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domenica 29 aprile 2012

The Black Dahlia Murder - Miasma

#PER CHI AMA: Deathcore/Swedish Death, As I Lay Dying, At the Gates
Torna la Metal Blade, ormai identificabile negli ultimi anni, con album di death-metalcore. Ancora una volta lo swedish death metal si fonde con l’hardcore americano e “Miasma” fu l’ennesima dimostrazione di questo trend imperante. La band statunitense formatasi nel 2001 dopo “Unhallowed” registra ai Planet Red Studio di Richmond, “Miasma”, il cui stile riprende quello del suo predecessore: il songwriting è infatti influenzato dalle solite band scandinave, At The Gates e Carnal Forge su tutte, e dalle altre band statunitensi che suonano questo genere. Ormai lo ripeto da mesi/anni, mi trovo spesso in imbarazzo a recensire questo genere di gruppi perchè oramai, i miei commenti finiscono un po’ tutti per assomigliarsi. Quindi anche per i TBDM non è che posso scrivere chissà che: l’approccio è molto familiare ad altri gruppi recensiti in passato, The Red Chord ed As I Lay Dying ad esempio, in altre parole, un sound ben bilanciato fra l’incazzatura del metalcore americano e la melodia del death metal svedese, canzoni brevi e dirette, riffoni di chitarra, una doppia voce schizofrenica, blast beat devastanti e melodici solos. C’è da aggiungere che, nella band proveniente da Detroit, è riscontrabile anche una leggera componente blackish con le vocals di Trevor Strnad più demoniache e caustiche rispetto ai suoi colleghi. Comunque, per concludere, si tratta sempre di deathcore a stelle e strisce, quindi se il genere è di vostro gradimento, direi di non farvi scappare questo ennesimo prodotto. Se poi anche voi siete saturi come me di questo tipo di musica, beh il panorama metallico ha da offrivi un mucchio di alternative... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

sabato 28 aprile 2012

The Sect - Initiation

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Solefald
Il gruppo francese ci propone questo ambizioso lavoro carico di pathos gothico e oscurità. Figlio del sound nero di Emperor e primi Solefald, si snoda sinfonicamente in un percorso complicato. L'uso delle voci è molto ricercato e le tastiere sono maestose e rendono il suono magico, malinconico e pieno. Le parti più melodiche, con l'uso del piano in uno stile drammatico e classico, aumentano la componente nostalgica della musica, in contraltare troviamo una sezione ritmica volutamente tenuta in sordina per meglio rendere il sound più accessibile, meno impastato e più cristallino, pur mantenendo una buona forza d'urto. Il cd è molto ben fatto e non risulta avere momenti di caduta, infatti sin dall'inizio, si ha l'idea di un lavoro ben studiato e di una band chiaramente al di sopra della media. Tutti i brani permettono all'ascoltatore di entrare in una sorta di “inner circle”, un calderone magico e ancestrale con cori molto evocativi e d'effetto. L'intro, “Invitation”, dura poco più di 1 minuto ma mostra subito il lato romantico e oscuro dell’ensemble, aprendo la strada alla seconda e bellissima traccia, “Altar of the Golden Depravation” e la terza (la mia preferita) “Mitre and Crosier”, evocativa e tesissima, con quei cori pazzeschi che ricordano nientemeno che i “Carmina Burana”! La quarta traccia, “Acceptation” (altro brano da collocare tra i miei preferiti), è estremamente carica d'atmosfera, ha un'aria di pianoforte spaventosamente classica in stile “Satie”, con quel sottofondo di fiati, che ricordano vagamente i lavori di Malher! Questo classicismo crea un perfetto contrasto con la successiva prorompente song dal titolo “Noctum Phantasmatha”, che alterna stati di luce e ombra, con il suo incedere alternato lento/veloce, sottolineato da un cantato pulito e i soliti splendidi cori ispirati, (ricordano tanto i Falkenbach) uniti ad uno screaming veramente diabolico e degno di nota. “Requien of the Unborn” parte con chitarre velenose e tirate, un bridge finale rallentato e molto gothic metal e chiude le danze con l'epicità giusta per rendere il tutto indimenticabile. Alla fine non ci resta che decretare un'unanime sentenza favorevole ai The Sect visto che il loro album “Initiation” risulta ancora oggi dopo quattro anni (il cd è del 2008) portatore di nuove vesti e idee sane per un genere che a volte rischia di cadere nel baratro del ripetitivo o del clone. La nuova canzone “Cosmic Keys to my Creation and Time” del 2009, sul loro myspace, ci fa ben sperare per un loro imminente ritorno in grande stile. Grande album! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80
 

domenica 22 aprile 2012

Sunpocrisy - Samaroid Dioramas

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, The Ocean, Isis
Grazie. Grazie per il meraviglioso album che i Sunpocrisy hanno saputo concepire, che va ben oltre le più rosee aspettative che mi ero creato con il precedente Ep. Un grazie a questa band perché, con “Samaroid Dioramas”, ha dimostrato che in Italia abbiamo delle realtà che possono tranquillamente competere con le band americane, svedesi o tedesche che siano. E infine un grazie perché ero stato buon profeta nella recensione del primo Ep, dicendo che la band era da tenere sotto stretto controllo e l’eco che questa uscita ha avuto nel web, è un’ulteriore riprova di quanto scrivevo e della ottima qualità del cui presente lavoro. Ma, andiamo pure con ordine. Avevo lasciato i nostri nel 2010 con “Atman”, un EP di quattro pezzi che mischiava riff death metal ad ambientazioni di “toolliana” memoria, il tutto cosparso di una diffusa psichedelica malinconia. Il nuovo album, oltre ad aprirsi con un atmosfera che sa molto di suoni tribali degli aborigeni australiani, esplode ben presto la propria furia con “Apophenia”, che mette subito in chiaro la direzione musicale intrapresa dal sestetto bresciano. Mi spiace ma ora davvero non ce n’è più per nessuno: non guardo più verso Berlino con invidia per i The Ocean, verso la Western coast degli US per i Tool o la Eastern per gli Isis, o ancora verso nord a Umea, pensando che là ci sono band del calibro di Meshuggah o Cult of Luna; a casa nostra ora abbiamo i Sunpocrisy, che partendo, senza ombra di dubbio dagli insegnamenti dei gods appena citati, sfoderano una prova a dir poco magistrale. I Sunpocrisy hanno fatto il botto e lo dimostrano le mazzate inferte già in “Apophenia”, che miscela suoni rabbiosi, tribali, psichedelici, infarciti da meravigliose, suadenti melodie, che mi mettono subito a mio agio, mi fanno rilassare, anche se il growling poderoso di Jonathan, sbraita come un ossesso e le chitarre “grattano” minacciose con sommo piacere. Ci pensano poi quelle ipnotiche melodie di synth ad insinuarsi nei miei neuroni, scorrere lungo gli assoni fino al terminale nervoso responsabile del rilascio di quei neurotrasmettitori, che mi inducono al piacere sublime. Non so cosa sia successo ai nostri, se siano stati folgorati sulla via di Damasco o cosa, so solo che nelle sette tracce (più intro) qui contenute, se ne sentono di tutti i colori. Tempi dispari di scuola “meshugghiana”, che dimostrano l’ineccepibile qualità tecnica del combo lombardo (arricchitosi tra l’altro di un terzo chitarrista e di un uomo dietro ai sintetizzatori), atmosfere ariose che surclassano di molto la performance del nuovo Ep dei The Ocean; una prova eccezionale del vocalist, abile a passare da un growling efferato a splendide clean vocals. “Φ – Phi” è un ulteriore esempio di quanto il combo sia maturato enormemente nel corso di questi ultimi due anni, dell’abilità in chiave esecutiva raggiunta (da saggiare a breve anche in sede live) e di quanto i nostri si sentano comunque a proprio agio nella gestione di pezzi di lunga durata, con quattro tracce della durata media di 10 minuti e quanto siano eccellenti anche in quelle song che fungono da collante nel cd (“Vertex” o “Trismegistus”). I Sunpocrisy sembrano una band di veterani, che calca la scena da qualche lustro. La maturità della band si saggia anche con lo strepitoso trittico finale di brani, che partendo dalla corrosiva e schizoide “Samaroid”, si spinge verso lidi di raffinatezza esagerata, con la successiva “Samaroid/Dioramas”, in cui l’eco dei Tool è sicuramente forte, ma lo è pure la personalità dei nostri, che emerge prepotente nel corso della traccia, che fa dell’espediente emozionale iniziale, l’elemento catalizzatore, con le vocals sofferte di Jonathan, accompagnate da una ritmica dapprima malinconica, poi furente, ma sempre nostalgica. A chiudere questo capolavoro, che mette in sella i nostri nell’essere indicati come vera e propria sorpresa dell’anno (e a mio avviso anche disco del 2012), ci pensa “Dioramas” che decreta il livello eccelso raggiunto dall’ensemble nostrano, incredibili musicisti in grado di spaziare tra il post metal, un residuo quasi impercettibile di death, la psichedelia onirica dei Pink Floyd, il djent dei Meshuggah, con quelle sue chitarre polifoniche e la componente depressive stile primi Katatonia, che avevo già sottolineato nella prima recensione. Che altro dire, se non che questo “Samaroid Dioramas” è forse l’album perfetto (anche in chiave grafica con un booklet avveneristico) che attendevo da tempo immemore… Guai a voi ora se non vi avvicinerete ai Sunpocrisy. Uomo avvisato… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 95
 

