esplodere fragoroso, in un incedere post progressive e prima che l’irruenza delle growling vocals di Alessandro Tosatto, irrompa furiosa nelle mie casse. La ritmica si presenta decisamente più incazzata rispetto al debut album, ma poco importa perché sono le parti più atmosferiche a spezzarne la sua violenza, cosi come le ottime clean vocals del buon Alessandro a regalarci raffinati momenti di quiete, troncati solamente dall’apparizione, quanto mai inattesa, di buoni assoli. Rimango esterrefatto, ancor di più quando parte la malinconica “Low Tide”, che ancora una volta, rievoca in me la prova degli spagnoli Nahemah, che a mio avviso riconosco essere l’unica band che si possa avvicinare alla proposta del sestetto veneto. E rieccoli prendere il via con tutta la loro aggressività, accumulata nel corso degli ultimi quattro anni: rabbiosi nello strapazzare le corde delle chitarre e del basso o le pelli della batteria, abili nel portarci in cima alla montagna e poi stordirci con un pezzo di musica flamencata, con tanto di nacchere e chitarra acustica a guidarci verso lo strapiombo, violentarci nuovamente con un poderoso sound, prima del loro ennesimo nostalgico commiato. Ottima la produzione, ineccepibile la prova del vocalist e buona quella dei singoli musicisti, splendido il packaging del Lp (per ora un cd non esiste, largo alla musica digitale, non per me ovviamente), con un vinile trasparente e una cover color fuxia, che riporta in rilievo le lettere che scandiscono un nome, da tenere assolutamente a mente… To A Skylark! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

Rain Paint - Nihil Nisi Mors

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Sentenced
Dai membri dei finlandesi Rapture, Fragile Hollow e Denigrate hanno preso vita i Rain Paint, band che raggiunse il traguardo del debutto discografico grazie all’allora giovane e ottima etichetta italiana My Kingdom Music. Se da una parte i Rapture hanno poi proseguito il tema musicale interrotto dai Katatonia dopo la pubblicazione del bellissimo “Brave Murder Day” e i Fragile Hollow si adagiarono su meste atmosfere gothic-rock, i Rain Paint potrebbero collocarsi a metà strada tra le due formazioni, cogliendone gli aspetti peculiari ma non riuscendo sempre ad amalgamare il tutto con la dovuta maestria. Il principale limite che ho riscontrato nell’ascolto dell’album è nelle parti vocali, a tratti piuttosto acerbe e "macchiate" da inserti growl che non trovo per nulla disprezzabili, ma che certamente sono fuori contesto per un tipo di musica come quella dei Rain Paint. Il gothic metal dei nostri vorrebbe emozionare con atmosfere romantiche e al tempo stesso vigorose, ma fallisce in questo intento per un songwriting ancora un po’ disorientato e delle soluzioni compositive che già altri gruppi come Sentenced, October Tide e The 69 Eyes ci hanno ormai riproposto in tutte le salse. “Nihil Nisi Mors” non è comunque un lavoro criticabile sotto tutti i punti di vista e alcuni brani come “Rain Paint” e “Freezes Day” proseguono senza intoppi, rivelando una discreta capacità del gruppo di dare corpo alla struttura generale dei pezzi e facendo trapelare l’esperienza accumulata dal principale compositore Aleksi Ahokas all’interno dei Prophet, band attiva fin dal 1997 e che prima del cambio di monicker in Fragile Hollow aveva già dato alle stampe un paio di mcd. Nonostante le credenziali del gruppo, “Nihil Nisi Mors” si rivelerà però un album che lascia parecchi punti interrogativi e la strana sensazione che permane dopo ripetuti ascolti è quella di avere a che fare con delle canzoni che, per quanto scorrevoli, siano ancora un po’ troppo immature per la pubblicazione di un full-length. Un lavoro senza infamia e senza lode, dunque, che non mette necessariamente in cattiva luce il nome della band, ma alimentò la speranza di ascoltare dai Rain Paint qualcosa di ben più convincente in occasione del successivo album. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 60