Dumper - Rise of the Mammoth

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Motorhead, Megadeth
Ommadonnasanta... Nel 2012 è ancora possibile trovare in Italia un gruppo che suona in stile Motorhead, probabilmente vive e porta avanti il mito delle belle donne sedute in braccio mentre bevi una birra ghiacciata e racconti l'ultima tua fuga dagli sbirri a bordo della fedele Harley? Fino a ieri avrei detto di no, ma quando ho messo su questo "Rise of the Mammoth", giuro pensavo di essere tornato indietro nel tempo! I tre ragazzotti dal lungo passato musicale che si legge nella punta consunta dei loro stivali, si riversa totalmente nel sound e ha il suo bell' impatto. Le chitarre lente e grosse, la voce di uno che ha qualche sigaretta e whisky alle spalle, insieme ad una ritmica basso-batteria che lavorano come fratelli, faranno godere le vostre fredde orecchie. "The Melting Eye" parte con un bel riff di basso, chitarra e percussioni che lascia spazio alla psichedelia ancestrale, poi il verso di una belva dà il segnale di inizio alle danze. Grande influenza Megadeth per i nostri Dumber, comunque con una discreta dose di personalità. Anche "Drag Me to Hell" inizia con il basso e poi l'entrata dei riff di chitarra vi fanno venir voglia di aprire il gas a manetta e correre per le desertiche highways americane. E' vero che il cliché di un gruppo come i Dumper sarebbe quello di vederli ad un moto raduno di quelli mastodontici, ma l'elevata tecnica strumentale e compositiva li potrebbe scaraventare su qualsiasi palco, magari buttando giù i soliti sovrani dell' ovvio. Degna di nota la cover di “Ticket to Ride” che trasuda stile in ogni corda e forse prende un po’ per il naso i benemeriti scarafaggi. Grandi. Bravi. Vi voglio su un palco mentre la birra scorre giù e toglie la polvere in fondo alla gola, dopo ore passate in sella a bruciare chilometri. (Michele Montanari)

(Buil2kill Records)
Voto: 80
 

Mephisto Waltz - Insidious

#PER CHI AMA: Gothic, Death Rock, Christian Death
Era uno dei lavori più attesi del 2004 in ambito gothic, senza ombra di dubbio. E ammettiamolo, nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo sulla rinascita del deathrock. In una realtà discografica che negli ultimi anni ha cercato di seguire le inclinazioni di un pubblico oscuro, sempre più infatuato da contaminazioni elettroniche, nessuno si sarebbe mai aspettato un ritorno di fiamma per le polverose sonorità portate in auge da Christian Death & Co. Eppure anche le realtà musicali di nicchia sono soggette ai soliti corsi e ricorsi storici, con tanto di riesumazioni e reunion sospette che diventano immancabilmente l'argomento preferito dei fan, i quali amano farsi trascinare nelle inevitabili diatribe circa la credibilità o meno di certi veterani del "sacro verbo gotico". Nel caso dei Mephisto Walz le chiacchiere sono messe a tacere dalla qualità della musica e “Insidious” non può far altro che rassicurare anche i più scettici sull'onestà e la sincerità con le quali il gruppo ha saputo rimettersi in gioco negli ultimi trascorsi della propria carriera. “Insidious”, che segue di un paio d'anni l'uscita dell'ep “Nightingale” e di ben sei il full-length “Immersion”, non è affatto una bieca operazione di riciclaggio e nemmeno l'affannoso tentativo di rimanere a galla in mezzo a tante uscite discografiche. Al contrario, è un lavoro ben suonato e molto ben prodotto. È la dimostrazione che i Mephisto Walz hanno ancora qualcosa da dire nonostante la loro veneranda età. “A Magic Bag” è un preludio da brividi, lento e ossessivo. Tra una chitarra in tensione continua e un basso dai rintocchi funebri, la voce di Christianna si insinua sonnolenta e spettrale, accarezzando come un soffio gelido l'epidermide. Più movimentata è invece “Our Flesh”, con i suoi feedback contorti di chitarra, mentre “Watching from the Darkest Places” e “Before these Crimes” decelerano su ritmiche di nuovo plumbee e distese, palesando il volto più etereo del gruppo. Così anche “One Less Day”, adagiata su di un manto sonoro dalle increspature tenui, cede il passo alle spigolose reminiscenze deathrock di “I Want” e l'album cambia ancora una volta registro, per confluire nella danza vorticosa e dissennata di “Witches Gold”. Forse un po' anonime le ultime “Memories Kill” e “Nightingale”, ma il finale serba comunque una sorpresa con “Ombra Mai Fu”, rivisitazione cantata della celebre aria di Georg Friedrich Händel, interpretata dalla cantante Diana Briscoe. Chiudo segnalandovi la confezione digipack della versione americana dell'album, impreziosita da una realizzazione grafica molto più elaborata ed elegante dell'edizione europea. Se ne avete la possibilità, fatela vostra. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 85
 

Ov Hollowness - Drawn to Descend

#PER CHI AMA: Black/Epic, primi Katatonia, Windir
Ultimamente, sto constatando che la terra canadese rappresenta un altro territorio con un costante brulicare di band assai interessanti. Oggi ci avviciniamo ad un’altra di queste, messa ovviamente sotto contratto dalla sempre più presente (nei nostri archivi, intendo), Hypnotic Dirge Records e noi non possiamo che esserne felici. Altra one man band quella degli Ov Hollowness, quasi fosse una costante per l’etichetta nord americana; e sempre di suoni assai strazianti si parla. Il factotum di turno, ossia l’enigmatico Mark R., ci presenta sei lunghe tracce, contraddistinte da un riffing malinconico, poco pulito, ma sicuramente di forte impatto emotivo. Fin dalla opening track, “Old and Colder”, ci lasciamo condurre nel grigio e desolato ambiente creato da Mark, dove, palesemente influenzato dagli albori sonori di Katatonia, da lunghe cavalcate “burzumiane” e dall’epicità dei Windir, ha il solo rischio di peccare in termini di ripetitività. La song è infatti piacevole nei primi minuti, poi il ripetere dello stesso riff (per 9 minuti!) espone il tutto ad una certa noia di fondo, anche se tuttavia l’inserimento di alcune parti atmosferiche e di epiche partiture chitarristiche, che si sovrappongono alla ritmica di base, vivacizzano la proposta. Pensavo con la seconda traccia, la title track, di trovarmi di fronte ad un altro brano dal tocco ambient e nostalgico, invece ecco esplodere un sano black a corrodere il tutto con la sua furia, tuttavia sempre pregna di una certo flavour di cupa disperazione. “Desolate” ritorna a indurre desideri autolesionisti a chi si appresta ad ascoltarlo, con quell’alone del “Conte”, costantemente ad aleggiare sulla testa, grazie alle classiche chitarre ronzanti di accompagnamento, un efferato, quanto valido screaming e qualche sporadica comparsa di clean vocals, per un risultato finale a tratti assai valido, e che trova il suo apice nella successiva “Winds of Forlorn”, un mid tempo che, mostrando anche qualche reminiscenza di scuola Amon Amarth, riesce a dare un maggior spazio, all’evocativa prova pulita del vocalist. Lentamente ci avviamo verso la conclusione dell’album: all’appello mancano ancora “Drone”, claustrofobica song come il suo titolo può lasciar presupporre e dalla dinamica quasi suicidal. A chiudere ci pensa “The Darkness”, canzone ruvida, in linea con alcun produzioni black thrash old school e che decisamente si distacca da tutte le altre song del lotto; strana ma efficace, soprattutto alla luce di un assolo decisamente rock’n roll che si staglia su una ritmica che sembra presa in prestito da “Kill’em All” dei Metallica. In conclusione, “Drawn to Descend” è un disco valido, ma che evidenzia ancora qualche lacuna da un punto di vista compositivo. Da tenere comunque sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70
 