Plasma Pool - I

#PER CHI AMA: EBM, Black, Techno
I Plasma Pool nacquero a Budapest nel 1990 dall”idea di tre artisti provenienti da diverse esperienze musicali: Attila Csihar, che fu membro e cantante dei Tormentor (black metal band di culto negli anni ottanta) e che prestò la sua voce in “De Mysteriis Dom Sathanas” dei MayheM, László Kuli, batterista proveniente dalla scena hardcore-punk ungherese e infine István Zilahy, tastierista dedito ad una musica elettronica-psichedelica. Nei primi anni novanta i tre si dedicarono ad un’intensa attività live che li vide esibirsi in discoteche e piccoli club in ogni angolo dell’Ungheria e che li proiettò verso un successo improvviso ed inaspettato. La band non impiegò molto ad assurgere allo status di indiscutibile leggenda underground grazie alle numerose gig tenute in terra d’origine: spettacoli che vengono descritti, da chi ebbe la fortuna di vivere quegli anni d’oro, come terrificanti performance di musica techno, vere e proprie esperienze alienanti che trascendevano la dimensione fisica! Nel gruppo, vita e musica venivano entrambe portate all’estremo e si tramutarono ben presto in veicoli di un’energia tanto vitale quanto distruttiva, l’energia primordiale del Sole che fu alla base del credo dei Plasma Pool e che la band stessa non riuscì a convogliare nella giusta direzione, rimanendone folgorata e lasciandosi sopraffare dagli eccessi. Il trio si sciolse così nel 1994, consegnandoci l’eredità di alcune registrazioni in studio che sono raccolte in questo album assieme a materiale live. Questo primo capitolo, che fa parte di una trilogia ancora incompleta (il secondo episodio “Drowning” è uscito per l’italiana Scarlet nel ‘99), venne diffuso inizialmente su nastro dalla Trottel Records di Budapest e solo nel 1997 venne pubblicato su CD dalla nostrana Holocaust, grazie al forte e ancor vivo interesse che alcuni addetti ai lavori della scena musicale underground italiana ed ungherese (come Luigi Coppo e Vámosi Tamás) manifestarono attorno al nome Plasma Pool. “I” è un documento prezioso, più che un semplice debutto, un ritratto fedele di una band rimasta da sempre avvolta in un alone di mistero e autrice di una musica geniale e malata che trova negli Skinny Puppy la propria diretta discendenza. L’elettronica dei Plasma Pool è sporca, deviata, grezza ed istintiva, una techno "esoterica" creata sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. In “Prince of Fire” la voce versatile e corrotta di Attila è quella di un oscuro sciamano in preda alle alterazioni di una mente in trance e nelle successive “False the Saints” e “Story of Flying” prende vita un mantra di energie occulte in cui sangue e spirito si compenetrano pericolosamente. “Brainsucker” è un brano ballabile di una techno ancora acerba e allo stato embrionale mentre in “1993” e “Again” (registrate dal vivo nel ‘92, rispettivamente a Budapest e a Szeged), il terrore diventa più che mai palpabile e prende forma in un suono penetrante e maledetto che, attraverso la modernità di synth e campionatori, risveglia suggestioni ancestrali e paure arcane. Tra le ritmiche indiavolate di “Spider” (registrazione live del ‘93 a Sopron), è invece la follia a prendere il sopravvento e a svelare stati di percezione distorti e poco rassicuranti; a chiudere l’album sono invece “Elsiettet Temetès” (sepolture premature) e “Tampa Baj”, le due registrazioni in studio più recenti (1994) che si accostano maggiormente a macabre ambientazioni dal sapore medievale. Ascoltare i Plasma Pool è un’esperienza trascendentale, un’immersione totale in un vortice di paura e mistero che coinvolge tutti i sensi, è la perdita del proprio controllo e della ragione, è l’alienazione da tutto ciò che ci circonda. È la follia. (Roberto Alba)

(Holocaust Rec.)
Voto: 90
 

Toehider - To Hide Her

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Experimental
Oh my God. Ripeto, Oh my God. Dico io, non può arrivarmi un cd così tra capo e collo, dalla copertina disegnata in stile psichedelico anni 70 e nascondere un capolavoro del genere. Ho per le mani l'album dell'anno ed è tutta colpa di questo genio, tal Michael Mills, australiano con le idee chiarissime e dal progetto ambizioso: diventare una rock star, di quelle vere, vecchio stampo. Tutto ebbe inizio nel 2008 quando uscì il primo EP e subito dopo inizio il Progetto, quello con la P maiuscola. Scrivere 12 album in 12 mesi (12 in 12). Direte voi, neanche i Queen ai tempi d'oro potevano farcela. Invece no, TOEHIDER scrive 67 (!!!) tracce in 12 mesi, a cavallo del 2009 e 2010. Dopo una meritata pausa, nel 2011 esce questo full length "To Hide Her" che conferma la sopravvivenza di Michael Mills dopo la pazzia del "12 in 12". Devo dire che ho prima ascoltato questo cd e poi sono andato a vedere la storia del gruppo (inizialmente del solista), altrimenti rischiavo di risentire della responsabilità di commentare questo capolavoro.La base di tutto è comunque la semplicità, infatti tutto parte da una base di prog con diverse influenze per singola traccia. Apriamo con "Oh my God, He's an Idiot", struggente pezzo guidato da chitarra arpeggiata e una voce incredibile, metà Bruce Dickinson e metà Justin Hawkins che entra dopo trenta secondi di silenzio assoluto e nasconde un testo volutamente banale ed ironico. Tutto questo viene spazzato via da "The Most Popular Girl in School" con una breve intro di chitarra pop-rock e da uno sviluppo in stile Queen (i cori sono inconfondibili) e addirittura un assolo di xilofono, improponibile per qualsiasi musicista, ma estremamente naturale per i TOEHIDER. Un tuffo di vent'anni in in cinque minuti netti. La mia preferita è "Daddy Issue", una canzone che potrei definire emotional-prog rock per lo sviluppo strumentale, Concludiamo con il pezzo che conferisce il nome all'album e che tira fuori le palle del gruppo, infatti ci sono dei riff heavy metal ignoranti (licenza poetica) mescolati a loop elettronici e basso che fraseggia in funky. Ecco un pò di cattiveria, ma con stile. Gli altri pezzi andateveli ad ascoltare, non perdete altro tempo a leggere e cliccate "Buy" da qualche parte su internet. PS: Bisogna dire che la macchina TOEHIDER è grossa, ottimi sponsor alle spalle e una gestione mediatica degna di gruppi più blasonati. Speriamo che la fama non li bruci, almeno prima di averli ascoltati per diversi album e visti dal vivo. (Michele Montanari)

(Bird’s Robe Records)
Voto: 90 
 

lunedì 23 luglio 2012

Ordeal by Fire - Roots and the Dust

#PER CHI AMA: Gothic Rock, The Fields of the Nephilim
Per questioni d’anagrafe non sono forse la persona più adatta per valutare un lavoro come “Roots and the Dust”, che rifacendosi ad un gothic-rock vecchia scuola, necessiterebbe quanto meno di un recensore più navigato di me! Tuttavia, penso non serva maturare alcuna anzianità per riconoscere una band con dei numeri e in questo senso gli Ordeal By Fire colpiscono già dal primo ascolto per la loro grinta e la loro preparazione tecnica. Non fatevi ingannare dal nome, perché non è di musicisti in erba che stiamo parlando e se negli ultimi anni avete sfogliato qualche fanzine italiana del settore saprete meglio di me che il gruppo nasce dalle ceneri dei torinesi Burning Gates, nome di culto della scena gothic-rock nostrana, che tra il 1996 e il 2002 ha rilasciato tre album: “Risvegli”, “Aurora Borealis” e “Wounds”. Ed è proprio dallo scioglimento ufficiale dei Burning Gates che il membro fondatore Michele Piccolo ha voluto ripartire, dando il via ad un nuovo cammino sotto il nome di Ordeal By Fire, assieme a Riccardo Perugini (chitarra), Fabrizio Filippi (basso) e XXX (batterista dei Right in Sight). “Roots and the Dust” è il primo passo discografico della band, un EP di ruvido e potente gothic-rock nel quale feeling e perizia esecutiva si incontrano magicamente; quattro tracce dalle tinte forti che ci accarezzano, ci percuotono... ci fanno sentire vivi! La sintonia tra i ragazzi degli Ordeal By Fire è talmente perfetta che nessuno degli strumenti riesce a prevalere sugli altri, anche se ascoltando l’ultimo brano “New Dark Age” (cover dei The Sound) risulta davvero difficile rimanere indifferenti alla prova superlativa del chitarrista Riccardo! Il cantato sottolinea invece con vigore ogni passaggio, destreggiandosi tra timbriche basse, ruggiti alla Carl McCoy e decise sferzate dalle tonalità più alte in cui l”ugola graffiante di Michele pare trovarsi più a suo agio. Forse in “Roots and the Dust” andava rifinito ancora qualcosa nella produzione ma per il resto quello degli Ordeal By Fire è un esordio più che convincente e ora rimane solo la curiosità di saggiare dal vivo questi brani che sembrano nati proprio per essere vissuti sul palco. (Roberto Alba)

(Innermost Phobia)
Voto: 75

Graveflower - Returning to the Primary Source

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, October Tide, Paradise Lost
Già dalle prime note sono eccitato per questo album. Sinceramente non sapevo bene cosa aspettarmi, l'intro di "White Noise" è alquanto enigmatica e mi ha subito conquistato. Poco più avanti emerge nettamente la natura death/doom della band russa. Parto subito dicendo che la qualità audio è perfetta e riesce a far risaltare ogni strumento facendomi apprezzare ancor di più questo lavoro. Che la band non sia emergente (le cronache narrano di una loro formazione nel 2002) si sente subito dal songwriting che abbraccia sia lo stile decadente britannico che quello più cupo svedese. Le tracce sono originali e ben strutturate, colme di interessanti intermezzi e riff strazianti. La proposta artistica non si ferma però ai clichè del genere, in quanto riesce ad implementare parti originali come l'arpeggio mistico di "White Noise", gli armonici di "Rain in Inferno" o la cavalcata sludge della seconda parte di "Falling Leaves", traccia per questo paragonabile a "Shutter" dell'ultimo lavoro dei Forgotten Tomb. Nel loro piccolo i nostri compagni sono arguti nel non sfiancare mai l'ascoltatore. Questo full-lenght non è un susseguirsi di morte-depressione-claustrofobia-morte-romanticismo inglese, bensi presenta delle piacevoli parti in acustico dove i musicisti danno prova del loro lato più tranquillo e pacato. Anche se leggermente malinconiche queste parti contribuiscono a creare, oltre che una splendida atmosfera, uno stacco dall'aria pesante ed oscura che prevale sul disco. Insomma, si può dire senza paura che questi Graveflower sono veramente validi. Le idee non mancano, la tecnica pure, un’ottima produzione contribusce ad impreziosire il tutto. A parte l'artwork che non mi aveva convinto molto al primo approccio, direi che per il prossimo futuro mi aspetto molto da questo combo russo. (Kent)