Taste of Tears - Once Human

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Nevermore
Sarà un caso o cosa, ma da quando lavoro in Svizzera, la mia scrivania ha visto aumentare progressivamente il numero di cd proveniente dalla Confederazione Elvetica. Questo per dire che i Taste of Tears arrivano dal paese di orologi e cioccolato e che dopo poco più di dieci anni dalla loro fondazione, giungono finalmente al tanto sospirato debutto: un death metal portentoso, arrembante, violento e carico di groove, che vede in chitarra e basso, i propri pezzi forti. Si parte minacciosi con “Ames Room” che denota immediatamente la potenza di fuoco prodotta dal quartetto di Chur. Granitici. È il primo vero pensiero che ho fatto; tuttavia una discreta dose di melodia (mai straripante a dir la verità), contribuisce a rendere il platter più digeribile, altrimenti la lunga durata dei brani, avrebbe messo a dura prova il mio ascolto. Con “Phlegraen Fields”, i nostri mostrano di non essere solo tecnici, ma di aver in serbo una serie di “sorprese” che potrà ampliare il “raggio d’azione” di coloro che si avvicineranno per la prima volta a “Once Human”: la song infatti mostra alcune similitudini con i Nevermore, anche in termini di performance vocale, dove l’ottimo growling di Ivan si alterna a clean vocals, che non mi è dato di sapere a chi appartengano, se a Ivan stesso o al secondo vocalist della band, il batterista Marcus. Deliziosa anche la componente solistica, dove trovano largo spazio aperture melodiche assai accattivanti. La title track ci mostra il lato più tecnico e cerebrale della band, con un attacco degno dei migliori act dediti a questo genere di sonorità, e con lo spettacolare basso di Gion, in palese evidenza. La song segue poi la proposta sciorinata sin qui dall’ensemble, del Cantone dei Grigioni; e questo vale anche per le successive tracce. Facciamo però una pausa su “Profound Rain” che pur muovendosi sui territori solcati fino a qui dai Taste of Tears, non può non essere menzionata per quell’inattesa intromissione da parte di una folle tromba (qualcuno si ricorda l’esordio dei Pan.Thy.Monium?), che si inserisce improvvisamente all’interno del selvaggio tappeto death. Ho dovuto riportare indietro il cd per avere la certezza di non essermela sognata, mentre la ritmica macinava km di riff tentacolari e mastodontici di scuola Pestilence. Bella anche “A Great Paradox”, una song che pur proponendo una debordante base ritmica di derivazione scandinava (Meshuggah), ha il pregio di risultare comunque un po’ più soft nel suo marziale incedere. Vorrei infine segnalare la presenza del grande Tommy Vetterli (ex Coroner e Kreator) dietro al mixer a rendere più poderosa la proposta del combo svizzero. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Saol)
Voto: 75
 

giovedì 19 aprile 2012

Odradek Room - Бардо. Относительная реальность

#PER CHI AMA: Death, Avantgarde, Doom
Per un cd come questo, scritto e cantato interamente in cirillico, permettemi di non riportare i titoli delle canzoni; mi limiterò semplicemente a citare le song come la prima, la seconda e via dicendo. Odradek Room è una strana entità proveniente dall’Ucraina, il cui nome trae ispirazione da una storia di Kafka, "Die Sorge des Hausvaters", dove lo scrittore parla di una piccola ed enigmatica creatura, chiamata appunto Odradek. Ed enigmatici ed intriganti anche questi ragazzi, di cui è difficile trovare qualcosa in rete che non sia scritto, tanto per cambiare, in cirillico. Quindi, spazio alla musica e alla genialità del combo ucraino. Mi accomodo nella poltrona del mio teatro virtuale e mi godo la musica inquietante e farneticante dei nostri, capaci sin dalla traccia che apre il disco, di coniugare sapientemente death e black (poco a dire il vero) con contaminate sonorità post metal, per un risultato probabilmente di difficile digeribilità iniziale, ma che, dopo molteplici passaggi, vi saprà conquistare per quella sua fantomatica aura. È cosa ormai assodata che le band dell’Est Europa abbiano un qualcosa in più, una carica, una cultura, delle tradizioni, che inevitabilmente riescono a convogliare nei suoni espressi. La prima song è aggressiva si, con sonorità talvolta in collisione tra loro in modo disarmonico, con cambi di ritmo disarmanti, che rappresentano il vero punto di forza del quartetto. Death, black, passaggi acustici, avantgarde e post rock collidono tutti in un punto, una sorta di buco nero che attrae tutto quanto verso di sé; cosi pure la mia attenzione viene catalizzata dalla molteplicità di colori che emergono dalle note di questi baldi giovani e vengo rapito dall’emozionalità espressa dalla musica dell’act. Quanto parte la seconda traccia, rimango estasiato dalle atmosfere “post”, da casa infestata che aprono il brano, con la voce del vocalist qui in versione pulita (peccato che il russo non sia una lingua cosi piacevole da sentire) su un tappeto vellutato di chitarre malinconiche. Un parlato in lingua madre apre la terza song, che per feeling assomiglia a quanto fatto nell’ultimo lavoro degli Ulver. Poi parte un riffing doom che per ideologia va a ricalcare le gesta dei soliti maestri My Dying Bride, senza tuttavia trovare un vero e proprio punto di contatto con i gods inglesi. Gli Odradek Room hanno una propria e ben definita personalità che emerge forte nel corso di queste lunghe e ben architettate canzoni, che evidenziano già una grande maturità da parte dell’ensemble ucraino. Convincenti, molto. E accattivanti, in quanto non è del tutto semplice suonare questo genere, senza risultare troppo ripetitivi o copiare quanto fatto da altri. Tuttavia la band, ha saputo sfornare una propria ben definita proposta che lascia ben sperare per sviluppi futuri; giusto il tempo che qualche etichetta discografica (la Solitude Productions ad esempio) si accorga di loro e sentiremo ancora tanto parlare degli Odradek Room, anche se il consiglio che mi sento di dare, è esclusivamente quello di cambiare lingua per cantare, questo per poter dar modo alla loro musica, assai poetica, di poter raggiungere masse più grandi di fan. Mezzo punto in meno per il cantato in lingua madre, tuttavia si tratta sicuramente di un ottimo lavoro, a cui vi invito di avvicinarvi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Eric Castiglia - The End Of Our Days