(Solitude Productions)
Voto: 80 
 

Agruss - Morok

#PER CHI AMA: Post Black, Death, Crust, Behemoth, Dissection
Cheffigata. Vorrei liquidare così la recensione di questo "Morok" degli ucraini Agruss. Sono veramente senza parole dopo l'ascolto di questo lavoro. Felicemente sconvolto dalla loro opera mi metto a cercare le parole giuste per descriverla al meglio per poter trasmettervi quello che ho provato io all'ascolto delle prime note di questo trionfo della morte. Non è tanto la musica a far da padrone a quest'opera ma le atmosfere che essa produce. Beh comincio presentandoveli con informazioni reperite dalla rete, dato che le uniche parole del packaging sono solo la tracklist sul retro della confezione. Gli Agruss si formano nel 2009 a Rivne, e "Morok" è il primo disco di una trilogia riguardante la "vita" dopo il disastro di Cernobyl. Difatti l'opera è stata rilasciata durante il 26° anniversario della disgrazia sovietica. L'attitudine della band è orientata verso il crust, quindi due cantanti (uno specializzato in growl ed uno in scream), improvvisi cambi che portano a ritmi forsennati ed atmosfere malsane. Dai tag avrete già capito che ha qualcosa di speciale questa musica. Ma bisogna davvero ascoltare per riuscire a capire veramente ciò che vorrei raccontarvi. L'opera si apre con "Damnation", preludio colmo di un oscuro shoegaze, accompagnato da apocalittici cori che vanno a sfociare in una malvagità senza precedenti. Il primo impatto è un black/death imponente dal ritmo pestato, ma all'entrata del rullo giunge il black metal più totale, con lo screaming lacerante che poco dopo si alterna ad un growl gutturale, accompagnato da veloci fraseggi chitarristici. Con il blast beat si raggiunge l'apice della violenza di questo primo scorcio di dolore, stoppato da un breakdown che mi trasporta in un attimo di calma shoegaze per poi rifiondarmi di nuovo nella più totale brutalità crust. La traccia, alquanto prolissa e sconvolgente come introduzione di quest'opera ci lascia, scemando con un sottofondo costituito da un ribollio inquietante che apre la seguente "Morok". La title track si presenta dalle tinte lugubri per poi trasformarsi in un death metal tecnico e corposo che in alcune occasioni si maschera di depressive. La parte centrale del disco presenta più compattezza compositiva con "Punishment for All", "Fire, the Savior From Plague" e "Ashes of the Future". Tracce capaci di concentrare al massimo il tecnicismo death, i gelidi riff del black e la devastazione del crust. "When the Angels Fall" sinceramente non m'ha preso subito come le altre, la ritengo la traccia più core per via dei vari breakdown e della prevalenza del growl, tuttavia ognitanto scopre delle parentesi con notabili sfuriate crust e tremolo picking black. Ora inizia la triade di "Under the Snow". Tracce che racchiudono la parte più shoegaze, depressive ed ambient della band, con episodi che a tratti raggiungono anche un funeral doom, in primis la parte III. Non viene però accantonata la vena più malefica del combo ucraino che puntualmente riprende il predominio sulle composizioni. Gli Agruss hanno saputo fondere vari generi ed ambientazioni assai ostiche, difatti ricordano i gruppi più disparati all'ascolto: breakdown in stile Molotov Solution, passaggi alla Nile, muri sonori tipici dei Nagflar o Behemoth, rabbia rifacenti ai Iskra e Martyrdod, insieme ai riff più freddi e malefici di Craft e Ancient. Ma i gruppi che più mi sovvengono come elemento portante di tutto sono i Dissection per come riescono ad amalgamare il black più grezzo alla potenza del death e i Black Kronstadt per la struttura musicale (ad esempio le classiche intro narrate o le malsane atmosfere) e lo spaziare dalle parti più tranquille al crust più cieco e devastante. Beh, che dire, sono stato veramente sorpreso fin troppo positivamente da questo debut album. Anche se non amante delle sonorità brutal death, mi son trovato davanti ad un prodotto veramente ben congeniato che merita l'appoggio di tutti gli amanti delle sonorità estreme. (Kent)

(Code 666)
Voto: 85
 

Mind Split Effect - Introspection

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Anathema, Porcupine Tree
Mind Split Effect è un progetto solista nato nel 2011 dal francese Maxime Defrancq che partorisce questo "Introspection". Attualmente i Mind Split Effect sono composti da quattro elementi e stanno lavorando ad un nuovo cd. L' autore di "Introspection" dichiara che la sua musica trae inspirazione dalle opere di Jack Kerouac, scrittore americano e fondatore del movimento Beat. Non starò qua a dire se l'influenza si sia riversata nello stile dei Mind Split Effect e in che modo, piuttosto andiamo al sodo e vediamo cosa offrono in termini di musica. So di ripetermi, ma ho già scritto che i progetti solisti sono facilitati dalle nuove tecnologie e se uno se la cava con software vari , può sopperire al fatto di mandare avanti un progetto da solo. Alcune cose sono comunque da rivedere, come il basso sintetizzato in "My Mind Out of Reach", troppo sterile per sembrare vero e poco convincente se si volesse credere alla raffinatezza tecnica. La canzone poi comunque ha un ottimo svolgimento, con suoni freschi e la voce che aiuta a creare un ottimo amalgama. Cinque minuti con diversi stacchi, assoli e struttura ritmica coinvolgente. "Leaving my Body" inizia con un bel arpeggio di chitarra che poi vi fa pentire di averlo pensato quando entra la solista, dal suono veramente poco convincente. Il pezzo rimane lento per tutta la sua (breve) durata. Ho apprezzato anche l'uso della chitarra acustica in "...Ataraxy" e "On the Road", sempre per una continuità nella freschezza dei suoni, aiutati anche dal pianoforte incastonato in modo perfetto. Sembra quasi che la cura dei dettagli sia altalenante in questo "Introspection", il nostro Maxime sembra metterci l'anima, ma si vede che la mancanza di un gruppo alle sue spalle, non permetta il confronto interno e quindi il miglioramento di certi aspetti. Sarà per questo che ora i Mind Split Effect sono in quattro? Vedremo, attendo il prossimo lavoro. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 65 
 

mercoledì 18 luglio 2012

A Prison called Earth - Rise of the Octopus (Realistic Tale of a Sprawling City)

#PER CHI AMA: Progressive Symphonic Metal, Dol Ammad
Concept demo cd davvero interessante per questa band di Nantes, che propone un sound di non facile ed immediata catalogazione. Un lavoro suddiviso in 3 parti, la cui iniziale, “Subterranean Evolution” ha un piglio progressivo, che trova il primo vero spunto particolare, a cui realmente ho postato l’orecchio, in “The Secret Transmission”, dove le vocals di Florent, sembrano trarre qualche ispirazione dal rap; niente di scandaloso, anzi, ma qualcosa di piuttosto innovativo. “An Army of Iconoclastic Robots” invece mi è ronzata un bel po’ nella testa per le sue cibernetiche tastiere, quanto mai spettrali e molto eighties, che coniugato ad un riffing squisitamente suggestivo, mi ha rinvenuto alla memoria gli esordi dei cechi Master’s Hammer. Certo siamo lontani anni luce dalla proposta black epic del combo est europeo, ma la vena che si scorge in taluni frangenti, può essere riconducibile a “Jilemnický Okultista”. Chiaro che poi quando ascolto “Contagion of Anger”, mi accorgo che siamo molto più vicini al rock piuttosto che a sonorità estreme, complice le vocals assai pulite e rappate. Abbandonata la prima parte, ci addentriamo in “The Great Awakening” dove sembra prevalere la componente heavy metal, anche se le orchestrazioni presenti, mi fanno ipotizzare una qualche vicinanza del sound dei nostri, a quello dei greci Dol Ammad e alla loro proposta sinfonica. Tanta carne al fuoco in questa lunga sfilza di tracce (17), che portano la durata del demo a più di 50 minuti. In “Rise and Fall of Steam Babylon”, terza parte del disco, echi di Orphaned Land e Dream Theater, completano un’opera sicuramente ambiziosa, che non potrà non far gola a tutti coloro dotati di un palato un po’ più raffinato rispetto la media. Sicuramente c’è ancora molto su cui lavorare, ma “Una Prigione chiamata Terra” è sicuramente sulla giusta strada per confezionare qualcosa di realmente interessante. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

lunedì 16 luglio 2012

Rainy Days Factory - It’s Your Time

#PER CHI AMA: Post Rock, Dark, Fields of the Nephilim, The Cure, Mogway
Buffo, avevo contattato l’Ethereal Sound Work per l’album dei Vertigo Steps; lo ricevo, con questo bonus cd in omaggio e mi ritrovo a recensire per primo proprio quest’ultimo, un trio proveniente da Lisbona, chiamato Rainy Days Factory. 4 song per quasi 20 minuti di musica. Un sound che trae origine dal dark anni ’80, nella vena di The Cure e Fields of the Nephilim, che colpisce per quella sua linea di basso già dall’iniziale “All About Love”, cosi malinconica, grazie alla voce oscura di Oscar Coutinho. Il basso apre anche la seconda “See the Light”, seguita immediatamente dalla voce di Oscar e progressivamente da un’eterea chitarra e dal drumming punkeggiante di Johnny. Mi sembra di essere catapultato ai primi anni ’80, una sensazione piacevole di deja vu, che colpisce per la semplicità e la linearità dei suoi suoni. Nulla infatti di trascendentale c’è nella proposta di questi Rainy Days Factory, se non quella verve uggiosa, emotivamente instabile, che ha da sempre contraddistinto le band British che in passato hanno proposto questo genere. Ci avviamo già lentamente verso la conclusione dell’EP e “Autistic Eyes”, non fa che confermare quanto di buono abbiamo ascoltato fin qui anche se mi sembra che la band nutra qualche difficoltà nel diversificare la propria proposta, lasciando sempre ampio spazio al pulsare magnetico del basso e alla voce del buon Oscar, i protagonisti di questo “It’s Your Time”. A chiudere ci pensa “Sorry”, altro esempio di sound tipicamente dalle tinte rossastre, tipiche del tramonto, della decadenza, della stagione autunnale, della fine di un moto impetuoso che mi ha cinto gola, anima e cuore. Deprimenti. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works)
Voto: 65

Delirium X Tremens - CreHated from NO_thing

#PER CHI AMA: Death/Black, Obituary, Celtic Frost
Questo lavoro mi arriva solo adesso e con immenso piacere scopro che nel lasso di tempo successivo alla sua uscita, il combo bellunese ha sfornato un nuovo cd (già recensito su queste stesse pagine) con sbocchi folk/epici, tratti dalla musica folkloristica dolomitica che sembrano aver riscosso buonissime critiche. Il lavoro esce per l'etichetta Punishment 18 Record nel 2007 ed è un esempio di come anche in questo paese si possa, lavorando sodo, ottenere degli ottimi risultati dal nulla. L'ambiente sonoro è un death/black mischiato con pregio, è un sound carico mai votato al caos e intensamente cinematografico. Il mid tempo la fa da padrone e rende tutto molto appetibile: al secondo minuto del primo brano si entra in un ponte carico d'atmosfera che la dice lunga sul modo di concepire il metal dei nostri “tagliaboschi”, la ripartenza è violentissima. Si sentono echi di Obituary e Celtic Frost, qualcosina di Voivod nella seconda traccia e a seguito di un growl pesantissimo su chitarre macigne, i DXT introducono un passaggio d'ambiente molto ricercato e cantato in italiano dal retrogusto ”Meshugghiano”, a dir poco impressionante, poi di nuovo all'arrembaggio ma con stile, senza trascendere nel banale. La cosa che contraddistingue questa band è proprio il gusto visionario di rendere l'ascolto del metal come la visione di un film. Manca completamente la volontà di far divertire “spaccando”, e questo li rende decisamente intensi. L'uso dell'effettistica sulle vocals, su alcune parti della batteria e suoni digitali a rinforzo dei brani, li rende così astratti, industrial e filmici che potremmo definire la loro musica la colonna sonora di “Blade Runner” in metal. Il cd non fa una piega, non ha lacune: è un concept album sull'autodistruzione dell'uomo e quale migliore musica potrebbe identificarla? Ascoltate il brano “DXT Chamber” e ditemi se l'ennesimo spettacolare ponte centrale, con tanto di assolo alla maniera del buon Gary Moore e le voci di rinforzo alla “Cradle of Filth”, fusi al growl pesantissimo del cantante Ciardo, su chitarre stile Obituary non sia il massimo! L'architettura chitarristica è ben strutturata e spazia tra folate black metal e death senza mai esagerare in velocità e “ginnastica virtuosa”, ricercano sempre la melodia anche se super compresse e distorte, un sound organizzato e complesso, gli assoli sono brevi e incisivi e “sfondano” anche nelle parti più soft. Anche se la musica risulta complessa, non siamo di fronte ad alcuna forma di progressive e nemmeno abbiamo una devastazione sonica in puro stile grindcoreg, qui si parla di Death metal con la D maiuscola, intenso e significativo, con tanta energia e idee rubate all'industrial! Ascoltate l'evoluzione di “CyberHuman” dal minuto 2:50 e vi farete un'idea di come “Immolation” e “Godflesh” possano coesistere nello stesso brano. Il brano “15469” sembra un esperimento d'ambiente cinematografico mentre “New Clear Files” mostra tendenze brutal. La traccia n. 9 dal titolo “...Inside me” è un caterpillar impazzito, forse la più classica per lo stile della band, anche se l'assolo centrale è degno di particolare nota per il suono usato. “Convulsion” è un esperimento di un minuto e quarantuno e parte con rumori elettronici e voci digitalizzate per poi lasciare spazio ad una voce clone del più acido Marylin Manson. Il tripudio riparte con “Crionica” scritta da Giuliano e Nicolas dei veneziani “Ensoph” che chiude il cd con altre ben 14 tracce vuote, lasciandoci molto soddisfatti e ansiosi di ascoltare l’ultimo lavoro di questi ragazzi che, come scrivono nella loro maglietta, sono i fieri portabandiera del “Dolomitic Death Metal”! Azionate il “Death-onatore”! (Bob Stoner)