#PER CHI AMA: Death/Progressive/Heavy/Black
Eric è un tranquillo ragazzo romagnolo, che ha una grande passione (forse due, ma sorvolerò sulla seconda), la musica. Non solo è infatti chitarrista nei seminali Sedna, nei White Noise e chissà quant’altri progetti, ma ha pensato bene di convergere la sua voglia di suonare anche nel suo progetto solista, questo “The End of Our Days” e devo dire che il risultato è a dir poco entusiasmante. Prendendo una drastica distanza da quanto suonato nella sua band “madre”, i Sedna, Eric pesca a piene mani dal panorama mondiale, reinterpretando il tutto un po’ a modo suo e il risultato che ne viene fuori ha a dir poco del sorprendente. Se nella opening track, “God Won’t Save You” emergono delle sonorità death gothic, man mano che ci si addentra in questo lavoro emergono forti i gusti del buon Eric: Scar Symmetry, Meshuggah, Devin Townsend, Raunchy, musica djent e progressive, black ed elettronica, passando dal pop di anni ’80 e dall’heavy classico. Un pour porri di generi che hanno ben poco da condividere tra loro, ma che nella release di Eric, trovano il modo di incastrarsi alla perfezione. Esterrefatto si, questa è la parola giusta ascoltando e riascoltando il cd, che da settimane è in cima ai miei ascolti. Bravo Eric, mi hai davvero impressionato e se con “Broken Hourglass”, mi sembra di ascoltare un bel pezzo hard rock anni ’90 con delle belle vocals corrosive, con la successiva “Vaccumba” ci spostiamo in territori cyber death con il growling del mio nuovo eroe che si alterna a delle clean vocals in Scar Symmetry style. Ruffiano? Può anche essere, ma a me sinceramente non me frega nulla, anche quando il mastermind si cimenta con la bellissima e riuscitissima cover dei Talk Talk, “Such a Shame”. Vai alla grande Eric, continua cosi. Eh si perché il factotum cesenate, ci delizia con “The Seventh Gate”, song dal forte sapore nord Americano, quello del folletto canadese Devin Townsend però. E quindi potrete capire la genialità della proposta e anche la grande capacità che ha di conquistare le mie orecchie, ormai abituate a devastazioni varie in ambito black. Breve pausa strumentale di ampio respiro prima della violenza controllata di “Coward Circus” dove a fare la comparsa c’è uno screaming acido, tastieroni dal sapore black sinfonico e passaggi di velata e oscura malinconia, nonché di follia dirompente nella parte conclusiva del brano. Sono frastornato dalla capacità di picchiare ed essere al contempo eterogenei e originali. “No One Like You… Because You’re Nothing” ci conferma l’amore di Mr. Castiglia per le sonorità claustrofobiche e devastanti di Meshuggah e compagni, mentre la successiva “The Pulse of Time” sembra estratta da “Killers” degli Iron Maiden, prima di abbandonarsi in una splendida epica cavalcata strumentale, in cui lo splendido lavoro alle chitarre di Eric, si esplica in una serie di riff che si rincorrono alla velocità della luce in un orgasmo caleidoscopico. Ancora stordito dalla montagna di riff calati dal guitar hero italiano, ecco lanciarmi negli ultimi due pezzi, dove ad assurgere il ruolo di co-protagonista accanto alle chitarre ci sono anche le tastiere, ben presto relegate in secondo piano per dar modo alla furia di esplodere potentemente. A chiudere questo eccellente album ci pensa la title track, che conferma nuovamente le ottime idee di questo ragazzo che deve comparire al più presto all’interno delle vostre liste di cd da acquistare. Obbligatoriamente da far vostro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

domenica 15 aprile 2012

Hate Eternal - I, Monarch

#PER CHI AMA: Brutal Death
Direi che il 2005 è stato l’anno della definitiva consacrazione del death metal!!! Dopo i vari lavori di Nile e Cephalic Carnage, tanto per citare i più meritevoli, abbiamo dato il benvenuto al feroce disco dell’ex-Morbid Angel Erik Rutan, quasi a voler mettersi in competizione con le band sopraccitate per chi ha sfornato l’album più devastante dell’anno. Eh sì ragazzi, questo “I, Monarch” fa davvero male: è un album senza fronzoli, selvaggio, violento e brutale che non concede la benché minima tregua dal primo all’ultimo minuto. A differenza dei colleghi, capaci nei loro lavori di spezzare la furia dei brani con intermezzi acustici (per i Nile) o jazzistici (per i Cephalic Carnage), qui c’è solo puro ed intransigente brutal death metal. Probabilmente proprio per l’incapacità di discostarsi con nuove o diverse idee, il sound proposto dal trio statunitense mostra i suoi limiti in questo nuovo album, il terzo per la band di Rutan, che vede tra l’altro in “I, Monarch” l’ingresso del nuovo bassista Randy Piro. La musica degli Hate Eternal è costituita da tecnicissimi e dissonanti riff, da un lavoro dietro alle pelli non umano, caratterizzato da blast beat continui e una doppia cassa devastante, e con growling vocals profonde e maligne. L’album ci consegna una band mostruosa sotto il profilo tecnico, ma un po’ carente in fatto di idee, o meglio, radicale nella scelta di voler essere il più violenta possibile, con il risultato finale che il disco è troppo monolitico. È un peccato, perchè se solo si fosse potuto lavorare con un briciolo di fantasia in più e rendere armonico l’intero lavoro, ne sarebbe sicuramente uscito un grande album. Ottima la quarta traccia “To Know Our Enemies” con un assolo finale “rasoiante”... Con l'ingresso in formazione di un secondo chitarrista di sicure se ne sentiranno delle belle. Mi auguro solo che si scrollino di dosso questo compulsivo desiderio di devastazione e ci mostrino realmente di cosa sono capaci. Per me questo è un album di transizione, fiducioso per un futuro migliore... (Francesco Scarci)

(Earache Records)
Voto: 60

http://www.facebook.com/Hate.Eternal

Limbo - Compendium: The Light Fall

#PER CHI AMA: Electro, EBM, Kirlian Camera
Conclusa definitivamente l'esperienza Limbo, Gianluca Becuzzi ha preso il largo verso altri lidi musicali che attualmente lo vedono impegnato con il progetto Kinetix. Prima di dare l'estremo saluto al suo affezionatissimo pubblico, il musicista italiano non ha voluto, però, lasciare a bocca asciutta chi aspettava il terzo capitolo della trilogia "Millennium Trax" ed è così che, grazie alla Cursed Land Entertainment, “Compendium: The Light Fall” ha visto la luce. Oltre ad offrire numerosi elementi d'interesse dal punto di vista "revisionistico", l'album chiude nel migliore dei modi una carriera lunga vent'anni e celebra degnamente la fine di uno dei progetti elettronici più importanti del nostro paese assieme ad act quali Pankow, Kirlian Camera e TAC. La raccolta esplora diversi momenti della carriera dei Limbo attraverso diciotto brani estratti dall'intera discografia del gruppo, rivisitati per l'occasione in una chiave moderna, grazie ad un'operazione di rimasterizzazione in digitale delle tracce originarie e, in alcuni casi, di remixaggio completo delle stesse. Un lavoro realizzato con l'ovvia supervisione di Gianluca Becuzzi, ma prodotto e coordinato da Diego Loporcaro (aka D. Loop), membro dei Limbo fin dal 1998. La materia musicale del cd non può che definirsi ghiotta, già a partire dall'introduttiva “No Mercy”, traccia del 1984 estrapolata dalla prima demo-tape del gruppo e qui restaurata per sopperire alla pessima qualità del nastro di partenza. Brani come “Carnalia” e “Dein Gott ist Tot” (rispettivamente dagli album “Our Mery of Cancer” e “Vox Insana”) sono stati invece completamente riscritti rispettando gli arrangiamenti suonati nell'ultima performance live del gruppo. Curiosa anche la riedizione di “Libido Mater Nostra” in una versione più potente e danzabile rispetto all'originale, come pure il remixaggio di “Blutfeuchtræume”, azzeccata rielaborazione di un pezzo gothic-metal in una traccia dalle forti connotazioni trance/EBM. Inclusa nel cd anche “Red Latex Jesus”, remix di un brano dei Kebabträume che il duo Becuzzi/D. Loop presentò a suo tempo in “Cospiratorium: The Ice Line”, facendosi affiancare da Ivan Iusco dei Nightmare Lodge per l'esecuzione delle parti campionate. Unico episodio live della compilation è “Widowmaker”, brano ispirato ad una ballata di pianoforte scritta da Le Forbici di Manitù e registrato durante l'ultima (e già citata) esibizione di Limbo, tenutasi il 31 Marzo del 2001 al Tam Tam Club di Bisceglie (Bari). Infine, a chiudere il sipario è l'ultima traccia in studio del gruppo, “Madre, Chiesa, Libido”, un medley che abbraccia, in poco meno di sei minuti, brani storici quali “Libido Mater Nostra”, “Thee Pack”, “Mater Libido”, “Control, Sex, Technology” e “Madre, Chiesa, Clinica”. Da avere! (Roberto Alba)