(Punishment 18 Records)
Voto: 80

http://www.deliriumxtremens.com

Derelict Earth - And So Fell the Last Leaves...

#PER CHI AMA: Death Progressive, Shoegaze, Black, Agalloch, Alcest, Opeth
Della serie one man band crescono, ecco arrivare da Toulon (Francia), l’ennesimo esempio di quanto sia verosimilmente più facile produrre un album, senza avere troppe teste con cui spartire i propri pensieri. La cosa consueta è che molto spesso le one man band sono dedite ad un black ambient di tradizione burzumiana, mentre i Derelict Earth prendono decisamente le distanze dal genere del Conte e il nostro mastermind Quentin Stainer si cimenta in un sound che suona più come una miscela tra death melodico progressive in una vena leggermente blackish. Il risultato si fa ben apprezzare per la sua eleganza sin dalla traccia in apertura, “We, Experiment of God”, che per certi versi mi ha ricordato la parte più swedish degli Elysian Fields. Bel riffing corposo, accompagnato da dei melodici riff decoratori di scuola finlandese, con le vocals roche di Quentin ad digrignare i denti. La successiva “No More Sunset” è invece più orientata allo shoegaze, con la comparsa di vocals pulite sulla scia di Alcest e Les Discrets, e atmosfere che si dipanano tra il roccioso death e momenti più eterei e acustici. L’inizio di “The Locust Culture” sembra di derivazione mediorientale con quest’arpeggiato di chitarra davvero piacevole, prima che esploda il growling di Quentin e una ritmica bella tosta e incazzata. Tutta scena però, perché i toni si smorzano ben presto, per lasciare il campo ad un sound più meditativo, che viene ripreso anche nella successiva “At the Nadir of Men”, che si rivela con ritmiche mid-tempo, ottimi vocalizzi, un bel lavoro alle chitarre che, se meglio prodotto, potrebbe davvero fare la differenza, con altre proposte. Ancora qualche parte arpeggiata, un connubio fra basso e chitarra, fughe in parti più folkish, quasi a voler ricordare le parti più autunnali degli Agalloch, prima di un incandescente finale black, in cui ancora una volta è un basso inviperito a tessere la tela. “And So Fell the Last Leaves...” continua su queste coordinate offrendo sprazzi di ottima musica progressiva, coniugata con parti atmosferiche o ad altre più tirate, di matrice black, per quello che è il sorprendente secondo lavoro dei Derelict Earth. Intriganti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Kommandant - The Draconian Archetype

#PER CHI AMA: Black Industrial, Aborym, Marduk
Ecco l’album che mi sarei aspettato come seguito di “Generator” degli Aborym, ma che in realtà non ha mai visto la luce. È il lavoro dei blacksters americani che rispondono al nome di Kommandant, che approdati alla nostrana, e sempre più attenta ATMF, rilasciano questo secondo lp, intitolato “The Draconian Archetype”, che al sottoscritto è piaciuto un botto. Eh si, come non si può notare la componente industrial black tipica della band italica, traslata nel sound ferale dei nostri? “We are the Angels of Death” apre, sgorgando malvagità, da ogni suo pertugio; la ritmica è quella convulsa e serrata di Fabban e soci, un black convulso, nichilista, contrappuntato da oscure melodie. Il maligno si impossessa subito della mia anima, sbarro gli occhi privati della pupilla e dell’iride. Mi sento un androide catapultato in un futuristico mondo, quello immaginario di Ridley Scott, di “Blade Runner”. Magniloquenti le atmosfere nonostante un riffing scarno e acuminato che mi assale con ferocia, non concedendomi il benché minimo attimo di tregua, con le vocals, screaming, cibernetiche, epiche ed evocative che siano, ad affiancare il selvaggio correre della parte strumentistica. Mostruosi. Annichilenti. Magnetici. Le song spazzano via ogni cosa nel loro terrificante incedere: “Victory Through Intolerance” e la granitica quanto mai ipnotica “Downfall”, mi sconquassano con sommo piacere. “Hate is Strenght” ci avvolge con il suo sound cupo, dato dal fragore martellante di un drumming ossessivo ed enigmatico. Il ritmo si fa sempre più oltranzista con le successive tracce, a botte di blast beats e riff glaciali di scuola norvegese; forse è qui che i nostri rischiano di perdere un po’ della propria brillante verve, dimostrata sinora. Niente paura, perché con “Call of the Void”, torna l’anima più spettrale, al contempo spietata, dei Kommandant. Mi piacciono, lo ribadisco senza alcun timore. Sicuramente non condivido la decisione di affrontare tematiche che puzzano lontano un miglio di ideologie politiche estremiste, tuttavia “The Draconian Archetype” merita decisamente un vostro attento ascolto. Militareschi! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 75