(Cursed Land Ent.)
Voto: 85

Mare Infinitum - Sea of Infinity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ahab
Solitude Production. Ormai si va sul sicuro. I Mare Infinitum sono solo una delle tante perle che risplendono di maestosa armonia dal magico universo della terra russa. Certo, il becero antagonismo storico con gli Stati Uniti sembra quasi d’obbligo in questi casi, ma qui stiamo parlando di musica, non di politica, e per di più di un genere che gli USA non sono ancora riusciti a comprendere nella sua profonda interezza (ovviamente generalizzo). Si parla di doom metal. Anzi, funeral doom. La fugacità delle occupazioni occidentali, l’eterno senso di ansia nel quotidiano e una snervante necessità, lavorativamente parlando, di fare sempre di più in sempre meno tempo impedisce in molti casi di ritagliare un angolo per sé stessi. Riflettere. Ascoltare le proprie emozioni. La faccio breve: una determinata tipologia di musica non può nascere in contesti geografici, culturali e sociali che si estendono ai suoi antipodi. Se il black metal è nato nel nord Europa e non a Los Angeles un motivo ci sarà, no? Perdonate il discorsone, ma mi sentivo in dovere di farlo. “Sea of Infinity” presenta cinque tracce di puro funeral doom dalla lunghezza variabile. Il tema che fa da collante è quello dalla sensazione di eterno e immutato perpetrarsi delle cose, metaforizzato simbolicamente dall’orizzonte infinito del mare che si intreccia in modo definitivo con il dominio e la pesantezza dei cieli. Di riflesso, gli strumenti cercano di portare all’attenzione una decisa mimesi con l’effetto perpetuo delle onde che si infrangono sull’acqua. “Beholding the Unseen”, in particolare, riproduce chiaramente questo effetto nei primi due minuti della canzone. Rappresenta senza ombra di dubbio un momento topico all’interno dell’album; è la traccia più strutturata, condensa vari passaggi di tempo e unisce al growl una voce pulita molto avvolgente. Le chitarre si muovono come a rilento, potenti, nitide nelle note, precise come un metronomo. Un apprezzamento del tutto personale devo farlo a “November Euphoria”, probabilmente la miglior composizione strumentale di doom atmosferico che io abbia mai ascoltato, con la giusta dose ed equilibrio di tastiere e melodie a sei corde. Otto minuti di trance che avrebbero qualcosa da insegnare anche ai grupponi funeral già navigati. Unica nota dolente e un po’ fuori luogo: l’utilizzo del violino nella track di chiusura, “In the Name of my Sin”, molto My Dying Bride. Una cosa è chiara: dall’intero album traspira una sorta di timore reverenziale verso tutto ciò che esiste di infinito. Non vi sono grida di sofferenza o penombre minacciose alla Skepticism o alla Catacombs. Si respira qualcosa di diverso. È più un elogio agli abissi oceanici dell’oltrevita, un marciare cadenzato di rispettoso silenzio di fronte all’antitesi dell’esistenza. L’ascolto è doveroso per chi è rimasto affascinato dalle atmosfere degli Ahab di “The Divinity of Oceans”, immensi pionieri del nautic-doom. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

Hyde Experiment - Hyde EP

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Amorphis
Dopo aver fatto partire il cd, ho pensato che il lettore lo stesse leggendo in senso contrario, dato che le parole che venivano fuori dalle casse erano totalmente incomprensibili, tanto da ricordarmi quel film degli anni ’90, “Morte a 33 Giri”. Passa qualche secondo però e capisco che non è il mio stereo ad essere indemoniato, ma è colpa della proposta musicale dai vicentini Hyde Experiment; niente di satanico però, sia chiaro, il combo veneto propone infatti un death metal abbastanza velleitario, capace, nel corso dei primi minuti di “Bereft of Reason”, di cambiare tempo cosi tante volte, quanto il battito delle mie ciglia, offrendo pertanto un sound stralunato, tecnico (un’ode ai mostri sacri del tecno death) e assai imprevedibile. Ora capisco il perché della scelta del nome, dove cappeggia la parola Experiment a fianco di Hyde, perché sperimentazione è la parola d’ordine dei nostri. Per mia somma gioia. E per le mie orecchie. E sono certo che andrà ad impattare anche sulla valutazione conclusiva dell’album. Imbrigliato dalla foga dei nostri nel voler stupire, rimango assuefatto dalla delirante proposta degli Hyde Experiment: Opeth (in testa), Porcupine Tree, un death metal robusto (schizoide, in chiave Infernal Poetry), sonorità seventies e sorprendenti linee melodiche, invadono contemporaneamente il mio cervello, lasciandomi di stucco. Che goduria. Ottime le growling vocals di Nicola, altrettanto quando si propone con le vocals pulite, come un novello Mikael Åkerfeldt all’italiana. “Cypress” è un’altra song monolitica, che partendo dal sound dei gods svedesi, si dipana attraverso onirici giri di chitarra: qui il progressive, la psichedelia, splendidi fraseggi acustici e tecnici assoli, posti sulla consueta matrice death, costituiscono la proposta dell’act italico. Il voto sale. Anche la perizia tecnica. “Chilling Secrets” è invece una sorta di semi-ballad; la prova alla voce del cantante qui non mi entusiasma (affiancato peraltro dalla poco convincente performance di Chiara), mentre la “pink floydiana” base, mi stordisce; non abbastanza però, perché rimango concentrato sulla non eccezionale prova dei due vocalist, fino a quando il latrato growl di Nick torna a fare il suo egregio lavoro, mentre le keys di Chiara, poste in primo piano, si ispirano agli Amorphis. Bene, si torna a far sul serio, anche se alla fine “Chilling Secrets” si mantiene comunque su toni più pacati, come dimostrato dal vellutato e “doorsiano” finale. Poco male, perché con i quasi nove minuti di “Primordial”, si torna a picchiar duro, con una bella ritmica potente e ideazioni diaboliche: eccoli i Cynic echeggiare nella mia testa, intontire i miei pochi neuroni residui, per una prova che talvolta sfiora il miracoloso. Se poi devo fare le pulci agli H. E., ecco che talvolta la prova dietro alle pelli di Daniele non mi convince, forse perché troppo ordinaria e non altrettanto carica di fantasia, come i suoi compagni di avventura. Da rivedere quindi il drumming, cercando di donare quel tocco di personalità in più per distaccarsi definitivamente da una definizione che di death metal ha gran poco. Brillanti, anche se avrei potuto dar di più nel mio giudizio complessivo. (Francesco Scarci)


(Self)
Voto: 80

Okular - Probiotic

#PER CHI AMA: Death Metal dalle venature Progressive
Mmmm, oggi ho una bella fame di sonorità death metal: cosa c’è di meglio che farsi servire una succulente pietanza a base di sanguinosa brutalità e vertiginosa velocità, il tutto annaffiato da fiumi di tecnicismo e spruzzate di melodia? Per cercare simili ingredienti dovrei guardare ad occidente, negli States per l’esattezza, dove di solito si celano proposte di questo tipo; invece quest’oggi, mi trovo inaspettatamente a recensire una siffatta creatura, proveniente dalla Norvegia. Strano, non trovate? Gli Okular sono assai prelibati, una sorta di bisteccona al sangue da gustarsi con un bel bicchiere di vino rosso, di quello che arriva immediatamente al cervello e ti inebria senza ubriacarti. Un po’ come il sound di questi baldi ragazzoni del nord Europa che appassionati, incazzati, ma decisamente al passo con i tempi, mettono in mostra tutte le loro qualità, con dieci fantastici pezzi di puro death metal, riletto in chiave moderna. “Connected in Betrayal” e la cervellotica “Probiotic (for Life)” aprono le danze, mostrando subito di che pasta è fatto il quartetto di Oslo, per non parlare dell’assalto all’arma bianca di “Fucking Your Dignity!”: tutte e tre le song, cosi come le successive, sono caratterizzate da una matrice di fondo tipicamente brutale, con ritmiche non troppo veloci, ma estremamente potenti e sempre dotate di buone dosi di melodia, contraddistinte poi da un tasso tecnico elevatissimo (mostruoso, come spesso mi accade di sottolineare, la performance alla batteria del drummer, Bjørn Tore Erlandsen). Se l’acustica strumentale “Tranquillity of the Night”, lascia presagire erroneamente esplorazioni in territori progressive a la Opeth, la successiva “State of Immediacy”, mi spinge invece verso zone perlustrate dal grande Chuck Schuldiner e dai suoi Death. Abbacinato da cotanta perizia, mi concentro ulteriormente nell’ascolto di questo speranzoso lavoro (il verde è infatti il colore dominante nell’artwork del cd). “Choose to be Free” è una song annichilente, la classica canzone taglia gambe, che con la sua ritmica prepotente, imbastisce un muro sonoro insormontabile. “Flowers Uncared For” è una epica cavalcata, dove le vocals di Marius S. Pedersen, trovano un maggior raggio d’azione, abbandonando la componente growl, per lanciarsi in un cantato pulito mentre le linee di chitarra si fanno più melodiche, mantenendo comunque un incedere ipnotico e selvaggio. La spagnoleggiante traccia strumentale “Celebration” ci concede un altro breve attimo di respiro, prima del conclusivo attacco, affidato all’inequivocabile “The Most Violent Thing”, che non può che lasciar presagire che la furia sarà l’elemento dominante in questa intricata song, ricca di cambi di tempo e pregna di atmosfere al limite del black. “Creativity or Fear?” chiude splendidamente, con mia somma sorpresa, un platter coraggioso, che mi fornisce ulteriori indicazioni: la Norvegia non è solo black metal o l’”americaneggiante” sound dei Blood Red Throne; da oggi, nel mio immaginario, sarà anche l’armonico incedere audace e minaccioso dei rocciosi Okular. New entry da sballo! (Francesco Scarci)

(Regenerative Productions)
Voto: 85

giovedì 12 aprile 2012

Cheap Vudu – Counter of Pain

#PER CHI AMA: Black/Death minimalista
Arriva da Barcellona questa one man band dedita ad un personalissimo quanto strano metal dalle tinte black (e testi anticlericali a go-go cantati e recitati in spagnolo). In verità l'autore di questi brani, che si fa chiamare “Sin Rostro”, ha sperimentato molto con i limiti tecnici imposti dalle sue possibilità stilistiche e tecnologiche, sfruttandole in maniera più o meno ottimale. Diciamo subito che l'album risulta interessante se visto dal lato sperimentale e da evitare per chi cerca chicche stilistiche musicali. Brano dopo brano ci si addentra in una visione personalissima del black, dove patterns di batteria minimale si dimenano tra chitarre scarne e rumori industrial molto lo-fi tenuti costantemente “sotto” ad un cantato in primo piano sofferto e molto convinto, anch'esso lo-fi molto diretto e brutale. L'album si apre con “Angel of Light” che fa da intro e rivela subito la vocazione cinematografica dell'intero lavoro poi continua con “Awake”, la più violenta forse dell'album e “Be Very Afraid” che sembra uscita dai b-side dei Christian Death” periodo “Sex Drugs and Jesus Christ” con molta meno enfasi però... l'ambient noise si mostra nella track “ Central Brain”, strutture semplici ma che risultano efficaci come in “God's Civilization” dove la componente industrial si fa più potente e si fonde con un sound più dark oriented dal vago ricordo Sisters of Mercy con tanto di finale tribale in salsa gregoriana stile Enigma. La voce di “It's Evil” é sguaiata e maligna e la musica riflette il brano precedente ma le chitarre sono molto soniche e tenute sempre molto distanti quasi a cercare un sound più psichedelico e lisergico.”Roguemos al Senor” crea un'atmosfera da film horror anni 70' e la voce narrante che troviamo in altri punti dell'album rende il tutto molto drammatico.”Suck the Cross” non rende e una batteria monotona unita ad una chitarra sottotono sono salvati da un cantato bestiale molto simpatico. Arriviamo all'ultimo brano dove uno zapping alla manopola di una vecchia radio, ci anticipa “Waiting the Horror”, che non cambia la scelta stilistica di una batteria drittissima e di una chitarra bloccata sullo stesso riff per tutta la durata del brano, il growl salva tutto e dona comunque un'atmosfera molto cupa al brano, stupenda poi la chiusura di pochi secondi tra organo e voce narrante stile vecchio film western! “Cheap Vudu” ha l'onore di mostrarci come la musica estrema si presti a tantissime personali interpretazioni anche anticonvenzionali! Per farvi un'idea, prendete i gruppi del Batcave anni '80, tipo primi Alien Sex Fiend, mischiatelo con il modo sanguinolento di intendere la musica di Rob Zombie e fondetelo con un film horror di serie B, trasportatelo nel metal estremo underground e avrete così “Counter of Pain”! L'effetto potrebbe stordirvi, farvi vomitare oppure eccitarvi a dismisura! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 65
 

Stangala - Boued Tousek Hag Traou Mat All

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Electric Wizard
Abbassate il cappuccio della veste sul volto e preparatevi all'album rivelazione di quest'anno. Il debut album degli Stangala (gruppo francese di nome, ma bretone di fatto) "Boued Tousek Hag Traou Mat All" è un viaggio psichedelico nello stoner-doom in chiave celtica, a suon di sacedoti druidi, sabba sfrenati e riff di chitarra duri come gli scogli che si affacciano sull' oceano. Questo album, interamente cantato in bretone, è un inno occulto a questa regione che non si è mai sentita francese e al di la dei testi che non comprendo (tradotti in parte nel libretto contenuto nel cd), lo ritengo un diamante nel fango inutile che imperversa nella rete. Registrazione analogica, scricchioli e rumori di sottofondo degni del vinile più vecchio e consumato che avete in camera, strumenti a fiato tipici, gli Stangala (ri)creano delle sonorità che possono teletrasportarvi in un mondo tramandato a oggi oralmente, ma che avrebbe gioito di questa perfetta colonna sonora. Il primo brano "Doom Rock Glazik" riprende le sonorità dei vecchi Black Sabbath con estrema destrezza tecnica di chitarra/basso/batteria, infatti insieme creano un riff epico che percorre tutto il brano in diverse varianti. Poi è il turno di "Al Lidou Esoterik An Dolmen Hud",  personalmente il mio inno celtico, dove la chitarra passa da un' intro in phaser ad assoli di Hendrixiana memoria. Ottimo lavoro, veramente un pezzo arrangiato con le palle. "Kalon An Noz" è un pezzo completamente strumentale, suonato da cornamusa bretone e bombarda (presente anche in altri brani), strumenti a fiato bretoni che trasmettono tristezza e orgoglio di un popolo vivo e consapevole della proprio identità. Subito si rimane spiazzati dai quattro minuti di delirio introspettivo, ma se li ascoltate con l'orecchio giusto, sarà un momento di totale raccoglimento mistico. Probabilmente è il rifacimento di una ballata bretone, ma non ci giurerei onde evitare di venire incenerito sul posto da un druido incazzato! I dieci pezzi dell'album sono notevoli, prendono spunto dai ben più famosi Electric Wizard e altri dei pagani, ma siamo sulla buona strada per creare un nuovo genere. Spendete questi 3€ per la versione download (11€ per quella fisica) altrimenti verrete sacrificati all'ombra del primo menhir... (Michele Montanari)

(Solitude Productions)
Voto: 85

domenica 8 aprile 2012

Alchemist - Tripsis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Avantgarde, Musica da Marte
Io sono nato e cresciuto con gli australiani Alchemist e ogni loro uscita rappresenta per me un evento da celebrare. Anche il loro sesto lavoro, intitolato semplicemente “Tripsis”, è riuscito a conquistarmi, con il suo inconfondibile marchio di fabbrica “made in Australia”. Nove pazze tracce che non fanno altro che confermare la brillantezza compositiva degli aussie boys. Come sempre, per spiegare una release del quintetto di Camberra, bisognerebbe farsi una vacanza su Marte e poi, dopo aver aperto la propria mente, inserire il cd nello stereo e via con la musica. Si attacca con il prepotente basso distorto di “Wrapped in Guilt” e le sue melodie malate mid tempos, che ricordano le song di “Spiritech”; il vocione di Adam Agius è sempre lo stesso, un mix di growl-screaming da orco; la ritmica si è fatta più violenta che in passato, ma gli effetti e i samples space rock, non mancano mai. Con la successiva “Tongues and Knives” si inizia a scuotere la testa che è un piacere: melodie schizoidi su un tappeto ritmico ferocie, una sorta di spirale impazzita accompagnata da una danza tribale. La terza, “Nothing in no Time”, è più riflessiva delle altre: in essa confluiscono le influenze psichedeliche del combo australiano, con la furia elettrica delle chitarre capaci di passare dal death più selvaggio alla costruzione di fraseggi groove assai rockeggianti, che ricordano il geniale debut “Jar of Kingdom”. Altri pezzi memorabili sono “Grasp at Air” dove un simpatico coro si stampa nella testa e non si leva più e l’oscura/mistica “God Shaped Hole”. Ancora una volta, un album di questi pazzi scatenati, si rivela un contenitore ben amalgamato di stili: è il perfetto connubio tra brutal death e rock, passando attraverso contaminazioni gothic, industrial, senza tralasciare i suoni lisergici di stampo seventies, elettronica e tanto tanto altro. Atmosferici, sperimentali e dannatamente violenti, questi sono gli Alchemist; se siete degli amanti di suoni progressive/avantgarde e se siete alla ricerca di linfa vitale, beh “Tripsis” farà al caso vostro. Per chi invece non li conoscesse ancora, beh mi raccomando, avvicinatevi con cautela!!! (Francesco Scarci)