mercoledì 11 luglio 2012

Bilocate - Summoning the Bygones

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Death, Orphaned Land
VIII sec. A.C., nascono i primi insediamenti a Petra, antica capitale dei Nabatei, localizzata nella regione giordana dell’Edon. Città assai misteriosa, fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e ad una serie di catastrofi naturali, e, benché le antiche cavità abbiano ospitato famiglie beduine fino ad anni recenti, fu in un certo senso dimenticata fino all'epoca moderna. Da queste parti, nascono anche i Bilocate, formazione techno prog death di Amman, che dopo aver rilasciato un album con la Kolony Records, ha messo a segno un altro colpo vincente con la release del terzo lavoro, “Summoning the Bygones”, con la Code 666. La proposta fantasiosa di questo nuovo cd, arricchisce di gran lungo il già brillante predecessore, ammorbidendo leggermente i toni, in favore di una ricerca a dir poco notevole, di splendide melodie mediorientaleggianti, dando assai spazio ad una tecnica, mai fine a se stessa e sfruttando atmosfere etnico/tribali. Per certi versi accostabili alle sonorità degli Orphaned Land, per altri ai Death di “The Sounds of Perseverance”, per tecnica ai Dream Theather, per idee agli Opeth, per cattiveria agli Edge of Sanity, a cui prendono in prestito anche il vocalist, il mitico Dan Swano che in un paio di song, “Hypia” e “A Desire to Leave”, ci delizia con la sua suadente voce; e poi ancora, il progressive dei Porcupine Tree si mischia a sonorità gotiche o doom, come nell’oscura “Passage” o nella cover, peraltro suonata egregiamente, di “Dead Emotion” dei Paradise Lost. “Summoning the Bygones” è quello che si suol dire un signor album che ha l’assoluto divieto di passare inosservato, grazie all’eccezionale bravura dei suoi musicisti, nel proporre pezzi aggressivi, altri più decadenti, che magari rischiano di rifarsi alla tradizione svedese dei Draconian, come proprio la già citata “Hypia”, dove vi sembrerà di ascoltare una song dei Nightingale, abbandonando quindi gli umori molto più brutal della prima parte del disco. A chiudere l’album, una vera bomba, torno a sottolinearlo, ci pensa una lunga suite di venti minuti, suddivisa in tre capitoli, dove ancora una volta fa capolino il buon vecchio Dan a contrapporsi al velenoso growl di Ramzi e dove i nostri si dilettano con splendide linee di chitarra orientaleggianti, eccellenti melodie e tanta, tanta classe. Ottimo comeback, da avere a tutti i costi! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 85
 

Waves of Mercury - The Letter

#PER CHI AMA: Rock Gothic
Ecco che questi due ragazzotti di Minneapolis escono con "The Letter", secondo lavoro dopo "The Great Darkness". Devo dire che sono andato ad ascoltare qualche pezzo di quest'ultimo e il cambio di genere è forte. "The Great Darkness" è puro progressive metal/rock mentre il nuovo lavoro lascia l'utilizzo delle distorsioni e si concentra sulle sonorità pulite della chitarra. Diciamo che la struttura musicale è rimasta invariata, ma in questo modo i Waves of Mercury hanno probabilmente voluto fare un album più riflessivo e magari raggiungere anche quei timpani che disdegnano la distorsione manco fosse il diavolo impersona che satura le valvole... Personalmente considero queste tredici tracce delle piccole gemme incastonate a dovere in una corona in stile gotico, semplice ma di sostanza. Il vocalist ha una timbrica personale, non brilla in fatto di estensione, ma calza a pennello in questo contesto, dando profondità alle canzoni ed evitando inutili raffinatezze. Ottimi anche i fraseggi di chitarra che sono eseguiti ad opera d'arte, giocano sull'emotività e lasciano perdere l'effettistica. In questo modo l'ascoltatore si concentra maggiormente sulle sensazioni e lo pone davanti al musicista, senza nessun filtro tra i due. Una tale Michelle ci delizia della sua voce in "Old Man and the Sea" e " Let me Fall" e alleggerisce l'album, dando luce e spazio alla musicalità solida dei Waves of Mercury. Mi sento di premiare questi ragazzotti, che piaccia oppure no il genere, loro ci mettono l' impegno, la voglia di mettersi in gioco ed evolversi, senza comunque perdere l'identità acquisita negli anni. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70 
 