(Relapse Records)
Voto: 80

Heaven If - Introspectral

#PER CHI AMA: Power Metal e Progressive, Dragonforce
Altra band italiana, stavolta proveniente dalla vicina Milano: formatisi nel 2004, la loro musica può ricordare un'altra band del nostro paese, i Labyrinth, oltre ad accostarsi ai Dragonforce. Vediamo di approfondire meglio il loro primo lavoro, uscito nel 2008. “Liquid Circle” ha un suono piacevole, ma la voce tendente all'acuto, mantiene costantemente quell'aria di falsetto e dopo un po', annoia: i riff di chitarra e batteria si rivelano assai ripetitivi, anche se i “solo guitar” riescono a dare un po' di brio a tutto il brano. “Points of View” presenta un ritmo più veloce, con la chitarra che sembra animarsi, accompagnando bene la voce che spesso cambia tonalità, passando dall'acuto al grave. “Cassilda's Song” è invece meno veloce e più melodica, con la chitarra che funge da primadonna assieme al drumming, mentre la voce stavolta viene relegata in secondo piano anche se è tirata fino al massimo dell'acuto (ricordiamo che il cantante è un uomo, dunque è difficile poter sostenere note acute per molto tempo): soltanto verso la metà del brano, si ha una piccola inversione di tendenza sul ritmo, diventando più veloce e vivace. Il tutto si conclude con un assolo di chitarra molto interessante. “Passage” riprende il ritmo di “Points of View”, diventando quasi la sua copia, fatta eccezione per il falsetto molto più presente e per l'uso abbondante della chitarra distorta. “Behind the Lies” si apre con un sound più progressive, un ritmo più lento e l'immancabile voce che gioca ancora con i bassi e il falsetto. Questo, a mio avviso, è il brano più bello di tutto l'album proprio per la ricercatezza negli accordi e nel ritmo. “The Neverending Journey” ricalca le atmosfere ascoltate precedentemente, tenendo però in considerazione il filone ritmico di tutto l'album, e arrivando persino a ripetere gli assoli di chitarra e batteria. “Insomnia”, nella prima metà, è puramente strumentale: soltanto poi riprende gli stessi riff di chitarra e lo stesso ritmo dei precedenti brani. “Instru-Mental” è totalmente strumentale (come chiaramente descritto dal titolo), con un ritmo che ricalca le onde: dapprima è veloce, poi risulta più lento, per poi riprendere il motivo “allegro andante”, risultando una vera sorpresa per le orecchie. Con “The Reawakening” si arriva così alla fine di questo album: l'inizio acustico, ma poi, più avanti si procede col brano, noterete che di nuovo non presenterà nulla: né gli assoli, né il tono di voce, tanto meno il ritmo. Per quanto questa band abbia un potenziale nascosto, il fatto di voler rimanere sul power metal dopo un po' stanca: l'ascolto risulta pesante anche per un'appassionata di power-melodic come la sottoscritta, in quanto l'assenza delle tastiere si sente veramente tanto. In attesa di un nuovo loro lavoro, possibilmente più ricco di sperimentazioni musicali (e, perché no, magari di diversi stili in un unico album), ripongo questo primo album sullo scaffale, sperando presto di poterlo mettere a confronto con il secondo. (Samantha Pigozzo)

(New Music Distribution)
Voto: 50
 

The Foetal Mind - The Grand Contraction

#PER CHI AMA: Black, Post Rock, Shoegaze
Un peccato! Eh già, davvero un peccato che questo lavoro sia quasi completamente strumentale (solo “Big Crunch” è infatti cantata o meglio urlata), perché altrimenti a “The Grand Contraction” avrei riservato sorte migliore, in termini di voto ovviamente. “The Grand Contraction” rappresenta il secondo “figlio” per il duo francese, che dopo l’esordio del 2009, “Suprême Cheminement”, pensa bene (a questo punto oserei dire, male) di rilasciare questo lavoro: a parte la solita inutile intro, l’album attacca appunto con “Big Crunch”, song che mette subito in mostra la marcata vena malinconica del duo, guidato da Lord Trowe e Lord Vaahl. La produzione targata The Foetal Mind è in linea con quelle dell’attenta etichetta canadese Hypnotic Dirge Records, ponendo l’emozionalità ed il pathos, al centro della proposta del combo transalpino. E cosi, ecco i nostri sciorinare, con una certa freschezza, le fluide song che si dipanano con un sound all’insegna dell’inquietudine nell’arco dell’ascolto, attraverso musiche contraddistinde da melodie soft e al contempo toni grevi, che rischiano talvolta di sfociare nel doom o addirittura nel drone. Non solo, perché l’essenza strumentale delle composizioni, porta più di una volta ad associare il sound dei nostri, ad un certo post rock, seppur il riffing di chitarra abbia comunque le classiche venature del black metal atmosferico, come avviene ad esempio nella meravigliosa “Silence”, dove la chitarra offre affreschi aranciati tipici del periodo autunnale o nella più corrosiva “Espirit Nosible”. La componente depressive si sente decisamente forte anche in altre song, dove intermezzi acustici trovano ampio spazio (la title track ad esempio o la cupa “Instrumental”) e questo non fa altro che aumentare il mio rammarico nei confronti di un lavoro che se avesse goduto anche della performance di un bravo vocalist, e di qualche atmosfera in più di tipo shoegaze, avrebbe sicuramente dato il filo da torcere agli Alcest o ai Les Discrets, e certamente avrebbe meritato molto di più la mia attenzione. Da rivedere anche la produzione del disco, che presenta le tracce con volumi di registrazione impostati su differenti livelli. Un peccato si, un vero peccato perché i The Foetal Mind hanno decisamente la caratura tecnica e stilistica per fare sfracelli. Il mio consiglio è quindi di guardarsi attorno e cercare un vocalist con le palle! (Francesco Scarci)

Monumentum - Ad Nauseam

#PER CHI AMA: Dark Electro-Gothic
Ad introdurmi all'ascolto dell’album dei Monumentum è la meravigliosa tela di Alessandro Bavari riprodotta in copertina, dal titolo “Aula della Coprofilia”, la cornice più indovinata e calzante per la musica di “Ad Nauseam”, che sembra attingere dal grigio tocco dell'artista romano lo stesso senso di oppressione che il quadro è in grado di infondere. Dal primo album “In Absenthia Christi”, che uscì nel 1995 per Misanthropy Records, sono passati ben sette anni, un lungo silenzio che faceva temere lo scioglimento ma che ha invece contribuito a donare nuova linfa al gruppo, restituendoci una delle band più valide e singolari che l'Italia possa vantare. Il filo conduttore che lega questo nuovo lavoro al precedente è apparentemente molto sottile ed è evidente come le influenze dark-wave di “In Absentia Christi” oggi si rivelino impreziosite da un maggior dinamismo. Tuttavia, già dopo alcuni ascolti attenti, si avverte la medesima atmosfera drammatica e decadente del debutto e non si ha dubbio sul fatto che ci si trovi davanti ad un altro bellissimo album. “Ad Nauseam” è un lavoro che va assimilato lentamente per carpirne la bellezza e questo non significa necessariamente che si tratti di un disco difficile: la grandezza dei Monumentum sta, infatti, nell'assemblare una complessa ed elegante struttura di sovraincisioni senza che l'insieme perda mai in immediatezza, ma svelando certe trame nascoste solamente all'ascoltatore più paziente. Inutile tentare il paragone con altre band, perché la classe del gruppo milanese è unica; e se da una parte il loro suono riesce ad evadere dai cliché tipici di un genere come l'electro-gothic (a cui il gruppo potrebbe essere erroneamente associato), dall'altra va detto che risulterebbe azzardato anche un accostamento all'elettronica pop di gruppi appartenenti al mainstream, con i quali la band ha un'affinità solamente "estetica" riscontrabile in alcuni arrangiamenti. Brani come “Last Call for Life”, “A Tainted Retrospective”, “Perché il mio Amore” (cover di Fausto Rossi) e “Under Monochrome Rainbow” sono semplicemente bellissimi e vengono resi ancor più perfetti da un ispiratissimo Andrea Stefanelli, che grazie alla sua interpretazione vocale ci trascina in un vortice di affanno, negatività e abbandono, per poi liberarci e lasciarci esausti. Notevole anche la prova della cantante Francesca Bos, che per un istante riesce a tingere di un colore più vivido il dark-rock di “Distance” e “I Stand Nowhere”. Altre canzoni come “Angor Vacui” e “Numana” fanno invece della ricerca sonora il loro punto focale e si sviluppano senza l'ausilio del cantato, tra perversioni digitali e soffocanti incubi sonori. Senza esagerazioni, ritengo che “Ad Nauseam” sia uno degli album più belli che la scena alternativa abbia proposto negli ultimi anni... un grande ritorno, senza dubbio. (Roberto Alba)

(Tatra Records)
Voto: 90

http://www.myspace.com/monumentum

Mandrake - Calm the Seas

#PER CHI AMA: Death/Gothic, Theatre of Tragedy, Tristania
Sembra che i Mandrake abbiano sbagliato un po' i tempi. Il debutto discografico di questa giovane band ripropone infatti, in una collezione di undici brani, una sintesi di tutti quegli elementi del gothic metal già ampiamente sfruttati nell'intero corso degli anni '90, prima con i Paradise Lost e in seconda battuta con formazioni come Theatre of Tragedy e Crematory. Ed è proprio a questi ultimi che il gruppo tedesco sembra rifarsi, unendo in un solo platter tutti gli stilemi più scontati del metal romantico, a partire dall'alternanza tra una celestiale voce femminile e quella roca maschile, fino all'utilizzo massiccio di tastiere dal suono soffice e cristallino. Non che l'effetto complessivo risulti sgradevole, sia chiaro, ma dall'ascolto di “Calm the Seas” stento veramente a trovare dei punti di reale pregio che possano invogliare ad avvicinarsi alla musica dei Mandrake. Benché i musicisti si dimostrino padroni dei propri mezzi e siano supportati da una produzione che farebbe invidia a tante band emergenti, penso che anche il più imberbe e sprovveduto tra i fruitori di gothic-doom si accorgerebbe di quanto il disco suoni datato e non basti qualche partitura elettronica facile facile a rendere il tutto più attuale. In “Calm the Seas” non è la qualità delle composizioni a mancare e tra i brani più dinamici come “Shine” e “Essential Trifles” si intravedono incoraggianti spiragli verso un'evoluzione più personale ed ispirata, tuttavia, il pesante limite del "già sentito" aleggia sempre in maniera troppo insistente durante tutto l'ascolto, facendo provare giusto un po' di nostalgia per un suono che andava per la maggiore qualche anno fa, ma non riuscendo certo a sollevare l'album da un giudizio che supera di poco la sufficienza. Trascurabile. (Roberto Alba)

(Greyfall)
Voto: 55

venerdì 6 aprile 2012

Dead Summer Society - Visions from a Thousand Lives

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, My Dying Bride
Il Belpaese mi sorprende ogni giorno di più, regalandomi costantemente belle sorprese, almeno in campo musicale. E cosi quel che oggi mi appresto a recensire, è il debut cd della one man band molisana dei Dead Summer Society, band capitanata da Mist, chitarrista degli How Like a Winter. “Visions from a Thousand Lives”, che segue ad un paio di anni di distanza, il demo cd “Heart of the Autumnsphere”, è un bell’esempio di black gotico, che ha subito rievocato in me un altro debutto eccellente, “Thieves of Kisses” dei Drastic; era il 1998 e le atmosfere decadenti andavano alla grande, grazie soprattutto ad act quali Katatonia (forte l’alone della band scandinava a permeare anche il lavoro di Mist) e il death doom di My Dying Bride e Paradise Lost. E il buon Mist, non immune al fascino dei grandi act di ieri e di oggi, aiutato da Trismegisto (altra conoscenza del Pozzo, con i suoi Cult of Vampyrism) alle vocals, propone un sound che paga si un minimo dazio alle band succitate (ma quale band ormai non si ispira ai mostri sacri?), rilascia dodici interessanti pezzi di suoni evocativi, ispirati ed esoterici. La malinconia del pianoforte e delle tastiere è l’emozione dominante in “I Met You in Heaven and Hell”; i suoni a la Katatonia emergono forti in “Shadow I Bear”, dove le oscure vocals di Trismegisto, si alternano tra il growling e il pulito sussurrato e dove trovano posto anche le female vocals di Claudia M. Luisa Murella (la cui timbrica mi ha riportato alla mente la vocalist degli embrionali Ensoph). L’inizio di “The King’s Alone” è un bell’esempio di metal atmosferico, dove sono le linee di chitarra a non convincermi appieno, un po’ troppo elementari e con un sound non troppo incisivo; l’onirico break centrale contribuisce ad assicurare una bella dose di turbamento all’ascoltatore e creare un destabilizzante clima di suspense; bravi in questo, anche se questo li avvicina ai siciliani Lord Agheros. Un pianoforte apre “Down on You”, altra song dal forte flavour deprimente, che vede la comparsa dietro al microfono di un’altra (ahimè terribile) gentil donzella, Federica Fazio; non me ne voglia, ma la prova alla voce non è certo di quelle memorabili, di sicuro non in senso positivo. Decido pertanto di skippare in avanti, nonostante il bell’intermezzo acustico posto a metà brano. La nera “Her White Body, from the Coldest Winter” mette in evidenza le influenze più legate al sound estremo dei My Dying Bride, ma al contempo anche l’uso un po’ fastidioso (e qui molto udibile; prima non me ne ero accorto) della drum machine, a rendere il sound un po’ troppo artificioso. Me lo faccio scivolare addosso e mi lascio avvinghiare dall’eterea atmosfera creata nella parte centrale dalla performance della brava Claudia. Un paio di inframmezzi ambientali e riecco un’altra manciata di song, “Within Your Scars”, “Unreal” e “I Fade”, dove ad affiancare il bravo Trismegisto ritorna la poco convincente voce di Federica, mentre i brani si fanno notare per un’anima estremamente volubile, che miscela sapientemente (e con giuste dosi) malinconia, rabbia e dolcezza. Chiude la cibernetica bonus track, “Army of Winter (March of the Thousand Voices)” che racchiude in sé deliziosi spunti per il futuro; auspico solo che vengano limate quelle imperfezioni che avrebbero potuto fare di “Visions from a Thousand Lives” un maestoso debutto. Stimolanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Darkmoon - Wounds

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico
L’attacco arrembante di “The Sword”, segna l’inizio di “Wounds”, terzo Lp di questa longeva band svizzera, la cui forma embrionale risale addirittura al 1995; potrete ben capire pertanto, che non si tratta degli ultimi arrivati che si sono accodati al carrozzone metal. E la proposta del quintetto di Basilea dimostra che i nostri non sono certo degli sprovveduti: death metal melodico (talvolta sospinto verso lidi black) dalle chiare influenze scandinave. Coinvolgenti. Incisivi. Prepotenti. Tre aggettivi che decretano la natura dei Darkmoon, che con il loro sound dirompente, hanno saputo conquistarmi e indurmi a contattarli. Gli ammiccanti chorus in stile metalcore americano, le orecchiabili melodie e il denso contenuto di groove, mischiato alle vorticose schitarrate, hanno avuto presa immediatamente sui miei timpani. E cosi, eccomi investito dalla travolgente e massiccia dose di death metal made in Switzerland. Che gli svizzeri non fossero solo orologi e cioccolato, lo avevamo già intuito con Samael o Celtic Frost, con Eluveitie e Darkmoon ne abbiamo un’ulteriore conferma. Nove agguerrite song in grado di coniugare robuste linee di chitarra con eccellenti trovate: “Conquistadors” si fa ricordare ad esempio per un inquietante break dalle tinte mediorientali; “Black Shell” per la sua cupa parte centrale, “Rise Up” e “Seki State” per i loro attacchi “in your face”, secchi, diretti, dritti al volto come il più classico uno - due pugilistico o il dritto e rovescio dei tennisti. L’idea del combo di Hölstein è davvero vincente, pur non proponendo nulla di nuovo; ma si sa che di Cassius Clay o di Björn Borg, non ce ne sono stati poi molti nella storia, ma che tuttavia ci sono stati altri validi protagonisti che si sono fatti notare per la loro bravura. Ebbene, i Darkmoon potrebbero essere tra questi, non dei precursori del genere, ma dei buoni esecutori, che hanno saputo prendere spunto dagli originali, per imbastire la propria proposta, che fa del death metal melodico, e anche un po’ (black) epico (splendida “Dead Cold World” a tal proposito), ricco di elementi atmosferici, suonato da musicisti dotati di ottima tecnica, il proprio punto di forza. Speriamo di non dover attendere ora, altri quattro anni per saggiare lo stato di forma dei nostri, che per il momento si conferma assai buono. Cavalchiamo l’onda ragazzi! (Francesco Scarci)

(STF Records)
Voto: 80