The Ocean Doesn't Want Me - As the Dust Settles

#PER CHI AMA: Post, Sludge, Alchemist, Neurosis
Caspita, mi sto avvicinando, lentamente ma sempre più, alla possibilità di avere la copia numero 1 di un cd, chissà se mai ce la farò; nel frattempo mi “accontento” di avere la 004/100, packaging limitato di lusso con i testi stampati su cartoncini con splendide foto, che assomigliano più ad un invito a nozze che al booklet di un cd. A parte questi particolari estetici, torno ad un vecchio amore che mi aveva conquistato con il proprio sound nel loro primo cd e per una band che mi aveva incuriosito parecchio anche per la propria provenienza (Pretoria – capitale del Sud Africa). In realtà il trio sud africano, proponeva un post metal di derivazione statunitense, con Neurosis e Isis, quale maggior fonte di ispirazione. Con questo secondo capitolo, le carte in tavola sembrano un po’ cambiare. La proposta dei nostri, pur rimanendo in territori post, sembra trarre ispirazione invece da una tradizione più tribaleggiante, mi verrebbe da dire quasi aborigena, anche se con l’Australia i nostri hanno ben poco da fare, se non per una questione di latitudine. I suoni si sono fatti decisamente più ostici; pur mantenendo l’ossatura di base all’insegna di post rock, psichedelia, sludge, sembra quasi che il sound si sia imbastardito e brutalizzato, anche se l’inizio di “Roots Point the Way” suona molto etereo. Ma ecco subentrare i tribalismi, con “Van Eyck”, suoni animistici mossi dalla natura, dal fragore di un tuono, dal bagliore di un fulmine o dall’infrangersi delle onde sulle coste. Non c’è linearità nella proposta dei nostri che con 7 lunghe song, sfiorano i 70 minuti. Pesanti, claustrofobici, brutali (anche le vocals sono diventate più growl, quasi a ricordarmi il vocalist degli Alchemist), “Dune Movement”, song lunghissima e splendida, mi fa immaginare l’effetto che ha il vento nel modellare le alte dune dei deserti del sud, in quella che è una mistica e vorticosa danza della sabbia. Decisamente i suoni qui contenuti non sono convenzionali e per questo molto più difficili da digerire, pertanto vi consiglio molti ascolti per riuscire ad assimilare ed apprezzare al meglio “As the Dust Settles”. Frastornanti, non c’è che dire. L’effetto che ne esce è un che di completamente disorientante, mai un punto fisso, mai una certezza nell’ascolto delle tracce qui contenute, si viaggia in territori cosi sconfinati che ben presto si rischia di perderne il filo. Non riesco ancora a capire se questo sia un bene o un male, quel che è certo è che la proposta dei TODWM ha un che di unico, malato ed estremamente originale, e forse per questo fatico più del solito ad assimilarne i contenuti. “This Castle Stands Alone” è forse il pezzo più convenzionale, per quanto poco sia possibile, dei sette, dove fa anche la sua apparizione una voce pulita, ma dove le chitarre tracciano comunque linee totalmente stralunate, senza mai eccedere in fatto di brutalità, anzi trovando il modo di esplorare territori decisamente più acustici ed intimistici. Splendida. Una specie di nenia introduce “Property Line”, abbinandosi a suoni che sembrano arrivare da Marte. Ancora una volta mi viene da associare il suono dei TODWM a quello spaziale degli Alchemist di Camberra, che maggiormente si avvicina per originalità, stravaganza e brutalità (ascoltare “Millais” per capire) a quello del nostro terzetto. Assurdi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

Blood Red Water - Tales of Addiction and Despair

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Electric Wizard, Eyehategod, Cathedral
Ah, io li conosco codesti personaggi! Dovevo perfino andarci a suonare il basso, solo che essendo senza il vile denaro non sono riuscito a seguirli. Nonostante questo mio quasi avvicinamento alla band, i nostri non possono sfuggire alla mia crudeltà. Vengono dalla “Laguna” e con il loro sludge/doom metal emergono dalle limpide acque di Marghera per portarci in lidi oscuri e poco rassicuranti. L'Ep “Tales Of Addiction and Despair” si apre, con la traccia da me preferita, “Ungod”, la composizione più doom ed ispirata da quel bel film che è Begotten. “Considerations/Commiserations” non si sente neanche. E' un piccolo sguardo sul lavoro dei Blood Red Water, uno scorcio del disco, una parentesi che racchiude ciò che la band propone. Con “Avoid the Relapse” passiamo a territori più vicini al groove dei Cathedral. Nonostante il simpatico ritmo, la canzone è piatta come le putride acque fuori dalla loro sala prove. Ma non preoccupatevi miei cari lettori, la seconda parte dell'Ep ospita due tracce degne. “Modern Slave Blues” è veramente ben strutturata e la ritengo la traccia più riuscita della pubblicazione. In chiusura troviamo “The Perfect Mix”, altra song valida che apprezzo e che spero sia il punto di partenza per una piccola revisione in futuro del sound dei Blood Red Water. Dopo questo veloce sguardo sul disco veniamo alle conclusioni però. Allora, non si può certo dire che questo debutto dei cari “Acqua Rosso Sangue” sia un lavoro inetto e superficiale, ma neppure un qualcosa al di sopra della media. È ancora qualcosa di embrionale ed acerbo, che ha bisogno di maturare con calma e diventare finalmente marcio. Innanzi tutto la registrazione. Le chitarre e il basso meritano una dose maggiore di “pesantume”, il sound è ottimo ma l'impatto è discreto. La batteria è fin troppo minuta e riesce a farsi notare solo nelle alte frequenze. Ed è proprio la batteria a essere la pecca principale della pubblicazione, i pattern nonostante siano originali ed apprezzabili, sono danneggiati essenzialmente da due fattori: il charleston troppo aperto e la quasi completa esclusione dei tom che porta a troppi passaggi di rullante. Le chitarre anche se leggere, di effettistica riescono comunque ad immergerci nelle più malevole e sporche sensazioni, in coppia con la voce che, riesce ad esprimere eccellentemente tutto il malessere spostandosi da un canto grezzo ed infervorato a voci più esauste. Insomma, da dirvi ho solo che dovete supportarli perché con le giuste sistematine, i cinque fanciulli provenienti dalle paludi veneziane, potrebbero conquistarvi. (Kent)

(Self)
Voto: 60